Dopo le proteste contro la sentenza che ha condannato a decine di anni di carcere gli organizzatori del referendum del primo ottobre e archiviate le elezioni del 10 novembre scorso, l’indipendentismo si trova davanti a un bivio cruciale.
L’approssimarsi del dibattito parlamentare sulla fiducia al nuovo governo spagnolo si è rivelata infatti la scusa perfetta per avviare una trattativa tra il PSOE e ERC: incassato il sostegno di Podemos, i socialisti sono alla ricerca dell’astensione dei repubblicani catalani, condizione indispensable per guidare una coalizione di governo progressista; d’altro canto la direzione di ERC cerca disperatamente di avviare un dialogo con lo Stato, un confronto alla pari da presentare alla base del partito come un successo della propria strategia di riforma, necessario per disinnescare la mobilitazione di piazza e frenare lo sviluppo di un indipendentismo popolare e radicale che i repubblicani non controllano e che minaccia di diventare egemonico.
Così il PSOE e ERC si trovano faccia a faccia seduti a un tavolo, ma la scena non è ascrivibile alla grande politica. L’aspirante premier socialista Pedro Sánchez non ha alcun serio progetto di riforma, non solo per la Catalunya ma neppure per la Spagna e si è deciso a parlare con gli indipendentisti solo per mantenersi al potere, consapevole del fatto che in caso di un voto negativo di ERC, i baroni socialisti sarebbero ben contenti di defenestrarlo e virare decisamente verso il governo di grosse koalition con il PP. Molti autorevoli esponenti del PSOE, tra cui vari presidenti di diverse comunità autonome e l’attuale capo della diplomazia europea, Josep Borrell, hanno espresso apertamente questa preferenza.
Spaventata da alcuni tratti di indubbia radicalità emersi progressivamente nel movimento indipendentista, la dirigenza di ERC si mostra sempre più convinta della necessità di abbandonare la cosiddetta via unilaterale, a beneficio della politica dei piccoli passi e del dialogo con Podemos e con il PSOE. Il partito ha sottoposto alla base una consulta che suonava cosí: “siete daccordo a rifiutare la fiducia al governo di Pedro Sánchez se precedentemente non c’è un accordo per affrontare il conflitto politico con lo stato mediante una tavola di negoziazione“?
Scontata la risposta della base, che in massa si è espressa per rifiutare il sostegno gratuito al nuovo governo socialista. Ma la domanda era posta in modo tale da poter presentare qualsiasi vaga concessione dei socialisti come un successo e come l’inizio del processo che, nelle intenzioni di ERC, dovrebbe portare a un accordo con lo stato sulle modalità attraverso le quali esercitare il diritto d’autodeterminazione.
Fino a prova contraria però, il diritto d’autodeterminazione non è nelle corde dei partiti spagnoli, non solo in quelli conservatori ma neppure in quelli della sinistra, più o meno radicale. E ancora meno in quelle della confindustria spagnola e catalana, la CEOE e Foment del Treball, che nel corso delle proteste dello scorso ottobre hanno chiesto all’unisono il ripristino di legge e ordine per garantire il normale svolgimento delle attività economiche.
Nonostante dal tavolo delle trattative non sia emerso finora niente di più che una generica volontà di dialogo, senza alcun contenuto politico, la delegazione di ERC ha constatato “coincidenze notevoli” con i socialisti su temi cruciali quali il recupero dei diritti civili, sociali e del lavoro.
Ma com’è possible ravvedere nel PSOE la volontà di recuperare i diritti civili se nella campagna elettorale appena trascorsa Pedro Sánchez ha proposto di modificare il codice penale per inserire la convocazione di un referendum non autorizzato tra la lista dei reati? Com’è possibile constatare la volontà di recuperare i diritti sociali in un partito come il PSOE, che non si sogna neppur lontanamente di mettere in discussione la riforma del lavoro varata a suo tempo dal PP?
Ma c’è dell’altro: solo pochi giorni fa i socialisti hanno trasformato in legge il decreto sulla cosiddetta sicurezza digitale, una misura che permette al governo di chiudere una pagina web o negare l’accesso a internet senza una precedente autorizzazione della magistratura, a patto che l’esecutivo ravvisi una minaccia per l’ordine pubblico. Una misura approvata con i voti del PP e di Ciudadanos e con l’inquietante astensione di Podemos, che prima di raggiungere l’accordo di governo con il PSOE aveva aspramente criticato il decreto.
L’impressione è che sia in atto una manovra (che ambisce a portare a termine una vera e propria seconda transizione) per chiudere la finestra di cambiamento aperta dall’indipendentismo popolare sulla società catalana e lo stato spagnolo. In questo scenario, l’autonominata sinistra di matrice statale e i socialdemocratici di ERC sono i pompieri che si sono assunti l’incarico di spegnere con le buone la rivolta catalana. Un obbiettivo che, dal tavolo della negoziazione, vedono alla loro portata.
La deputata della CUP al parlamento catalano, Maria Sirvent, ha sostenuto che “qualsiasi accordo che cerchi di ridurre il conflitto otterrà tutto il contrario. C’è solo un modo per risolvere il conflitto: l’autodeterminazione e l’amnistia“.
La distanza tra la formazione anticapitalista e ERC è accentuata anche dalla campagna recentemente avviata dalla CUP contro un progetto di legge dei repubblicani, noto come legge Aragonès, che favorisce l’esternalizzazione dei servizi pubblici. Dal canto loro i Comitati di Difesa della Repubblica (CDR) si sono espressi con chiarezza contro quello che hanno definito “il simulacro di negoziazione” tra ERC e il PSOE: secondo queste strutture di base non si può svolgere alcuna trattativa in assenza di una amnistia per tutti i prigionieri politici e senza un precedente riconoscimento del referendum del primo ottobre.
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Francesco Introzzi
Cuneo, 17 dicembre 2019
L’indipendentismo catalano, a mioparere, dovrebbe essere inquadrato inun progetto federale europeofondato sul principio di un “federalismo civile a base ascendente localistica”. Il”federalismo civile” pone alla base della costruzione federale inter-localistica un patto federale di “comunità locali auto-organizzate, auto-governate e sovrane ma contestualmente “anti-autarchiche e anti-nazionaliste”. Il patto federale dev’e essere un momento costitutivo di un “sistema di governo reticolare” nel quale è il complesso geo-politico della federazione a deliberare – secondo procedure insieme concordate – i principi organizzativi e legislativi concernenti i trasferimenti di competenza tecnico-legislativa agli organi federali. In un quadro di “federalismo civlile” la sovranità locale è – e deve rimanere – intrasferibile: mai dev’essere una “capitale federale” a controllare la rete delle comunità locali (i cantoni o gli stati regionali) ma dev’essere – sempre – la rete delle comunità politiche locali a controllare gli organi federali e – quindi – il complesso amministrativo (ed estero-politico) della capitale federale.
Contro il “federalismo apicale” caratterizzato dalla “centralizzazione politica della struttura federale” – contro il “super-nazionalismo” proprio di un governo federale politicamente egemone il controllo politico della federazione – come afferma Carlo Cattaneo – deve rimanere – fermamente rimanere – “nelle mani del popolo, ossia della rete delle “comunità politiche federate” altrimenti si cade in uno schema politico che io chioamerei di “colonialismo interno”. Il guaio è che tanti “Stai federali” corrispondono a governi imperialisti che sono la negazio0ne del “federalismo civile” di cui, a suo tempo, si era fatto sostenitore il “federalismo risorgimentale italiano” snobbato, non solo dai monarchici filo-sabaudi, ma anche tutti i mazziniani italiani!
Francesco Introzzi