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Terremoto latinoamericano

La lotta di classe torna a scuotere il Sudamerica. A dispetto della rappresentazione data dai maggiori organi di informazione nazionale e internazionale, lo spettro del cambiamento reale e la ferocia della repressione borghese, militare e fascista riempiono di nuovo le strade e le carceri (quando non gli ospedali e gli obitori) del continente.

L’inasprimento dello scontro a tutti i livelli – di quinta generazione, come ha scritto lvaro Rangel, politico-istituzionale, mediatico, militare, sociale e sindacale, interessa la quasi totalità della Regione e si sviluppa a macchia di leopardo con una quantità tale di “focolai” da legittimare un tentativo di generalizzazione, nel rispetto delle specificità, sull’ampio territorio a sud del Mar dei Caraibi.

Il caso più eclatante è quello della Bolivia, dove tra le giornate di sabato e domenica si è consumato il colpo di Stato ai danni della popolazione boliviana e del suo presidente scelto Evo Morales. La vittoria schiacciante del Mas alle elezioni dello scorso 20 ottobre non ha impedito all’opposizione falangista di organizzare violente proteste prima e l’ammutinamento delle forze armate poi. La richiesta dell’Organizzazione degli stati americani di indire nuove elezioni era stata solo il preludio all’uscita di scena del presidente, “suggerita” in prima persona dal comandante dell’esercito Williams Carlos Kaliman Romero. Il tradimento di tutti i più alti ufficiali in nome dell’oligarchia bianca e proprietaria vorrebbe porre un freno alle politiche di redistribuzione che il paese portava avanti fin dal primo governo Morales del 2006, togliendo di nuovo voce e rappresentanza a quei nativi indigeni che nel Movimento per il socialismo avevano trovato una possibilità di giustizia sociale e di benestare economico.

Ma per capire la natura generale dell’evento, basti pensare che lo scorso mercoledì in Brasile un gruppo di sostenitori di Juan Guaidò ha preso d’assalto l’ambasciata del Venezuela a seguito dell’auto-proclamazione in un Parlamento semideserto di Janine Añez (presentatesi alla popolazione con una Bibbia viola), senatrice dell’opposizione, a Presidente ad interim della Repubblica plurinazionale (chissà ancora per quanto) boliviana  e dell’immediato riconoscimento dello stesso Guaidò (che ha dichiarato di ispirarsi alla Añez, verrebbe da aggiungere, risultato della destabilizzazione a parte) e dell’amministrazione statunitense – la quale, contemporaneamente al sostegno al processo di pace che questa svolta rappresenterebbe, ha ordinato ai suoi ambasciatori di lasciare il prima possibile il paese, alzando il livello di allerta a quello, per esempio, della Somalia.

Tuttavia, la Bolivia è solo l’ultimo esempio, in ordine temporale, dello scontro generale che attraversa l’America latina.

In Cile, martedì 12 si è entrati nella quarta settimana di mobilitazione con uno sciopero generale che ha letteralmente riempito le strade delle maggiore città oltre-andine. La huelga nacional è stato il momento organizzato più avanzato della lotta che il variegato movimento sindacale, politico e sociale (riunitosi nella “Mesa de la unidad social”) sta portando contro le politiche di austerità del presidente Piñera, e più in generale contro più di mezzo secolo di privazioni e ingiustizie. L’amministrazione cilena ha risposto con una ferocia che sembrava dovesse aver lasciato la storia con la caduta del regime Pinochet. Le lievi aperture dell’attuale governo non stanno scalfendo le richieste della popolazione, ferme su una nuova costituente, sull’aumento del salario e della pensione minima, sul miglioramento dei servizi sociali, di trasporto, di comunicazione ed energetici, insomma di svolta radicale rispetto alla gestione degli ultimi decenni.

Prima ancora era stata la volta di quella ecuadoregna, scesa in massa in strada per rispedire al mittente il pacchetto di riforme strutturali che il Fondo monetario internazionale aveva allegato come condizione alla concessione di un prestito al governo Moreno. Il voltafaccia di quest’ultimo, successore di Correa ma votatosi immediatamente al neoliberismo una volta salito in carica, ha spinto un paese intero a riversarsi per le piazze a seguito dell’eliminazione del sussidio per il carburante, costringendo il presidente a decretare lo stato d’assedio, per poi rifugiarsi in una base militare di Guayaquil e a ritirare le misure volute dal Fmi, decretando il successo della mobilitazione popolare.

A proposito di vittorie sancite dalla disponibilità alla lotta di un popolo, il 2019 è stato teatro dell’ennesimo tentativo da parte dell’imperialismo nordamericano di rovesciare il governo bolivariano del Venezuela. L’unione civile-militare inaugurata da Chavez non si è scalfita nelle mani del successore Maduro. Nonostante un bloqueo economico pesantissimo, il Venezuela si conferma punta più avanzata nella penisola di un’alternativa all’organizzazione sociale imposta dal modo di produzione capitalistico. I caraibici sembrano ormai aver introiettato dentro di sé il valore della lotta contro quell’imperialismo fatto di sfruttamento, ingiustizia e repressione, mantenendo ben salde le leve del potere e della partecipazione attiva di base, ottenute con il processo bolivariano, capisaldi della democrazia socialista.

Anni di embargo, propaganda yankee e tentativi di destabilizzazione dell’isola non hanno intaccato all’eroico popolo cubano la consapevolezza dell’“irrevocabilità del ruolo del socialismo e del sistema politico e sociale rivoluzionario”, messa nero su bianco nella nuova costituzione approvata da più dell’85% delle persone lo scorso febbraio.

Alla lotta, quella militare, sono tornate invece le Farc-Ep. A fine agosto infatti l’ex numero due Iván Márquez ha annunciato una nuova fase della lotta armata, in risposta al tradimento degli accordi di pace, siglati solo tre anni fa all’Havana, da parte dello Stato colombiano, reo di aver continuato il massacro dei guerriglieri una volta tornati alla vita civile.

E ancora, il 27 ottobre ha visto la fine del più breve mandato post-dittatura militare (escluse le nomine ad interim) della Repubblica federale argentina. La macelleria sociale dettata da Mauricio Macrì è stato rispedita al mittente da un elettorato che è tornato a investire su un governo progressista, chiamato al durissimo compito di risollevare un paese troppo spesso messo in ginocchio dalla speculazione finanziaria e dalla subordinazione al dollaro statunitense.

In Uruguay invece, si andrà al ballottaggio il 24 novembre, giorno in cui il Frente amplio dovrà cercare di confermare il vantaggio ottenuto al primo turno.

In Brasile, la liberazione dell’ex presidente Lula potrebbe riaccendere qualche speranza in una fase molto critica per il paese. Dopo più di 500 giorni di prigionia, il co-fondatore del Partito dei lavoratori torna alla libertà e di fatto sancisce una punto a sfavore dell’amministrazione Bolsonaro, che dell’esclusione dalla contesa elettorale di Lula fece un tassello determinante per la salita la potere.

Questo è il quadro politico generale che si manifesta a un sguardo rapido sul continente. Per usare un’espressione di Marx, si potrebbe dire che “la terra trema”, frase scritta per ricordare come la storia e l’assetto sociale siano il frutto della disponibilità alla lotta da parte delle classi  subalterne.

Se così stanno le cose, allora in America latina stiamo assistendo, come da titolo, a un vero e proprio terremoto politico e sociale.

La foto di copertina è ripresa dal post di Jose Miguel Araya

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