Ma che cosa c’è di più nauseante? Ciò che spinge il genocidio, lo tollera e lo sollecita. Ed è qualcosa di odioso; questa consonanza con l’orrore crea un disgusto molto potente, quasi inesprimibile. Un disgusto doppio, umano e politico.
Esiste una sorta di tribù che non smette di attaccare chiunque provi a ribadire l’ovvio, ovvero il comportamento disumano di Israele. Sono un numero non trascurabile, e indossano le speciali uniformi dei “giusti”, piene di stellette e di retorica.
Sanno ben poco, ma quel che sanno è il giubilo per ogni atto di Israele; per essi, ogni critico di Israele è un antisemita. Araldi dell’atlantismo e del liberismo militarizzato, proclamano frasi in rapida successione, ognuna delle quali restituisce un’esaltazione sospetta di “valori” o “principi” non negoziabili.
Non badano alla coerenza, quindi si permettono di essere ambigui; hanno spazio mediatico, e nello spettacolo della comunicazione ciò che conta è l’apparire. Veicolano un unico significato: Israele è il nostro doppio mediorientale, va difeso a prescindere.
Sono i rappresentanti dell’abiezione, si nutrono dello scalpitare degli stivali sul suolo palestinese. Hanno bisogno del genocidio per affermare la propria appartenenza.
Ogni guerra viene combattuta per interessi materiali, su ciò si fonda il senso dei comportamenti militari e politici – e ideologici. Nessuna nazione sfugge a questo “materialismo”. Quando «gli interessi materiali ed egocentrici di attori potenti» divergono, tutto il mondo diventa una trincea da scavare.
Lo scrisse con la consueta sintesi poetica Brecht: «Le merci devono essere realizzate, e scorra pure il sangue».
Gaza, prima assediata e resa “carcere a cielo aperto”, ora dalle sue rovine manda un messaggio al mondo: tra gli affari e la morte ci sono io. In superficie si vede gentaglia armata, impegnata nel massacro di un popolo; sotto, gli strateghi immaginano corridoi di merci, gas, acqua, armi.
Ma il popolo di Gaza è la talpa che non vuole lasciare la sua galleria al minatore; il suo unico tesoro è la sua terra.
Non la giustizia, ma gli affari, non i diritti, ma gli equilibri geopolitici. L’arroganza omicida di Israele e l’interesse geopolitico degli Stati Uniti hanno trovato un accordo: in cambio di un attacco all’Iran più simbolico che sostanziale, si garantisce il sostegno all’operazione su Rafah e, soprattutto, si pone il veto al riconoscimento in sede Onu della Palestina.
Una mostruosa creatura della diplomazia, che allontana da sé ogni “cessate il fuoco” e spinge sempre di più verso la morte di un popolo.
Perché la mediazione tra la voglia di vendetta di Israele e la necessità degli Stati Uniti di un’area mediorientale pacificata tocca nel vivo il meccanismo del genocidio, che è spinto oltre il livello attuale e che diverrà ancora più tremendo con l’attacco a Rafah.
Questo è il solo significato possibile dell’accordo tra i due stati “canaglia”; il “veto” al riconoscimento della Palestina è la ciliegina sulla torta, l’esito beffardo d’uno scambio che chiunque abbia a cuore la “comune umanità” non può che definire “criminale”.
Qui dovrebbe cominciare il vero disgusto, che fonda il diritto dei palestinesi di non soccombere per un interesse materiale. Si sa – spontaneamente, direi – quanto tutto il discorso sui “valori” occidentali sia falso; troppe volte lo abbiamo verificato.
Ma se quello che sappiamo non si trasforma in disgusto, a cosa serve saperlo? È oggi enormemente importante che quel doppio disgusto – insieme umano e politico – si esprima all’aria aperta, nelle strade, nelle scuole, in ogni luogo dove potersi mettere a confronto; si tratta di riconoscersi in una “comune umanità”.
Ogni popolo ha il diritto di essere considerato pari agli altri, e lo sterminio di un popolo dovrebbe sempre interessarci, perché con esso muore anche una parte di noi. Un genocidio in atto è più importante di ogni altra cosa; non serve capirlo, serve opporsi ad esso, fermarlo.
Anche chi non conosce la storia del conflitto israelo-palestinese può comprendere l’orrore che si sta compiendo a Gaza. Si tratta di vergognarsi di noi stessi, perché siamo noi occidentali i primi complici di quel genocidio; si tratta di dire “basta”. Ognuno trovi il suo modo, purché si cominci e non si smetta di farlo.
Un “basta” umano e politico, fondato sul disgusto. Prima che sia troppo tardi.
Ora, per una questione di equilibrio politico dell’area, gli Stati Uniti permettono a Israele di continuare a sterminare i palestinesi, che passano da un massacro all’altro per quell’insaziabile voglia di egemonia che trasforma gli stati in predatori e i popoli in prede.
Nel festival giornaliero dell’orrore, gli stessi che sostengono Israele non smettono di invocare “valori” o “principi” da difendere; è come se l’arma fumante debba giustificarsi ricorrendo all’etica o alla morale, altrimenti di essa non rimarrebbe che il ferro.
Il cinismo e l’impostura come attitudine di quella tribù vociante che ammorba il nostro tempo. Un’enorme mistificazione ideologica in cui intellettuali e politici usano lo scontro “valoriale” per coprire qualcosa di più scabroso: gli interessi materiali, appunto.
La tendenza della tribù liberale e atlantista «a ricoprire con il linguaggio dei valori la disputa strategica», questo è un buon punto di partenza per smascherare la complicità col genocidio. Perché suona come un’assurda perversione che quel genocidio si compia in nome di “valori” o “principi” positivi come democrazia o libertà.
Il fatto stesso che qualcosa di terribile stia avvenendo a Gaza – cosa facilmente verificabile – fa sì che ogni “valore” o “principio” si esaurisca nelle conseguenze immediate di un comportamento criminale. E il “bene” e il “giusto” non possono coincidere con un genocidio.
Ecco, questo è un buon punto da cui cominciare: sottrarsi a un’idea di democrazia che contempli non solo l’occupazione coloniale, ma anche la dissennata distruzione di un popolo. Pensare altrimenti. Per affermare un’altra idea di democrazia.
* da Facebook
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