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Le primarie democratiche sullo sfondo della pandemia

La sesta tappa delle primarie democratiche negli Stati Uniti si è svolta sullo sfondo dell’imminente emergenza sanitaria e del “lunedì nero” della borsa di New York.

Al di là delle confortanti narrazioni dei due speculari pezzi dell’establishment politico repubblicano e democratico (il presidente Trump e l’aspirante sfidante Joe Biden), il doppio spettro della crisi pandemica e di quella finanziaria sarà il Leitmotiv che infesterà i mesi a venire e occuperà l’agenda politica statunitense, a meno di otto mesi dalle elezioni presidenziali.

Partiamo dai dati delle primarie democratiche.

Questo martedì si votava per eleggere circa 350 delegati in sei Stati, dopo che la settimana scorsa nel “Super Martedì” si era votato in ben 14 Stati dell’Unione assegnando più di 1300 delegati.

Anche questa tappa ha confermato la performance positiva di Joe Biden, che vince in 4 dei 6 Stati tra cui il Michigan, lo stato delle “tute blu”.

Guardiamo i risultati, partendo dal più importante, il Michigan. Sanders, nonostante avesse puntato su questo Stato anche alla luce della vittoria sulla Clinton del 2016, raggiunge solo il 36% aggiudicandosi 52 delegati, contro i 72 per l’ex numero due di Obama.

A Washington, Sanders vince di appena 0,2% con il 32,5%.

In Mississippi, Biden stravince aggiudicandosi 31 delegati (80%) contro i 2 di Sanders.

Risultato simile nel Missouri, dove il senatore del Vermont ottiene poco più di un terzo dei voti e 23 delegati, contro il 60,1% di Biden che si aggiudica 40 delegati.

La sconfitta di Sanders è più sfumata in Idaho, dove Biden è in testa con soli 6 punti percentuali e si aggiudica 9 delegati contro i 7 del front runner socialista.

Nonostante questo débâcle apparente, Sanders non si è ritirato dalle primarie e si appresta al prima tribuna elettorale con Biden domenica prossima a Phoenix (Arizona), non cedendo alle sirene del suo rivale che lo vorrebbe già “intruppato” nella sua battaglia unitaria contro Trump.

Nel suo primo discorso dopo questi risultati, Sanders ieri ha dichiarato di aver perso la battaglia sulla “eleggibilità”, ma non quella “ideologica”, dimostrando di avere perfettamente compreso i suoi limiti discorsivi che non hanno prodotto il risultato auspicato tra quell’elettorato “indeciso” fortemente orientato a scegliere ciò che gli viene proposto come più credibile competitor rispetto al rivale repubblicano, non il candidato migliore quindi, ma quello con le spalle più coperte.

Uno degli apparenti paradossi di questi ultimi appuntamenti elettorali delle primarie è il fatto che per l’elettorato americano, nonostante le proposte di Sanders risultano maggioritarie in tema di salute, diseguaglianza di retribuzione, incarcerazione di massa e giustizia, lo sfidante di Trump più “credibile” rimane Biden.

Secondo gli exit pool in Texas per esempio, il secondo Stato più importante dopo la California dove Biden ha vinto di stretta misura, il 57% degli elettori democratici si è detto “favorevolmente predisposto verso il socialismo”!

Nello Stato di Washington, ma anche nel Michigan e addirittura nel moderato Mississippi il 50/60% dell’elettorato democratico si è detto favorevole al Medicare For All, cioè l’assistenza medica universale e gratuita. In tutti questi stati (Washington a parte) il vincitore è stato Biden, lo stesso che questa settimana ha affermato che come Presidente avrebbe posto il proprio veto ad una tale legge se giungesse alla sua scrivania…

Allo stesso tempo quasi la maggioranza – che è stragrande maggioranza tra i giovani – ha dichiarato di desiderare una “complete overhaul” cioè una organica revisione delle politiche adottate e non solo una semplice correzione di tiro come auspicato da Biden, che propone oltrepassare la parentesi dell’amministrazione Trump e riportare tutto allo status quo ante dell’era Obama.

Questa egemonia di fatto delle tematiche del “sanderismo” non si è tradotta in una chiara indicazione di voto per lui tranne che per le fasce giovanili, la comunità ispano-americano e mussulmano-americana, ed chi si definisce “very liberal”. L’ago della bilancia anche questa volta è stato in generale l’elettorato afro-americano, in particolare nelle fasce più avanzate d’età, e per alcuni versi il voto bianco meno istruito e quello femminile più periferico, che nel primo stato della “trust belt”, strappato da Trump ai democratici nelle scorse presidenziali e capitalizzato da Sanders nelle primarie precedenti, questa volta ha preferito Biden.

Colpisce però la frattura generazionale del voto democratico in questo Stato, dove il 64% degli under 45 premia Sanders, mentre solo il 22% degli over 45 conferma il senatore del Vermont.

Sanders ha contro l’establishment democratico, cioè il partito più vecchio del mondo e maggioritario per membri rispetto ai repubblicani con 9 milioni di aderenti in più, e che gode di ottima salute economica. I media mainstream non hanno fatto altro che narrare la positività del momento magico di Joe, enfatizzandone la rimonta spettacolare e mettendone in evidenza l’esperienza di governo.

Anche se c’è stata “un ondata di votanti”, questa tappa non è andata nella direzione auspicata da Sanders di una maggiore partecipazione al voto di chi non si sentiva rappresentato dall’establishment democratico, ma da parte dello zoccolo duro di questo orientata dall’upper-middle class moderata che ne tiene ben strette le redini.

Il Partito Democratico ha dimostrato una certa capacità di rigenerarsi compattandosi contro il senatore, e non si sfalderà certo in caso di vittoria di Trump, considerato tra l’altro il dato storico del “doppio mandato” che gli elettori attribuiscono ad un Presidente, tranne il caso in cui – come avviene dalla guerra di secessione in poi – l’amministrazione abbia conosciuto una crisi economica.

Come ha giustamente affermato un sostenitore di Sanders in un intervento sulla rivista “Jacobin”: «le élites del partito preferirebbero essere il partito d’opposizione con Trump piuttosto che essere il partito di governo con Sanders».

Il quasi ottantenne socialista non solo ha popolarizzato una serie di idee escluse dal lessico politico democratico, ma ha dimostrato come si possa condurre una campagna senza ricevere donazioni dall’élite economico-finanziare, a differenza anche dell’altra esponente dell’ala sinistra del partito, E.Warren, che alla fine si è piegata ad accettare le elargizioni da un “Super Pac” collegato all’industria degli idrocarburi, alla faccia della sbandierato nuovo patto ecologico! Sanders grazie alle donazioni ricevute dai suoi sostenitori entro il 17 marzo ha ancora ben 9 milioni!

Un fatto è certo, gli elettori delle primarie – aficionados dei due partiti – non sono quelli di una elezione generale, ed i sondaggi danno tutti Sanders come l’unico in grado di battere Trump.

La proposta di Sanders sullo sviluppo di un sistema sanitario pubblico e gratuito diventerà uno dei nodi principali della discussione con l’imminente scoppio dell’emergenza sanitaria, considerata la netta opposizione da parte di Biden e la faciloneria con cui viene affrontata da Trump al limite del “negazionismo” e tutta incline a tutelare il big businness.

Il Medicare for All potrebbe essere la carta vincente, visto che anche la campagna delle primarie risente dell’emergenza Coronavirus per cui sono stati cancellati i prossimi rally pubblici.

Un recente incontro a Detroit organizzato proprio da Sanders lo stesso giorno della farsesca conferenza stampa di Trump sull’argomento, ha posto in evidenza grazie all’aiuto di esperti di altissimo livello i limiti strutturali con cui gli Stati Uniti stanno affrontando l’emergenza Coronavirus.

Il primo dato emerso è quantitativo: secondo una magistrale inchiesta del giornale “The Atlantic” a questo lunedì i tamponi effettuati in tutto il territorio USA sono stati 4.000 (alla modica cifra di 4mila $ cadauno!). Solo per fare un paragone, la Corea del Sud ne ha effettuati 100.000! Nel giro di un paio di settimane, dei novantamila posti di ICU (le terapie intensive), di cui un 60% risulta attualmente impiegato, gli USA potrebbero necessitare di ben 300.000 posti, di fatto facendo collassare il sistema sanitario del Paese.

Un secondo dato è qualitativo, e riguarda la “vulnerabilità” dei soggetti colpiti considerando che non godono di giorni pagati di malattia o di permessi familiari pagati, il chè li renderebbe più disposti a recarsi al lavoro anche se malati, o di mettersi preventivamente in quarantena. Nonostante le promesse di Trump sull’effettuazione di test di massa, sulla loro copertura assicurativa e sulle relative cure, ancora nulla è stato fatto, fatta salva una proposta di legge in discussione in questi giorni, che coprirebbe appena 14 giorni di malattia in caso urgenza, ma che è assolutamente incompatibile con la necessità di risposta immediata alla diffusione del virus.

Gli esperti presenti all’incontro organizzato da Sanders hanno criticato duramente l’attuale amministrazione anche per altri due aspetti principali: 1) la scarsa condivisione dei dati a livello internazionale, quasi un primato negativo assoluto degli USA, e 2) la mancanza di accurate informazioni scientifiche fondate sui fatti di cui avere fiducia e le previsioni sulle settimane ed i mesi a venire.

Manca un orientamento preciso nei confronti dell’opinione pubblica che si è dovuta sorbire una serie di castronerie indicibili da parte di The Orange Man, dal fatto che si possa andare a lavorare anche se contagiati al fatto di considerare l’attuale virus meno pericoloso dell’influenza od il grande consiglio del super-esperto di Trump agli anziani di non andare in crociera! E dulcis in fundo, le organizzazioni sindacali del personale infermieristico denunciano la totale mancanza di adeguati dispositivi di protezione individuali per svolgere la propria mansione rispetto al possibile trattamento di pazienti contagiosi.

Un terzo dato, a chiusura dell’incontro, è quello riguardante il possibile vaccino, che Sanders ha subito dichiarato dovrebbe essere gratuito affinché sia universalmente usufruibile e slegato dalle possibilità economiche dei singoli considerato che la sanità statunitense è privata.

Con 1.740 delegati assegnati su 1991 necessari per vincere la nomination democratica, la partita tra Biden e Sanders (oggi a 864 vs 710 delegati) non è ancora chiusa, soprattutto alla luce della imminente crisi sanitaria e di quella possibile finanziaria in grado di travolgere quell’1% che foraggia Biden.

Il 17 marzo si svolgerà la prossima tappa delle primarie democratiche con la Florida che assegnerà 219 delegati, l’Illinois con 155 e l’Arizona con 78, insieme all’Ohio – in tutto 577 delegati – mentre si voterà in Georgia il 24 marzo (105 delegati) e in Louisiana (105) il 4 aprile.

Stando all’attuale situazione, un ritorno alla “normalità” sembra la cosa più lontana dalla realtà per gli Stati Uniti.

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