Non ci sarà nessuna tregua nel trasporto pubblico e nessuna pausa nelle controversie sulle cifre. Mentre martedì 24 dicembre è stato il ventesimo giorno dello sciopero contro la riforma delle pensioni – e il simbolo dei ventidue giorni dell’inverno 1995 dovrebbe essere raggiunto, se non superato – l’esecutivo non vede ancora la tregua che aveva sperato con i festeggiamenti di fine anno.
La protesta contro la sua riforma è ancora virulenta. Dal 23 al 26 dicembre, la SNCF è riuscita a far circolare solo quattro treni TGV e Intercity su dieci e le metropolitane e le linee RER nella regione parigina sono ancora ferme.
La fiducia è quindi ben lungi dall’essere ripristinata per il governo. E il suo ultimo tentativo di presentare gli inizi di una simulazione sulle conseguenze concrete della riforma non è stato molto rassicurante. E con buona ragione: le ipotesi mantenute per i casi presentati sono sistematicamente le più favorevoli possibili, e non guardano ai profili che dovrebbero essere svantaggiati con il nuovo sistema.
Il governo si è anche astenuto dal descrivere nel dettaglio le reali conseguenze dell’introduzione dell’“età pivot”, o “età d’equilibrio”. Difeso contro ogni previsione dal primo ministro Édouard Philippe, questo nuovo limite di età, che persino la CFDT rifiuta, pur essendo favorevole a un sistema a punti, verrebbe attivato per i francesi nati dopo il 1960, ancor prima dell’entrata in vigore del nuovo sistema universale, che dovrebbe applicarsi alle generazioni nate dopo il 1974.
Il collettivo Nos retraites, composto da attivisti e ricercatori, che si era già messo in luce a settembre dimostrando che la riforma avrebbe spinto al ribasso il livello delle pensioni, si è quindi assunto il compito di illustrare (sul suo sito) gli effetti di questa controversa misura di risparmio: essa interesserà almeno i due terzi dei lavoratori nati tra il 1960 e il 1975.
Pubblicando in maniera disastrosa, giovedì 19 dicembre, una serie di 36 casi tipici che mostrano le conseguenze concrete del futuro sistema a punti per alcuni profili ben scelti, il governo sperava di contrastare l’effetto devastante dei simulatori costruiti dai sindacati, e in particolare quello della Snes, il principale sindacato delle scuole secondarie.
Questo strumento fatto in casa ha in gran parte alimentato la rivolta degli insegnanti contro la riforma, con perdite di pensioni di diverse centinaia di euro per i professori che lo hanno consultato. Il simulatore della Snes, infatti, non tiene conto del forte aumento degli stipendi promesso dal governo, attraverso dieci miliardi di bonus distribuiti in dieci anni. Si tratta di una promessa importante, ma in cui la maggioranza dei rappresentanti degli insegnanti non crede, visti gli scarsi rapporti con il governo, che ha poco o nessun credito con loro.
Più in generale, con il suo catalogo di profili, il governo descrive le conseguenze della riforma per le generazioni nate nel 1980 e nel 1990, che vedranno parte delle loro pensioni calcolate secondo le nuove regole. Tuttavia, le ipotesi di calcolo adottate sono molto favorevoli al sistema futuro, al fine di presentarlo nella luce più positiva possibile.
Ad esempio, i quattro profili degli insegnanti selezionati mostrano tutti un mantenimento del livello di pensione rispetto al sistema attuale, in linea con l’impegno del governo. Ma questo mantenimento si ottiene attraverso l’assegnazione di nuovi bonus, il cui livello e il cui tasso di maturazione non sono stati di fatto negoziati in questo momento. Allo stesso modo, né i criteri relativi alle difficoltà, né le conseguenze dei periodi di disoccupazione o di gravidanza per le donne, né tanto meno i casi particolari dei beneficiari di regimi speciali o dei lavoratori autonomi, sono per il momento dettagliati per alcun profilo al momento.
C’è di più: il governo ha scelto di presentare solo i profili che iniziano la loro vita lavorativa a 22 anni. Il motivo è semplice: dopo i 42 anni di contribuzione richiesti, questi dipendenti fittizi avranno tutti 64 anni, cioè l’“età di equilibrio” prevista dalla riforma per il 2027 (l’età cardine verrebbe introdotta a partire dal 2022, a 62 anni e 4 mesi, e verrebbe abbassata di 4 mesi ogni anno). Ma se questi lavoratori iniziassero la loro carriera a 20 o 21 anni e volessero partire con lo stesso periodo contributivo, il livello delle loro pensioni sarebbe in realtà inferiore del 10% e del 5%, grazie allo sconto che verrebbe applicato per le partenze prima dei 64 anni.
Un altro probabile trucco è che i calcoli applicano la stessa età fondamentale per le generazioni nate nel 1980 e nel 1990, mentre è molto probabile che questa età si allontani anno dopo anno. A luglio, il Rapporto Delevoye prevedeva che sarebbero stati 65,4 anni per i nati nel 1980 e 66,25 anni per i nati nel 1990.
Il collettivo Nos retraites denuncia una “falsa dimenticanza” del governo. In un piccolo modulo che dovrebbe indicare ai lavoratori se sono interessati o meno dalla riforma, in base all’anno di nascita e alla categoria professionale, il governo promette che per tutti i nati prima del 1975, la “pensione sarà calcolata interamente secondo le regole del sistema attuale”. Ciò non è vero, come sottolinea la frase sibillina immediatamente successiva: “Si propone un pensionamento completo all’età di equilibrio di 64 anni per il 2027”.
Il collettivo ha quindi calcolato le perdite che questa famosa età dell’equilibrio potrebbe causare. Non sono minimali, tutt’altro. “La posta in gioco è di raggiungere 30 miliardi di euro di risparmio entro il 2030, cioè una media di 4.600 euro di risparmio per ogni pensionato nato tra il 1960 e il 1967 per l’anno 2030”, decifrano gli attivisti.
“Secondo il suo approccio relativamente “innocuo”, questa misura combinerebbe sia un aumento dell’età pensionabile per i pensionati, se vogliono andarsene a tasso pieno (all’età di 64 anni), sia una riduzione della pensione alla stessa età”, dettagliano. “Infatti, se non ci fosse stata alcuna riforma, andando in pensione a 64 anni, questi individui sarebbero colpiti da un costo aggiuntivo. Con l’introduzione dell’età cardine, essi riceverebbero a malapena una pensione completa, nonostante un periodo contributivo più lungo”.
Il collettivo ha dettagliato le conseguenze dell’introduzione dell’età pivot, ma anche quelle, ancora ufficialmente sul tavolo se le parti sociali decidono di farlo, di prolungare il periodo di contribuzione, o addirittura di innalzare l’età legale alla quale i francesi hanno diritto di andare in pensione. Queste ultime due opzioni riguarderebbero il 100% dei francesi nati tra il 1960 e il 1975.
Lo scenario che per il momento tiene la linea, quello dell’età pivot, interesserebbe solo i due terzi circa dei lavoratori. Il 15% delle persone (e il 20% delle donne) che raggiungono oggi il pensionamento completo lo fanno aspettando fino all’età di 67 anni, quando lo sconto per i lavoratori che non hanno contribuito per un numero sufficiente di anni di servizio pensionabile viene annullato.
“Oggi, 120.000 francesi devono aspettare fino all’età di 67 anni per avere una pensione completa”, ha sottolineato nel Le Journal du Dimanche Laurent Pietraszewski, il nuovo segretario di Stato per la riforma, appena nominato. Tutti questi francesi sarebbero esentati dall’attesa così lunga, e potrebbero partire a 64 anni… ma con una pensione sempre ridotta in proporzione al periodo contributivo mancante, come avviene oggi con il meccanismo poco conosciuto della ripartizione pro rata.
Ci sarebbe anche un guadagno per chi, all’età pivot, non raggiunge ancora il numero di trimestri che dà diritto alla tariffa piena, e che potrebbe andarsene alla stessa età di oggi, ma con un premio aggiuntivo. Ciò vale in particolare per i manager che iniziano a lavorare tardi e che ricevono già le migliori pensioni.
In tutti gli altri casi, i lavoratori ci rimetterebbero, secondo il collettivo Nos retraites. Spiega: “Per ottenere una pensione completa, non solo si sarebbe dovuto contribuire a tutti gli anni di servizio pensionistico, ma si sarebbe anche giunti a questa età pivot. Prima le persone cominciano a contribuire, e quindi ad accumulare tutte le loro rendite prima di quell’età, più ci rimetteranno”.
Gli esperti del collettivo hanno studiato le conseguenze negative dell’età cardine per tre profili specifici. Omar, per primo: dipendente del settore privato nato nel 1965, ha iniziato la sua carriera a 20 anni e non ha mai smesso. Con il sistema attuale, potrebbe andare in pensione a 62 anni nel 2027, con una pensione di 1.927 euro, pari al 69% del suo ultimo stipendio. Partito all’età di 64 anni, avrebbe ricevuto un premio aggiuntivo sulla sua pensione di base e sarebbe partito nel 2029 con una pensione di 2.270 euro (76% dell’ultimo stipendio).
Con l’introduzione di un’età pivot a 64 anni, Omar potrebbe continuare ad andare in pensione a 62 anni, ma perderebbe l’8% della sua pensione (-161 euro al mese) rispetto al regime attuale. E se dovesse partire a 64 anni, perderebbe un ulteriore 6% (-134 euro al mese), dato che il premio del regime generale non esisterebbe più.
Jeannine è una funzionaria della funzione pubblica di categoria C, nata nel 1963. Avendo iniziato a lavorare all’età di 20 anni e avendo avuto una carriera completa, può lasciare ora all’età di 62 anni nel 2025, con una pensione completa di 1.541 euro, (75% dell’ultimo stipendio). Uscendo all’età di 64 anni, avrebbe ricevuto una pensione di 1.724 euro (83% dell’ultimo stipendio).
Secondo gli annunci del governo, con le nuove regole, Jeannine, a causa del suo anno di nascita, dovrebbe rispettare un’età pivot di 63 anni e 3 mesi (arrotondata al trimestre più vicino). Se continuasse ad andare in pensione a 62 anni, Jeannine perderebbe circa il 6% (-96 euro al mese) della sua pensione rispetto al sistema attuale. E se dovesse partire a 64 anni, la perdita sarebbe equivalente: 6% (-98 euro al mese), perché la sua paga extra sarebbe solo di 3 trimestri, invece di 8 trimestri senza la riforma.
Infine, il collettivo dettaglia il caso di Amira, una dipendente del settore privato con una carriera continua, ma che ha iniziato la sua carriera a 18 anni, pur avendo già convalidato un trimestre di contributi prima di questa età (per un piccolo lavoro). Oggi, quindi, ha diritto a un pensionamento anticipato per una “lunga carriera”, a partire dai 60 anni. Nata nel 1965, può partire nel 2025 con una pensione completa di 1506 euro (71% dell’ultimo stipendio).
Dato che il governo ha annunciato il mantenimento dello schema della “lunga carriera”, è probabile che con un’età pivot di 64 anni, Amira potrà andare in pensione a 62 anni con il nuovo sistema. In tal caso, perderebbe il 9% (-164 euro al mese) della sua pensione. Le mancherebbero otto trimestri della pensione completa e subirebbe uno sconto sia sulla pensione di base che su quella complementare.
Naturalmente, queste severe proiezioni si basano anche su ipotesi che potrebbero essere ribaltate da chiarimenti o da nuove scelte fatte dal governo. Per tranquillizzare la gente, spetta quindi all’esecutivo contraddire queste conclusioni divulgando tutti i dati a sua disposizione.
* Traduzione a cura di Andrea Mencarelli (Potere al Popolo) dell’articolo pubblicato su Mediapart.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa