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La Cina sta vincendo la guerra digitale

 Le parole di Mike Pompeo, segretario di Stato USA, alla “tradizionale” conferenza sulla sicurezza della NATO svoltasi a metà febbraio a Monaco, rimarranno probabilmente nella storia come l’ultimo sussulto della velleitaria volontà di potenza statunitense. “L’Occidente sta vincendo e stiamo vincendo insieme” aveva detto rivolgendosi prioritariamente ai partner europei dell’Alleanza Atlantica. Ma in verità qualcosa scricchiola, e quel mondo pare andare verso il crepuscolo..

Quello di Monaco, quest’anno, non era una appuntamento rituale per l’establishment nord-americano, tant’è che all’appuntamento è stata presenziata da una delegazione bipartisan di 40 membri con una doppia finalità: convincere i propri recalcitranti partner che la NATO non fosse in stato di “morte cerebrale” come aveva affermato Macron, e soprattutto attaccare ogni possibilità di accordo con la Cina rispetto allo sviluppo del G5, rilevando la punta dell’ “iceberg” della “guerra tecnologica” tra USA e Cina, che da anni è in atto e che neppure gli accordi commerciali della “fase uno” tra USA e Cina hanno fin ora mitigato.

Nelle parole di Mark Esper – segretario della difesa USA – la scelta di un accordo con la Cina su questo campo (effettuata in Gran Bretagna ed in discussione in Germania), avrebbe potuto “compromettere il patto atlantico”. Non meno lapidaria, la speaker democratica Nancy Pelosi che aveva parlato di strada “molto pericolosa” per chi avrebbe accettato la collaborazione con la Cina. Infine, anche il segretario della NATO Jens Stoltenberg si era allineato alla visione statunitense, di fatto criticando le possibili scelte di collaborazione che per lui restavano rinchiuse in una logica di “breve periodo” anziché ponderate sul “lungo periodo”.

Un ultimo sussulto di un gigante dai piedi d’argilla, quello di usare la NATO per i propri fini, estendendo in questo caso il campo dell’ “ostilità” alla Cina. Ma alla luce delle condizioni in cui versano gli Stati Uniti e quelle in cui si trova la Repubblica Popolare, la contro-offensiva nord-americana sembra miseramente fallita. (leggi qui).

Facciamo un passo indietro e vediamo quali sono i nodi che quest’anno sarebbero venuti al pettine rispetto alla “guerra tecnologica” così come vengono esposti in un articolo del dicembre scorso pubblicato dalla rivista “Forbes” (leggi qui). Il primo nodo era la questione dell’estradizione dal Canada agli Stati Uniti di Meng Wanzou, che doveva essere decisa entro fine aprile (leggi qui), il secondo coinvolgeva le decisioni di Gran Bretagna e Germania sul G5, e il terzo riguardava il lancio del nuovo mobile della Huawei, il P40pro.

Proprio la questione dell’ultimo “telefonino” della casa cinese non è in verità una questione solo commerciale, ma geopolitica.

Un primo elemento per inquadrare questa guerra, è dato dalla creazione di un “Entity list”, una misura varata a maggio dell’anno scorso dagli gli Stati Uniti per cui le compagnie statunitensi che volevano vendere componenti alla Huawei dovevano richiedere una licenza, con la “temporary general licence”, che di fatto esonerava le componenti vendute per i vecchi modelli, ma non per quelli a venire.

Il lancio del P40 da parte di Huawei, di contro, sarebbe stato un doppio-test, da un lato per vedere quanto fosse attuabile per l’azienda il “Piano B”, come l’ha definito il capo di Huawei Eric Xu, facendo affidamento su fornitori non statunitensi, e dall’altro per verificare l’allineamento delle compagnie nord-americane alle indicazioni della propria amministrazione.

Da ciò che emerge da una prima scomposizione del nuovo modello di cellulare effettuato dalla XYZone con sede a Shenzen, se una parte fondamentale del mobile non ha più nemmeno una componente statunitense (già prodotta sia dalla sud-coreana Samsung che dalla statunitense Micron),  la NAND FLASH – la Radio-frequency front-end modules, verrebbe ancora prodotta da tre aziende statunitensi: Qualcomm, Skyworks e Qorvo. Se da un lato il colosso cinese non sembra essersi “emancipato” in toto dalle forniture nord-americane per la produzione dei suoi mobile, dall’altro le aziende statunitensi sembrerebbero continuare a vendere ancora a Huwei anche per modelli “nuovi”.

Un altro elemento importante per comprendere gli effetti della guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti e l’attuale stato di salute dell’azienda, è stata in occasione la presentazione del bilancio di Huawei riferito all’anno scorso.
Xu ha affermato che la guerra lanciata dagli Stati Uniti in Europa ha penalizzato l’azienda (si pensi a Telia e TDC che hanno scelto un concorrente di Huawei per il G5), riportando “un impatto significativo negli affari”.

I ricavi dell’azienda sono stati di 10 miliardi di dollari in meno rispetto alle aspettative (125 anziché 135 miliardi…), ma rispetto al 2018 l’aumento è stato comunque considerevole (16 miliardi in più).
Bisogna poi aggiungere che una parte importante delle vendite di Huawey (più di 1/3) viene dal mercato domestico, dove si sono registrati i maggiori incrementi l’anno scorso, mentre sul mercato europeo si è registrato un -1% e su quello dell’Asia Pacifico, una flessione dell’11%.
Sorprende inoltre che nonostante l’ “Entity List” le spese dell’azienda per le forniture di componenti provenienti dagli States siano aumentate del 70%, attestandosi a 18,7 miliardi di dollari contro gli 11 dell’anno precedente.
L’attività dell’azienda inoltre, in linea con i dati ufficiali forniti dalla Repubblica Popolare (leggi qui), non sembra essere stata impattata nemmeno dal Coronavirus.

Altro aspetto rilevante sono state le parole del numero uno di Huawei che sembra prendere di petto l’ipotesi di una rappresaglia nei confronti della politica nord-americana. Xu ha dichiarato infatti: «Il governo cinese non se ne starà in disparte a guardare Huawei essere macellata. Credo che prenderà contromisure. Perché non si usano simili precauzioni di cyber sicurezza per vietare l’uso di chip G5 statunitensi nel mercato cinese?».

Parole pesanti come macigni, rivolte ad un sistema economico come quello statunitense sul punto del collasso, che potrebbe veder contrarre ancora di più gli sbocchi di alcuni gioielli della “new economy”.
La “chiamata alle armi” di Xu è sul piatto della bilancia delle future relazioni USA-CINA e non può essere ignorato.

Nell’attuale situazione pandemica, l’unica economia in ripresa e l’unico mercato che tira è quello cinese. Continuare sulla stessa strada di una velleitaria guerra psicologica per Trump potrebbe rivelarsi un boomerang…

Ma se l’azienda cinese è universalmente conosciuta ad un pubblico occidentale come produttrice di cellulari, bisogna prendere atto che Huawei si erge ad essere capo-fila anche di un altro progetto, quello del “rivoluzionamento” della rete così come l’abbiamo conosciuta fino ad ora, e del possibile conseguente stravolgimento dell’oligopolio di aziende private statunitensi – e di servizi di intelligence – leader indiscusse per quanto riguarda la manipolazione dei big data a loro disposizione.

Prima di affrontare la questione, è utile ricordare che siamo alle fasi finali del lancio del nuovo sistema geo-satellitare cinese Beidou, per cui è previsto l’ultimo lancio il prossimo maggio, che rischia di mettere in soffitta il GPS, in quanto ha standard superiori e permette un uso universale che finora il sistema di geo-posizionamento destinava ad solo ad alcuni settori.

Il 9 marzo la Cina ha effettuato “con successo” il 54° lancio del satellite BNSS, un progetto lanciato solo 8 anni fa, che sarà connesso al G5 e che probabilmente rivoluzionerà “un mondo”, od una buona parte di esso. Si pensi che oltre alle funzioni militari, più del 70% degli Smart Phone in Cina sono equipaggiati per poterlo utilizzare.

La “nuova Internet” è stata presentata da una delegazione cinese lo scorso settembre ad una agenzia dell’ONU che si occupa degli standard internazionali di telecomunicazione (ITU), che fu creata più di 100 anni fa, al tempo dello sviluppo del telegrafo e poi inglobata nell’ONU (leggi qui).

È questo l’ultimo salto di qualità del “socialismo con caratteristiche cinesi”, basato sulla concezione della rete progressivamente sviluppata dalla Repubblica Popolare e che ha fatto un deciso passo in avanti con la leadership di XI.

Nel giro di pochi anni la Cina è passata da una condizione in cui ha “subito” la rete, ad un altro in cui ha cercato di “controllarla”, per poi “ultilizzarla”, ed ora “rivoluzionarla”. Da un approccio “difensivo” ad uno “assertivo” quindi, in grado di affermare la sua leadership anche in questo campo. Se pensiamo che la prima mail inviata in Cina risale al settembre del 1987, e che dopo un primo tempo in cui era riservata ad universitari e militari è stata aperta al pubblico solo nel 1995, appare ancora più evidente la velocità con cui la Cina è stata in grado di progredire nel campo delle tecnologie digitali.

Le prime leggi per “gestire” la rete, risalgono al 1997, quando in Cina gli utenti erano all’incirca 150 mila. Negli anni successivi si sono mostrate le prime falle con il caso di Lin Hai e della setta Falun Gong, ed è iniziata la costruzione dell’architettura di gestione attuale “difensiva” – il cosiddetto “Great Firewall” – il cui padre putativo è Fang Binxing (leggi qui).

Questo progetto è una evoluzione di ciò che aveva detto già nel 2015 Xi nel più importante forum internazionale dedicato alla Rete che si svolge da diversi anni in Cina, il Word Internet Conference a Wuzhen nelle vicinanze di Shangai, all’epoca ancora frequentato da importanti relatori statunitensi come Tim Cook, (Apple), e Steve Mollenkopf (Qualcom), prima dell’inasprimento della guerra tecnologica.

«Dovremmo rispettare il diritto dei singoli Stati di scegliere in maniera indipendente la propria strada per il cyber-sviluppo», aveva detto Xi tuonando contro le ingerenze straniere anche in questo campo. Ma dalla legittima rivendicazione di una “sovranità nazionale” su uno strumento di comunicazione storicamente dominato dalle big tech statunitens, all’assumere un ruolo guida nella sua riconfigurazione con una nuova concessione, il passo è piuttosto lungo.

Ma torniamo all’ITU.

Una dozzina di membri della delegazione cinese ha presentato la “New IP”  con un “top-down” design, maggiormente adatto alle sfide di utilizzazione della rete del futuro e dell’ “internet delle cose”, come la guida automatica delle automobili, gli ologrammi e la medicina “remota” per cui l’attuale architettura della rete sarebbe secondo i relatori abbondantemente insufficiente ed instabile.

Questa ipotesi, frutto di una collaborazione tra scienziati e settore industriale non solo “cinesi”, potrebbe essere sperimentata all’inizio del 2021. Come riporta una fonte del “Financial Times” i punti chiave della nuova rete sarebbero già stati disegnati, e la costruzione sarebbe in svolgimento.

Si tratta di una Internet controllata “dall’alto” che ripristinerebbe la “sovranità” dei singoli stati sulla comunicazione digitale, con una adesione volontaria dei singoli Paesi.
Un’ipotesi a cui si sono detti contrari i delegati olandesi e britannici, che sarebbe accolta favorevolmente da Russia, Iran ed Arabia Saudita, e che sarebbe stata percepita come “fumo negli occhi” dagli Stati Uniti. Non ultima, la relazione di “contrasto” di parte NATO è stata affidata all’ “Oxford Information Labs”.

Le parole della “truppa” bi-partisan statunitense alla Conferenza sulla Sicurezza della NATO di febbraio, alla luce di quanto detto, assumono quindi un diverso significato: l’obiettivo immediato era probabilmente il pressing, per evitare che non ci fossero accordi sino-europei sul 5G, ma il vero incubo nord-americano è probabilmente quello di vedere l’ITU dare il “via libera” alla nuova Rete…

La Cina si è resa protagonista dello sviluppo di crescenti infrastrutture nei mercati in via di sviluppo, nell’ottica di dare vita ad una “via della sete digitale” che si affianchi a quella reale.
Huawei ha firmato 91 contratti per forniture 5G, tra cui 49 solo in europa.

È lo stesso dirigente dell’ITU, Billel Jamoussi, a fotografare la situazione: «venti anni fa era l’Europa e il Nord America che dominavano i prodotti, le soluzioni e gli sviluppi degli standard, ora abbiamo uno spostamento verso est».

La proposta, come rivela il Financial Times, includerebbe il “controllo dall’alto” dei singoli Stati che diventerebbero i responsabili finali, con la possibilità di tracciare e di usare un “shut up command” per interrompere le comunicazioni di un singolo – i vari dispositivi digitali “parlerebbero tra loro” senza passare dalla Rete nella “new IP”. Un’ulteriore discussione è prevista in sede ITU in India per il prossimo novembre.

Fino ad ora Internet è stato un sistema controllato da 4 aziende nord-americane che gestiscono i big data globali per fini commerciali e di intelligence, determinando un “differenziale strategico” non indifferente, ma ora il dominio statunitense sta vacillando e l’ordine mondiale, anche a causa delle conseguenze della pandemia, sembra essere messo in discussione.

Non solo la Repubblica Popolare ha infatti “azzerato” il differenziale strategico di quello che sembrava essere un campo privilegiato per gli USA, ma è oggi in grado oggi di proporre una nuova architettura ed una nuova concezione geo-politica della Rete più consona a quelle che sembrano le sfide digitali del futuro, ora più che mai necessarie per uscire dalle secche delle conseguenze della pandemia, come ha dimostrato l’uso virtuoso della sfera digitale che la Cina ha messo in campo per contenere la diffusione del contagio a Wuhan (leggi qui).

Con la catastrofe pandemica, la prima guerra tecnologica dell’era digitale potrebbe avere un vincitore diverso da quello ipotizzato da Mike Pence, oppure una parte dell’ “Occidente” – tra cui noi – potrebbe guardare ad “Oriente” estromettendo il vecchio alleato.

Un mondo è veramente al crepuscolo.

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