Da una quindicina d’anni il 12 dicembre non è più in Russia giorno festivo; ciononostante continua a esser proclamato Giornata della Costituzione. In precedenza, la Giornata si celebrava il 7 ottobre, per ricordare l’approvazione della Costituzione “brežneviana” del 1977.
Prima ancora, il 5 dicembre, data dell’adozione della Costituzione del 1936: l’unica Costituzione al mondo, ricordava giorni fa lo storico Stanislav Jarov, in cui non si proclamasse “ciò che dovrebbe essere”, ma si sancisse “ciò che c’è già”, che è divenuto solido patrimonio del popolo: tutto ciò che si trova sul territorio del paese dei soviet, dalla terra alle sue viscere, fabbriche, miniere, è nelle mani dello stato, delle cooperative e dei kolkhoz.
Quella attuale, è la Costituzione approvata (si fa per dire: prese parte al referendum il 54% degli elettori e votò Sì il 58% di essi) il 12 dicembre 1993, a sanzione delle cannonate ordinate da Boris-Clinton-Eltsin il 4 ottobre precedente contro il Parlamento russo e dei circa 800 morti che le precedettero e le seguirono.
Quella attuale, salvo due-tre leggeri aggiustamenti, è la Costituzione che l’allora ex Presidente della Corte costituzionale Valerij Zorkin (la sua dichiarazione di incostituzionalità del decreto eltsiniano 1400 del settembre 1993, che prevedeva in pratica lo scioglimento del Parlamento, gli era costata il posto; posto che occupa ora di nuovo dal 2003) aveva definito “autocratica” e a misura presidenziale.
Una Costituzione che, secondo i comunisti russi, sancisce anche a livello formale la separazione tra potere – e gli interessi da esso difesi – e popolo. Non che l’ultimo periodo di esistenza dell’URSS possa esser ricordato per “compattezza” tra vertici e società, ma la distanza tra i poli non era quell’abisso lamentato oggi; i ministri, si diceva allora, avevano i calli alle mani, venivano spesso dalla fabbrica, e non erano al servizio di oligarchie del denaro.
Forse anche per questo, secondo un sondaggio televisivo condotto tra persone di tutte le età e ripreso dal KPRF, il 92% dei russi afferma oggi che vorrebbe vivere nelle condizioni dell’URSS, soprattutto per “fiducia nel futuro, medicina gratuita e assenza di forti disuguaglianze sociali”.
Proprio il 12 dicembre, le Izvestija riportavano i risultati di un altro sondaggio, secondo cui il 26% degli intervistati teme seriamente di esser licenziato e, di fatto, sembra che nei prossimi due mesi sia concretamente a “rischio il 0,4% della forza lavoro”.
Una situazione davvero non paragonabile con quanto dichiarava Iosif Stalin al giornalista Roy Howard poco prima dell’approvazione della Costituzione del 1936: “Mi è difficile immaginare quale possa essere la “libertà personale” di un disoccupato affamato che non trova lavoro. La vera libertà esiste solo dove è stato eliminato lo sfruttamento, non c’è oppressione su alcuni da parte di altri, non c’è disoccupazione e miseria, in cui una persona non teme che domani potrebbe perdere lavoro, casa, pane. Solo in una tale società è possibile un’autentica, non formale, libertà, sia personale che di qualsiasi altro tipo“.
Oggi non c’è coincidenza di interessi tra potere e popolo, scriveva il 12 dicembre su Sovetskaja Rossija il deputato del KPRF Sergej Panteleev; tantomeno quando si consente un largo “afflusso di management straniero nei maggiori settori strategici: Rosneft, Gazprom, le grosse reti commerciali, la Banca centrale”; quando regna un “approccio liberale all’esportazione di capitali”; quando, come negli “ultimi 20 anni, si è aumentato l’export di due volte e l’import di sette volte”.
Oggi, afferma Panteleev, ci sono “due economie, due poli, due paesi”: c’è una economia “estera”, un “capitalismo super-liberale finanziario”, in cui tutto va per il meglio, con petrolio, gas, metalli, legname, mercati finanziari, settore bancario. In tale “economia estera”, nel 2018, 300 persone, che fanno capo a 25 grandi compagnie considerate “patrimonio nazionale”, hanno intascato 54,5 miliardi di rubli; nelle mani dei 10 russi più ricchi, stando a Forbes, è concentrato oltre l’83% della ricchezza privata.
C’è poi una “economia interna”, che non è in grado di garantire una vita dignitosa ai cittadini. Secondo il Rosstat, nel primo trimestre del 2019, c’erano 20,9 milioni di persone con redditi pari o inferiori al minimo di sussistenza; nel secondo trimestre erano scesi a 18,6 milioni: se “Rosstat proverà di nuovo, presto sconfiggeremo la povertà” ironizza Panteleev.
Ma lo stesso Rosstat certifica che oltre il 15% dei russi lavora solo per il cibo, il 49% per cibo e vestiario, il 32% può permettersi cibo, vestiti e un elettrodomestico, ma non un’auto o la casa; in generale “più del 90% dei cittadini non può vivere con dignità, avere fiducia e prospettive per il futuro”. Secondo l’Accademia presidenziale per l’economia, cresce il numero di nuovi poveri tra i giovani e i lavoratori attivi.
In effetti, secondo un sondaggio della Camera sociale, il 35% dei russi ritiene che il reddito minimo mensile di un lavoratore dovrebbe superare i 50.000 rubli e il 31% parla di 40-50.000 rubli, a fronte di un reddito medio nel 2019 di 42.595 rubli e uno minimo di 11.280, calcolati, come d’uso nelle statistiche, mettendo nel mucchio gli stipendi da centinaia di migliaia di rubli di funzionari pubblici e manager delle imprese private e i redditi da milioni di rubli del grande business.
Il tutto, mentre la governativa “Russia Unita” rifiuta per l’ennesima volta alla Duma la proposta di una tassazione progressiva sui redditi, in particolare per aumentare del 5% le imposte sui redditi di quei circa ventimila russi i cui introiti superano i 2 milioni mensili. Ma ROTFront ricorda come oggi il 14,3% dei russi si trovi oltre la soglia della povertà e il 25% delle famiglie disponga di redditi pari al minimo di sussistenza, mentre il 3% dei più ricchi controlli praticamente l’89% del patrimonio finanziario.
Da parte sua, sembra che il governo ricorra a misure tese solo a cercare di ridurre le tensioni sociali e non a risolvere le questioni vitali. E’ il caso del disegno di legge che prevede l’elargizione di una sorta di “presalario studentesco” (inferiore alla pensione) per la riqualificazione professionale, da ora al 2024, di circa 450.000 persone in età pre-pensionistica: tutti gli osservatori concordano sul fatto che tale disegno di legge conti sul fatto che gran parte dei “beneficiari” muoiano prima di raggiungere l’età della pensione – oggi la vita media dei maschi è di 66 anni, mentre l’età pensionistica viene portata a 65 anni – e, in ogni caso, nessuno garantisce che essi possano davvero trovare un nuovo lavoro in gran parte della provincia russa, dove di lavoro non ce n’è proprio.
Succede anche che, ad esempio in Baškirija, alcuni pensionati si vedano pagare parte dell’assegno mensile (che non supera i 13.000 rubli) in prodotti alimentari “di base”, tanto più che secondo il Rosstat, solo un terzo di russi pare possa permettersi regolari razioni di carne e pesce, orientandosi verso pane e patate, con minime “incursioni” su frutta e verdura, mentre, complessivamente il 30% dei redditi serve solo all’alimentazione.
E’ così che il 12 dicembre quella Costituzione eltsiniana del 1993 rinnova il proprio marchio di fabbrica sulla Russia putiniana.
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