Analisi e prospettive di lotta dalle università britanniche in tempi di pandemia
Con 22 giorni di astensione dal lavoro (8 in autunno, e 14 tra febbraio e marzo 2020), il recente sciopero delle università (indetto dal sindacato University and College Union) ha sicuramente rappresentato la mobilitazione più significativa nella storia dell’istruzione superiore britannica. Per la prima volta, lo sciopero ha articolato una comprensiva serie di rivendicazioni relative a pensioni, retribuzioni, carichi di lavoro, precarietà e discriminazione di genere ed etnica. 74 istituzioni accademiche hanno aderito alla vertenza.
Nel referendum interno al sindacato (necessario, a causa della legislazione britannica, per indire lo sciopero), oltre il 75% dei votanti si era espresso in favore dell’agitazione; questo si è tradotto in oltre 50,000 accademici, ricercatori, tecnici ed amministrativi in grado di parteciparvi. Ciò ha creato un enorme potenziale di lotta contro un modello universitario che si basa, ormai da decenni, su basse retribuzioni, precarietà, carichi di lavoro insostenibili, discriminazione etnica e di genere, e che non garantisce sicurezza pensionistica.
I progressi ottenuti nei negoziati, però, sono stati trascurabili – e l’UCU non ha raggiunto alcuna svolta sulle questioni più significative. Nel contesto della crisi causata dal Coronavirus, inoltre, i membri dell’UCU sono stati invitati a tornare “ordinatamente” al lavoro (a partire dal 16 marzo), osservando uno “sciopero bianco”[1]. Anche se la Segretaria Generale (Jo Grady) ha dichiarato che la vertenza “non è archiviata”, l’emergenza sanitaria pare averla seppellita. Come attivisti sindacali, che hanno contribuito al nostro movimento di base, riteniamo che sia necessaria una attenta riflessione sul nostro sciopero, specialmente in queste settimane di grande incertezza.
Come è andato lo sciopero?
La partecipazione allo sciopero è stata molto buona; in tutte le istituzioni coinvolte, gli edifici universitari sono stati picchettati. Nei maggiori centri urbani, si sono svolte anche manifestazioni e cortei (di dimensioni significative per gli standard britannici). Lo sciopero ha mostrato la vitalità del nostro movimento e i passi compiuti dall’UCU in termini di organizzazione di base.
Nonostante questo, era possibile avvertire un diffuso senso di impotenza tra gli iscritti. Ciò era dovuto probabilmente alla nuova situazione politica del Regno Unito, con un governo Conservatore forte di una solida maggioranza parlamentare, che, sin dai primi giorni del suo insediamento, aveva minacciato di voler portare nuovi attacchi al mondo universitario.
Il Governo guidato da Boris Johnson, inoltre, era fortemente interessato a usare la vertenza promossa dall’UCU come un caso esemplare per dimostrare l’inutilità degli scioperi e disincentivare la già bassa conflittualità sindacale. Questo contesto politico aiuta a capire la minima copertura mediatica ricevuta dallo sciopero (in confronto all’analoga vertenza del 2018). Secondo alcuni settori della base sindacale, inoltre, la piattaforma rivendicativa molto articolata non ha giovato alla riuscita dell’azione (in quanto poco realistica).
La gestione stessa delle trattative ha rafforzato un senso di confusione. La Segretaria Generale, che ha centralizzato i canali comunicativi interni, ha mandato una serie di messaggi contraddittori. In diverse occasioni, Grady ha indicato, in maniera quasi esplicita, che un accordo era alle porte, solo sulla base di alcune vaghe concessioni relative all’apertura di tavoli permanenti sulla gestione dei carichi di lavoro, dei contratti precari, e sul monitoraggio delle diseguaglianze di genere ed etniche.
Le tattiche di negoziazione sono apparse bizzarre. A trattative in corso, Grady ha dichiarato che il sindacato si sarebbe accontentato di aumenti salariali del 3% (a fronte della richiesta iniziale del 5.2%) e di un taglio del tasso di contribuzione pensionistica all’8.4% (contro una richiesta iniziale fissata all’8%). Ne è emerso un segnale molto chiaro: l’UCU desiderava disperatamente un accordo. E, chiaramente, questo segnale ha rafforzato la posizione della controparte (l’equivalente della Conferenza dei Rettori britannica) che ha avuto gioco facile nel mantenere le proprie posizioni e non fare alcuna concessione sostanziale.
Perché l’UCU è stata così lenta nel riconoscere l’emergenza Covid-19?
Lunedì 9 marzo, all’inizio dell’ultima settimana di sciopero, i dati ufficiali parlavano già di 300 casi confermati di Covid-19 nel Regno Unito. Nonostante le crescenti preoccupazioni da parte di attivisti sindacali, e l’evidenza scientifica sull’efficacia delle misure di distanziamento sociale per ridurre la trasmissione del virus, le linee guida dell’UCU invitavano a seguire i consigli del governo: in quel momento, “lavarsi le mani” cantando per due volte “Happy Birthday to you”.
Anche quando l’esecutivo ha dichiarato di voler perseguire una strategia di “immunità di gregge”, ignorando il consiglio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di molti studiosi (compresi, tra l’altro, alcuni compagni UCU), il Sindacato non ha espresso alcuna critica esplicita. Appare oggi chiaro che quelle settimane di inazione causeranno una immane tragedia sociale per la classe lavoratrice.
Sulle prime, UCU non ha criticato neppure l’approccio adottato dalle istituzioni universitarie. Queste hanno continuato a tenere conferenze e open day, ricevendo migliaia di visitatori al giorno. Anche l’organizzazione dei rettori ha continuato a effettuare eventi pubblici (nella propria sede londinese) fino al 13 marzo.
Sorprendentemente, il sindacato non ha consigliato ai propri membri di adottare misure di distanziamento sociale durante le manifestazioni connesse allo sciopero. Presidi, cortei, assemblee, picchetti: tutto è proseguito normalmente. Solo venerdì 13 marzo, alcune sezioni locali UCU hanno sospeso alcune attività.
Ironicamente è stato anche grazie al nostro sciopero – che ha svuotato per settimane dipartimenti, aule e laboratori – che i manager universitari hanno potuto ritardare la loro risposta alla pandemia fino a metà marzo; ben un mese e mezzo dopo il primo caso confermato di Covid-19 nel Regno Unito. Se l’UCU avesse preso le distanze dal governo e dai manager universitari, avrebbe potuto condannare il comportamento irresponsabile di questi ultimi come un ulteriore altro esempio di cattiva leadership e indifferenza per la salute degli studenti e dei lavoratori.
Questo avrebbe rafforzato la nostra causa e le nostre richieste di democratizzazione delle università, e avrebbe attratto le simpatie dei lavoratori di altri settori e degli studenti (in particolare cinesi e asiatici, che hanno subito crescenti attacchi razzisti a causa della pandemia).
E invece, purtroppo, senza alcuna discussione democratica, abbiamo visto prevalere una linea di “solidarietà nazionale” (ribadita, a mezzo stampa, in una recente intervista del Segretario Generale dell’UCU). Alcune sezioni, che si erano unite allo sciopero in ritardo, sono state invitate dal Segretario Generale a revocare gli ultimi giorni di agitazione, scavalcando i normali processi decisionali. Il sindacato ha inoltre rinviato a data da destinarsi il nuovo referendum interno su ulteriori ondate di sciopero.
Come proseguire la lotta?
Ancor prima di tornare formalmente al lavoro dopo lo sciopero, a livello locale gli attivisti dell’UCU si sono impegnati in vertenze con le proprie istituzioni per chiudere college e università e difendere la salute del personale e degli studenti. La risposta delle istituzioni è stata quella di effettuare un repentino passaggio alla didattica online (anche per arginare le possibili richieste di rimborso delle tasse da parte degli studenti).
Per una settimana, tuttavia, prima che il governo Johnson imponesse misure di lockdown formale, in molti istituti è stato imposto a personale tecnico, amministrativo e di supporto di recarsi regolarmente a lavoro. Alcuni lavoratori di supporto (impiegato in mansioni quali sicurezza, pulizie e gestione delle reti informatiche) continuano a dover andare a lavorare ancor oggi.
I lavoratori di altri sindacati – soprattutto UNISON e UNITE, Trade Unions generaliste che organizzano i lavoratori amministrativi e di supporto – ci hanno fornito un enorme sostegno durante lo sciopero. Ora è indispensabile lottare insieme, e creare comitati sindacali congiunti per proteggere i posti di lavoro, e garantire salute e sicurezza.
Lo stesso smart working solleva una serie di questioni cruciali per i membri della UCU. Come possiamo proteggere posti di lavoro e condizioni mentre siamo costretti a svolgere le nostre attività online? Come possiamo evitare che questa situazione – che genera un pericolosissimo intreccio di lavoro produttivo e riproduttivo – acuisca disparità di genere e etniche già inaccettabili?
Fino a che punto possiamo seguire schemi di lavoro “normali”, o anche ridotti, nel mezzo di una pandemia, mentre ci prendiamo cura dei nostri bambini, dei nostri cari o di noi stessi? Come possiamo impedire ai manager di utilizzare le nuove tecnologie per aumentare il controllo sulla nostra vita e minare eventuali scioperi ed azioni di lotta in futuro?
È evidente che Covid-19 non porterà a una maggiore cooperazione con i manager ma intensificherà i problemi che hanno portato alle attuali dispute. Mentre i manager hanno già comunicato la necessità di rivedere, al ribasso, il nostro trattamento pensionistico, a fronte di una probabile crisi finanziaria mondiale, ci sono anche i primi annunci di docenti, ricercatori ed amministrativi con contratti a termine che saranno di fatto licenziati dalle istituzioni universitarie.
La pandemia dimostra in modo ancora più evidente che il destino dei lavoratori precari e stabili è strettamente connesso: se il licenziamento dei lavoratori precari porterà a un’intensificazione di carichi di lavoro già impossibili, nessuno è completamente al sicuro dalla minaccia di esuberi e ristrutturazioni. La forte contrazione delle immatricolazioni di studenti stranieri priverà le università britanniche di una delle loro principali fonti di guadagno. In un sistema che opera da decenni secondo logiche di mercato, questo potrebbe innescare un forte ridimensionamento degli organici.
In questo contesto, smobilitare la base sindacale non è una mossa saggia. Abbiamo bisogno di più partecipazione, non di una ritirata strategica. Dobbiamo utilizzare le nuove tecnologie per rafforzare la democrazia sindacale di base e decidere come continuare la nostra lotta, e organizzarci nelle nuove condizioni. Questo non ci aiuterà solo a rompere l’isolamento sociale che stiamo vivendo in queste settimane – è in gioco il futuro dell’istruzione universitaria, così come quello delle relazioni sindacali in questo paese.
Il disegno di legge per l’emergenza Coronavirus mostra che il governo conservatore sta usando la pandemia per attaccare i diritti democratici ed aumentare i suoi poteri repressivi. Come suggerisce la precedente esperienza in materia di legislazione di emergenza, è molto probabile che le misure introdotte per affrontare la crisi rimarranno in vigore a lungo termine, definendo una nuova normalità.
Inoltre, qualora questo governo dovesse sopravvivere alla crisi, tenterà certamente di recuperare quanto speso in questa fase di emergenza tramite nuove misure di austerità. Come in passato, l’Università potrebbe essere un facile bersaglio, con un rischio maggiore di ridimensionamenti, chiusure di interi dipartimenti e licenziamenti.
Il governo e i manager universitari ci continuano a mostrare che ogni crisi rappresenta un’opportunità. I membri dell’UCU dovrebbero fare lo stesso. La crisi attuale ha aumentato la vulnerabilità degli istituti di istruzione superiore, che fanno sempre più affidamento sulla “buona volontà” del personale al fine di proseguire la didattica e sfornare lauree e diplomi svalutati in tempo e senza perdite finanziarie.
Questa situazione ci fornisce un notevole potere contrattuale, che dovremmo usare per proseguire, e vincere, la lotta sulle nostre vertenze. Solo rafforzando la democrazia sindacale di base e la cooperazione inter-sindacale saremo in grado di porre un argine alle politiche del governo, orientare il dibattito pubblico e imporre politiche che antepongano la vita dei lavoratori al profitto.
Questo articolo è una traduzione di una riflessione collettiva che sta circolando tra gli attivisti sindacali.
E’ possibile sostenere il documento, per gli iscritti all’UCU, a questo link.
[1] Nella legislazione sindacale Britannica, l’Action-short-of-a-strike rappresenta una forma di protesta, assimilabile al cosiddetto “Sciopero Bianco”, in cui i lavoratori svolgono esclusivamente le mansioni specificate dai propri contratti. In ambito universitario, questo si traduce nel rifiuto di intraprendere ad attività volontarie e discrezionali (quali la partecipazione ad Open Days; la sostituzione di colleghi malati o assenti; la riprogrammazione di lezioni perse a causa dello sciopero).
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa