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Perché l’Olanda rifiuta i Coronabond

Un innesco di distensione? Wopke Hoekstra ha innanzi tutto riconosciuto una “mancanza d’empatia”, in un’intervista diffusa martedì alla televisione olandese. “Non abbiamo fatto le cose correttamente. Abbiamo fatto capire quello che non vogliamo, ma non così chiaramente quello che vogliamo”, ha insistito il ministro delle finanze.

Sulla stessa lunghezza d’onda, il capo del governo olandese Mark Rutte è intervenuto mercoledì davanti alla Camera, per precisare la sua posizione: ha chiesto di versare 1,2 miliardi d’euro, sotto forma di sovvenzioni, in un fondo europeo da 10 a 20 miliardi di euro destinato a sostenere i sistemi sanitari nei paesi più colpiti , come l’ha descritto Le Soir.

Se lo fate sotto forma di sovvenzioni, ciò equivale a dire che si riconosce che (i paesi del sud Europa- NdA) sono stati colpiti più duramente e che insieme, insieme a un numero di paesi più ricchi, noi siamo pronti a pagare i costi diretti della crisi coronavirus”, ha dichiarato Rutte, desideroso di smussare gli angoli.

Ma non si può andare oltre – in particolare rispetto ad emettere debito in comune, o a rivedere a fondo le linee di bilancio europeo negli anni a venire, come vorrebbe la Commissione, per venire in aiuto ai paesi più toccati dal Covid-19.

Nel giro di qualche giorno, il ministro Hoekstra, un cristiano-democratico nato nel 1975, passato dal settore privato (il gigante petrolifero Shell, il consiglio di amministrazione McKinsey, ecc), è diventato uno dei personaggi più esposti – e criticati – della scena che si gioca à Bruxelles, dove si negozia niente di meno che l’avvenire dell’Unione.

E’ diventato il simbolo dell’egoismo nazionale. Dopo la crisi dei debiti sovrani (2008 e dopo), poi quella dell’accoglienza dei migranti (2015 e dopo), l’UE si trova ancora una volta di fronte alla questione della solidarietà tra gli Stati-membri. Incapace, in questa fase, di fornire una risposta all’altezza della situazione.

In occasione di una riunione dei ministri il 24 marzo nella capitale belga, Hoekstra, incoronato capo fila dei “falchi”, e campione dei duri, si è interrogato ad alta voce sulla necessità di lanciare un’inchiesta, per comprendere perché certi paesi – Spagna, Italia, Portogallo – non dispongono di margini di manovra finanziari sufficienti per far fronte alle conseguenze economiche del Covid-19

Al vertice dei leader europei del 26 marzo, l’Olanda si è opposta, insieme alla Germania, l’Austria e la Finlandia, a un’emissione del debito europeo – talora soprannominato “coronabonds” – per sostenere i paesi più toccati dalla pandemia. Nove paesi, tra i quali la Francia, l’Italia e la Spagna, sperano in questo tipo di meccanismo, in nome della solidarietà.

In assenza di un primo accordo, il comunicato del 27 si è accontentato di rinviare la palla al prossimo Eurogruppo, “da qua a due settimane” (poi terminato con un nulla di fatto e rinviato a stasera, ndt). Il termine eurobonds non è neanche menzionato.

Nella furore della polemica, il primo ministro portoghese Antònio Costa ha visto rosso, denunciando l’attitudine “ripugnante” dei Paesi-Bassi, e di Wopke Hoekstra in particolare. Il socialista ha fustigato “l’incoscienza assoluta e la meschinità ricorrente (che) mina totalmente quello che è lo spirito dell’Unione europea”.

A Madrid, la ministra degli affari esteri, e ex-direttrice del gabinetto di Pascal Lamy all’OMC, è andata all’attacco contro Hoekstra: ”Siamo tutti sulla stessa barca europea. Abbiamo toccato un iceberg. Corriamo tuti gli stessi rischi. Non abbiamo il tempo di discutere sui passeggeri cosiddetti di prima o di seconda classe.

Un’eurodeputata italiana del Movimento Cinque Stelle (M5S), partito a capo del governo italiano, ironizzava da parte sua, mercoledì, sul ritorno di Hoekstra il giorno prima. “La mancanza di solidarietà non è un problema di empatia”, giudicava Tiziana Beghin, insistendo: “L’Europa deve scrivere una nuova pagina della sua storia, non un saggio di economia.

All’origine, Berlino e L’Aja sembravano aperte all’idea di un piano d’aiuto stanziato attraverso il Meccanismo europeo di solidarietà (MES), uno strumento creato nel 2012 al fine di sostenere gli Stati al bordo del fallimento. Questo piano d’aiuto sarà, nel loro spirito, “condizionato” per ciascun paese da una serie di criteri, come nel 2012: programma di economie di bilancio e riforme dette strutturali. Soprattutto, questo denaro prestato dovrà essere rimborsato, a termine, dallo Stato che ne approfitterà.

Roma non vuol sentire parlare di una soluzione che passi attraverso il MES, associato ai brutti ricordi della crisi dei debiti finanziari del 2008 (e al 2015 della Grecia).

A Parigi, le posizioni sembrano più morbide, integrando l’idea dei prestiti del MES, senza alcuna condizionalità-una soluzione che avrebbe il merito del compromesso, vicino, si giudica a Parigi, all’entourage del capo dello Stato, di un’emissione di debito in comune. Il fondo da 10 a 20 miliardi d’euro di cui ha parlato Rutte mercoledi, sembra piuttosto irrisorio rispetto alla posta in gioco ( per esempio, rispetto ai 700 miliardi di euro erogati della Banca centrale europea).

Il prossimo Eurogruppo, decisivo, è fissato per giovedì 9 aprile. Dopo aver dato l’impressione di sostenere il campo belga-tedesco, Ursula von der Leyen, la presidente tedesca della Commissione europea, ha fatto sapere, sotto la pressione di Roma, che tutte le opzioni restano aperte, per l’esecutivo bruxellese.

Come il portoghese Costa ha sottointeso nel suo discorso, la posizione di Hoekstra fino alla fine ricorda quella di Jeroen Dijsselbloem durante la crisi greca. Dijsselbloem ha detto a un quotidiano tedesco nel 2017: “Come socialdemocratico attribuisco un’importanza eccezionale alla solidarietà. Ma abbiamo anche degli obblighi. Non posso spendere tutti i miei soldi in donne e champagne e poi chiedere aiuto.

Sotto l’effetto della Brexit, i Paesi Bassi sognano, dal 2018, di guidare un gruppo di stati virtuosi membri della “Nuova Lega Anseatica”, termine coniato dal Financial Times nel 2018 in riferimento alla rete di città commerciali medievali intorno al Baltico e al Mare del Nord. Hoekstra si vede come il leader naturale di questo clan, noto anche come il “club dei paesi in tempi critici“, desideroso di posizionarsi contro la coppia franco-tedesca.

Troviamo, al fianco dei Paesi Bassi, anche l’Irlanda, la Danimarca, la Svezia e i tre Stati baltici. Ma i rapporti di forza sono mutevoli. Lo spettro di una “nuova Lega Anseatica“, che i giornalisti di Bruxelles amano molto, non corrisponde alla realtà degli ultimi giorni.

Dublino, ad esempio, è firmataria della lettera a favore dell’emissione di un debito congiunto. E le discussioni molto delicate sul bilancio dell’UE, durante il vertice di febbraio, hanno messo in luce le divisioni in questo campo, con i paesi baltici che chiedono più fondi di coesione e l’Irlanda e la Svezia che cercano più aiuti per l’agricoltura. I Paesi Bassi e l’Austria in particolare sono rimasti nel “club degli avari“.

Mark Rutte, vogliono credere dei diplomatici di Bruxelles, sta arrivando a capire che è sempre più isolato nella capitale belga, anche nei confronti del suo tradizionale alleato, la Germania di Angela Merkel. Sotto il fuoco della critica nei giorni scorsi, si è sentito obbligato a mostrare buona volontà.

L’Italia è tre settimane avanti in questa crisi e ne ha una percezione più acuta rispetto ai Paesi Bassi. C’è un effetto di differenza di fuso orario“, ha detto a Le Monde il filosofo olandese Luuk van Middelaar. Un modo per rimanere ottimisti sulla possibilità di un compromesso nelle prossime settimane. In ogni caso, i dibattiti in corso nei Paesi Bassi dimostrano che le posizioni di Rutte e del suo ministro Hoekstra non sono necessariamente in maggioranza.

L’eurodeputata liberale Sophie in ‘t Veld ha criticato all’inizio di questa settimana la posizione “rozza e crudele” del suo governo, che comprende il suo partito, D66 (liberale e pro-UE). “Non dobbiamo permettere che i nostri amici siano messi a tacere”, ha rincarato il capo del D66, Rob Jetten. Così come i leader del Partito Laburista (PvdA) e GroenLinks (Verdi), anche loro saliti nel campo dell’opposizione. Quanto al presidente della banca dei Paesi-Bassi, Klaas Knot, si è espresso a favore dell’emissione di un debito congiunto.

Ma i margini di manovra di Rutte sulla questione dei “coronabond” sembrano limitati. Innanzitutto, la democrazia parlamentare è forte nei Paesi Bassi. E dalle elezioni del 2017, Rutte dispone di una  maggioranza ristretta, di soli cinque seggi (su 150 eletti alla Camera dei deputati). In caso di un nuovo piano di assistenza del MES, sarà senza dubbio questo Parlamento a dover convalidare gli esborsi.

Il governo di coalizione di Rutte è fragile, composto da forze liberali (il VVD ,il partito di Rutte, e D66), ma anche da un partito cristiano-democratico, il CDA (di cui Hoekstra è membro, e che sogna di assumere l’esecutivo al posto di Rutte) e Christen Unie (protestanti ortodossi).

Rutte è tanto più riluttante a venire in aiuto dei Paesi del Sud perché teme di incoraggiare una nuova spinta da parte dell’estrema destra, in vista delle elezioni legislative del marzo 2021.

Come la Francia, i cittadini olandesi hanno votato nel 2005 contro il Trattato costituzionale europeo (TCE) – e più recentemente si sono opposti a un accordo di associazione tra l’UE e l’Ucraina, causando una mini crisi a Bruxelles.

Non è più tanto Geert Wilders, alleato di Marine Le Pen, a preoccupare Rutte, quanto Thierry Baudet e il suo Forum per la democrazia (FVD), che è favorevole all’uscita dei Paesi Bassi dall’UE (la “Nexit”).

Il partito ha accolto con favore la linea dell’esecutivo: “Sosteniamo il governo nella sua opposizione agli Eurobond, i Paesi Bassi non dovrebbero mai accettarlo!“, ha detto Derk Jan Eppink, un deputato del FVD.

https://www.mediapart.fr/journal/economie/020420/pourquoi-les-pays-bas-refusent-les-corona-bonds

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