“…E imparava la storia dei forti, dei vinti
Dei mondi già estinti molti conflitti, morti, feriti,
i moti per un mondo di liberi…”
La Bella Creola, Murubutu
La fase di conflitto sociale iniziata il 18 ottobre in Cile, ed entrata questo lunedì nella sua quarta settimana di vita, ha vissuto con lo sciopero generale di questo martedì 12 novembre una giornata storica.
Come riporta “Telesur” citando i dati degli organizzatori – 129 realtà organizzate raggruppate nella Mesa de Unidad Social – 2 milioni di persone si sarebbero mobilitate in questa giornata; alla Huelga General avrebbero preso parte il 90% dei dipendenti del settore pubblico e il 60% di quello privato, con gli scali portuali – più di una ventina – per la stragrande maggioranza fermi.
Una riuscita eccezionale che ha di fatto paralizzato il Paese, dopo il precedente sciopero generale del 23 ottobre svoltosi nel pieno dello Stato d’Emergenza, promulgato dal 18 al 28 dello stesso mese.
E all’ordine del giorno della discussione della Mesa lo sciopero generale ad oltranza come ha dichiarato Luis Mesina di “No+AFP”, organizzazione che si batte contro le pensioni private.
Picchetti, blocchi stradali e barricate sono stati effettuati sin dal mattino presto su tutto il territorio nazionale, così come si sono svolti cortei nelle principali città spesso facendo confluire in un’unica fiumana umana i vari concentramenti che si sono sviluppati nei territori circostanti.
Da Arica a Antofagasta, da Valpaiso a Santiago, da Temuco a Concepcion, le strade e le piazze sono state invase da una marea umana di ogni età e di ogni settore, incontrando anche in questo caso la feroce repressione dei Carabineros e degli agenti della PDI.
Alcune cifre danno la misura del prezzo che sta pagando il popolo cileno – e la nazione Mapuche – per la strenua lotta contro i 30 anni di politica neo-liberista, che hanno visto nel Paese Sud Americano il primo laboratorio per sperimentare le ricette della contro-rivoluzione economica pianificata dai think tank nord-americani.
Secondo le puntuali denunce dell’associazione indipendente di salvaguardia dei diritti umani INDH, 5 persone sono state uccise, 2300 sarebbero state ferite, e circa duecento – 196 per la precisione – avrebbero subito dei “traumi oculari”, provocati dalle balines de goma: questo è l’amaro bilancio fatto prima di ieri.
L’Associazione dei Medici si è spesa per la proibizione di tale tipo di armamenti, mentre vari video di sensibilizzazione del movimento richiamano l’attenzione su questo fenomeno, non dissimile da ciò che conosce la Francia da un anno, a causa delle armi in dotazione delle forze dell’ordine francesi, tra cui le “granate di dis-accerchiamento” e le “pallottole di gomma”(LBD).
Un altro aspetto del comportamento della repressione cilena fortemente denunciato dal movimento sono le violenze sessuali subite dalle donne (e dagli omosessuali), e le minacce ricevute di “stupro educativo”, con la pratica diffusa dell’essere costrette a spogliarsi durante l’interrogatorio in caso di arresto e l’impossibilità di re-indossare i propri indumenti intimi.
Sarebbero 93 le violenze accertate, di cui 23 nei confronti minorenni.
I casi sono seguiti in particolare dallo ABOFEM, una associazione di avvocate femministe che rappresentano una parte delle donne che hanno sporto denuncia per le violenze subite.
Proprio il 1 novembre si è svolta una marcia per le donne uccise, torturate e violentate, organizzata da varie organizzazioni femministe che dai primi giorni della protesta sono state “in prima fila” nel movimento ed in parte precorritrici dell’esplosione di questa ondata di rabbia sociale (insieme alla nazione Mapuche) e che da tempo chiedono le dimissioni della ministra “di genere”, Isabel Plá, talmente ipocrita da “tweettare” contro la violenza di genere quando il suo governo ne è uno dei maggiori responsabili.
Il rappresentante di Amnesty per il Cile ha dichiarato senza mezzi termini questi trattamenti durante gli interrogatori che ricordano le pratiche della dittatura militare.
Da parte loro i rappresentanti del governo negano l’evidenza, reiterando solo la condanna delle violenze dei manifestanti come è avvenuto in una audience speciale della CIDH – il Centro Interamericano per i Diritti Umani – a Quito questo lunedì.
Appare chiaro che l’impunità garantita alle forze dell’ordine è dovuta al fatto che esse sono l’unico vero garante – insieme alla destra latino-americana e all’amministrazione nord-americana – della tenuta dell’establishment politico attuale, e qualsiasi segno di cedimento nel coprire l’operato degli apparati di sicurezza potrebbe avere conseguenze nefaste sul “morale delle truppe”.
Bisogna ricordare che di fronte alla violenza degli apparati di sicurezza, hackers hanno reso pubblici i dati di più di 29.000 agenti, tra cui il domicilio…
Quali saranno gli sviluppi di questa fase?
Già dalla sera del 12 novembre le difficoltà del Piñera erano evidenti, e occorre ricordare che ormai vive asserragliato nel suo quartiere a San Damian…
Secondo quanto riportato da “Interferencia”, il Presidente in carica da meno due anni avrebbe deciso di decretare nuovamente lo Stato d’Emergenza, ma le alte cariche dell’esercito avrebbero rifiutato.
Se ciò fosse vero, sarebbe un segnale importante, e dimostrerebbe come questa parte dell’establishment non voglia immolarsi per il Presidente e che abbia valutato che il reiterarsi di un proprio intervento provocherebbe tout court una guerra civile nel Paese.
Pubblicamente Piñera, che alle dieci e mezza di sera del 12 si è rivolto ai suoi concittadini, ha detto che avrebbe fatto ricorso a carabineros e agenti della in pensione per le necessità di mantenimento dell’ordine pubblico; non proprio un segnale di forza nel governo delle contraddizioni sociali…
L’opposizione parlamentare tutta, dalla Democracia Cristiana – che collaborava con il Presidente – al Frente Amplio, in un comunicato congiunto lo ha esortato ad una azione politica rapida che venga incontro alle richieste emerse in queste quattro settimane; altro segnale della fino ad all’impossibilità di una via d’uscita pactada all’attuale impasse politico, vista l’insipienza dell’azione dell’esecutivo, tranne che per il profilo repressivo.
Dal canto suo, Piñera non ha fatto altro che fare dichiarazioni assai vaghe tendenti a volere prefigurare degli accordi senza contenuti concreti se non la condanna alla violenza (senza fare riferimento a che tipo di violenza) e l’ipotesi del ripristino della pace sociale, una indefinita agenda sociale e una nuova Costituzione – senza minimamente dichiarare il processo che porterà a questa – che verrà sottoposta a referendum.
Dall’altra parte le rivendicazione del movimento sono più che esplicite e coniugano precise rivendicazioni sociali che sono agli antipodi del neo-liberismo spinto fin qui praticato e un nuovo patto costituzionale che sia il risultato di un processo costituente, e non una “concessione” elaborata da quell’élite politica rappresentante dell’oligarchia economica, l’una scredita l’altra sempre più odiata.
La battaglia del Cile, come quella in tutta l’America Latina, va avanti e mostra allo stesso tempo la ferocia di una oligarchia geneticamente golpista – era proprio Piñera che aveva detto siamo in guerra -, non in grado di formulare un progetto di allargamento del consenso oltre i suoi angusti perimetri sociali, considerato che in Cile la proletarizzazione dei ceti medi – nel doppio senso di “classe di mezzo” e di “classe che media” – è un fatto compiuto, e dall’altro la determinazione di un movimento reale che ha colmato nelle strade e nelle piazze il vuoto di rappresentanza politica vissuto da tutti i subalterni, in particolare quelle porzioni di lavoratori strategiche per il Paese che hanno riscoperto la forza sociale e l’autonomia politica di cui sono capaci.
Il popolo cileno sta realizzando quello che poche settimane fa sembrava solo uno slogan che una minoranza della società si ostinava a gridare nelle manifestazioni…
Sarà il Popolo che vendicherà Salvador Allende.
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