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“The Donald” scopre la Luna

Il leggendario filosofo turco Nasreddin Hoca narra di un uomo che, vedendo la Luna riflessa nell’acqua in fondo ad un pozzo, cercò di recuperarla e restituirla al cielo per mezzo di una fune. La fune rimase impigliata ad una roccia sporgente e l’uomo, cadendo all’indietro per l’inutile sforzo, si compiacque nel vedere che la Luna era effettivamente tornata al suo posto.

Si tratta di una favola certo, di un racconto popolare sul desiderio di onnipotenza e realizzazione individuale, come se fosse davvero possibile far affondare la Luna in un pozzo e magari bloccarla lì, escludendola dalla vista degli altri. Eppure, la realtà spesso supera la fantasia.

Infatti, il 6 aprile 2020 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che ha del clamoroso: esso punta infatti a promuovere ed incoraggiare le attività di estrazione di materie prime al di fuori dell’atmosfera terrestre, dando così inizio allo sfruttamento, per ora solo futuribile, delle risorse del nostro satellite naturale.

Il rinnovato interesse per l’esplorazione spaziale non è una novità, è stato anzi un tratto caratteristico dell’ultima amministrazione nordamericana. Nel 2019, il vicepresidente Mike Pence ha annunciato il programma spaziale Artemis, con lo scopo di riportare un equipaggio sulla Luna entro il 2024, per poi stabilirvi più in là un avamposto, nella prospettiva di un viaggio verso Marte.

Nello stesso anno è stata istituita la United States Space Force, il sesto ramo delle forze armate statunitensi, dedicato all’astronautica militare.

Come molti sanno, l’era spaziale è iniziata il 4 ottobre del 1957, quando i sovietici riuscirono a mettere in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik. Negli anni successivi Stati Uniti e URSS si sono contesi il primato tecnico-scientifico ed il prestigio internazionale in quella corsa allo spazio che divenne il simbolo della stessa Guerra Fredda. Nel frattempo, le superpotenze si sono impegnate a circoscrivere giuridicamente l’operato dell’uomo in orbita e oltre.

Nel 1967, 105 Paesi – tra gli stati depositari USA, URSS e Regno Unito – siglarono il Trattato sullo Spazio Esterno (Outer Space Treaty), che stabilisce divieti e limitazioni alle attività umane nello spazio extra-atmosferico. Ad esempio, il Trattato proibisce di condurre manovre o esercitazioni militari, di costruire basi e di utilizzare o allocare armi nucleari in orbita terrestre, sulla Luna o su altri corpi celesti.

All’articolo 2 inoltre riporta: «lo spazio esterno, compresa la Luna e altri corpi celesti, non è soggetto all’appropriazione nazionale per rivendicazione di sovranità, mediante uso o occupazione, o con qualsiasi altro mezzo».

Una formula lapidaria che però lascia questioni aperte, in quanto nella comunità giuridica si dibatte se tale divieto valga anche per i privati e per le attività di sfruttamento (il cosiddetto space mining).

I principi del Trattato furono riaffermati nel 1979 con il Trattato sulla Luna, firmato e ratificato da Paesi che hanno avuto un ruolo marginale nell’esplorazione spaziale [1]. Esso prevede che ogni Stato possa effettuare ricerche su altri corpi celesti, ribadendo ad ogni modo il divieto di sfruttarli per fini militari. Stabilisce inoltre che eventuali attività di estrazione vanno condotte sotto regime internazionale, evitando l’alterazione ambientale.

Con la fine della Guerra Fredda l’esplorazione spaziale ha perso in parte le sue implicazioni strategiche e militari, ponendo invece al centro l’aspetto collaborativo e scientifico. Ma oggi gli Stati Uniti hanno un nuovo potenziale concorrente, la Cina, recentemente atterrata sulla Luna con le sonde Chang’e-3 e Chang’e-4.

In tale mutato scenario internazionale, il Congresso USA ha approvato nel 2015 il Commercial Space Launch Competitiveness Act, (o “Space Act”), che autorizza le società statunitensi ad «impegnarsi nell’esplorazione commerciale e nello sfruttamento delle risorse spaziali», quindi della Luna, degli asteroidi, ed in futuro anche di Marte e di altri corpi celesti.

Per la sua approvazione si sono spese aziende come la Planetary Resources, la Deep Space Industries e la Bugelow Resources, e ciò è indicativo della presenza di forti interessi economici di gruppi privati che già puntano ai profitti derivati dallo sfruttamento di risorse spaziali.

In continuità con l’operato del Congresso, mentre negli Stati Uniti e in tutto il mondo divampa la pandemia, l’ordine esecutivo emanato da Trump introduce alcuni elementi di novità, che analizziamo.

Premesso che «le esplorazioni di successo a lungo termine e le scoperte scientifiche della Luna, di Marte e di altri corpi celesti richiederanno una collaborazione con entità commerciali per recuperare e utilizzare risorse» e dato che «la mancanza di certezze riguardo ai diritti di sfruttamento delle risorse spaziali da parte di soggetti privati […] ha scoraggiato alcune imprese a partecipare al programma spaziale», si ribadisce il diritto nordamericano all’utilizzo delle risorse spaziali e lunari, anche al di fuori dell’interpretazione di altri stati o della comunità internazionale.

«Lo spazio esterno» è infatti «un dominio legalmente e fisicamente unico dell’attività umana e gli Stati Uniti non lo considerano un bene comune».

La questione quindi è duplice. Il primo aspetto riguarda le differenze nella concezione delle attività di sfruttamento lunare dell’amministrazione Trump rispetto ai precedenti trattati e al diritto internazionale. Il Trattato sullo Spazio Esterno dispone infatti (articolo 6) che tali attività possano essere svolte dagli Stati e che i privati possano operare solo se autorizzati e controllati da questi ultimi, che quindi dovrebbero vincolarli al rispetto delle normative internazionali.

Le attività di sfruttamento dovrebbero quindi avere alla base un rapporto di solidarietà e collaborazione tra Stati, eppure gli Stati Uniti hanno ammesso invece, con una legge nazionale contestata da altri Paesi, il diritto per le compagnie private di appropriarsi delle risorse ricavate con attività di space mining per fini commerciali. Insomma, una vera e propria corsa all’oro.

Il secondo aspetto è ancor più sostanziale. È possibile attribuire la proprietà della Luna (o di altri corpi celesti) a qualcuno? Sembrerebbe di no. La Luna rientra in una categoria di beni che già i giuristi romani avevano individuato: le res communes omnium [2], beni naturali non escludibili poiché tutti gli esseri umani possono farne uso. Si menzionano il mare, le coste, persino la luce del sole, l’aria e beni da essa deducibili, come il vento.

Proprio sul mare è opportuno concentrarsi, in quanto l’articolo 1 del Trattato sullo Spazio Esterno stabilisce il «principio di libera esplorazione dello spazio», dei corpi celesti e della Luna secondo delle modalità che per la comunità scientifica sarebbero assimilabili alla normativa sulle acque internazionali: nessuno può dirsene proprietario, ma chiunque può sfruttarne le risorse, ovviamente nei limiti della loro tutela e riproducibilità.

A questo punto l’amministrazione Trump si scaglia contro il trattato sulla Luna, non firmato dagli USA: «gli Stati Uniti non ritengono che l’accordo sulla Luna sia uno strumento efficace o necessario per guidare gli Stati nazionali […]. Il Segretario di Stato si opporrà a qualsiasi tentativo da parte di qualsiasi altro stato o organizzazione internazionale di trattare l’Accordo sulla Luna come […] espressione del diritto internazionale consuetudinario».

Insomma, una presa di posizione unilaterale da parte della prima potenza mondiale, una riproposizione del problema che investe in maniera cronica il diritto internazionale, che fa affidamento sulla correttezzatra i singoli Stati, la quale però è spesso incrinata dai rapporti di forza e di prestigio vigenti. Come garantire quindi la tutela pubblica e universale, immediata sul piano logico, della Luna e dello spazio in generale?

Sul tema dei “Beni Comuni”si segnala un dibattito molto florido e di grande attualità, soprattutto in Italia [3]. Brevemente, in tale concetto rientrano una serie di beni materiali e immateriali fondamentali per la sopravvivenza e lo sviluppo della persona. L’esempio di scuola riguarda l’acqua e, per estensione, la tutela ambientale.

Il problema-corollario in questo caso è di riuscire a garantire che tali beni siano tutelati anche fuori dalle frontiere nazionali, come nel caso della foresta Amazzonica, patrimonio ambientale essenziale per tutta l’umanità, ma che rientra nella giurisdizione del Brasile. Se questa categoria di beni predispone la libertà di accesso, la stessa prevede delle regole, prima tra tutte la gestione comunitaria degli stessi beni.

Classificando la Luna come bene comune, riconoscendo quindi la sua natura di res communes omnium, la comunità che dovrebbe regolarne l’attribuzione e il libero accesso è senza dubbio la comunità internazionale e non un singolo Stato.

Nel momento in cui gli USA prospettano una nuova corsa allo spazio, non solo esclusivamente rivolta al conseguimento di interessi nazionali, ma persino finalizzata all’accumulazione di profitti da parte di società private e quindi difficilmente controllabili, essi compiono, sul piano giuridico, una grave lesione del diritto internazionale.

È allora necessario un intervento di caratura internazionale che preveda però strumenti reali, tramite cui le organizzazioni e i singoli Stati possano far valere le ragioni universalistiche della tutela dei beni terrestri ed extra-terrestri, beni che non possono essere trattati secondo logiche di mercato.

Allo stesso tempo, è necessario un forte movimento popolare, già inavanzamento rispetto alle tematiche ecologiche, dotato della consapevolezza che, di fronte ad un sistema economico deleterio per le risorse del nostro pianeta, occorre cambiare il sistema e non il pianeta.

Si tratta di una necessità storica e contemporaneamente di una questione di sopravvivenza, oggi più di ieri, domani più di oggi, dinanzi alla prospettiva della nascita di un “imperialismo spaziale” che getta un’ombra sul futuro di tutti.

Note:

[1] Il Trattato sulla Luna è stato ratificato solo da Australia, Austria, Belgio, Cile, Filippine, Kazakistan, Libano, Marocco, Messico, Paesi Bassi, Pakistan, Perù e Uruguay. Francia, Guatemala, India e Romania l’hanno solo firmato, senza ratificarlo.

[2] Il Giurista Marciano li definiva così, in 3 instD. 1.8.2.1: ‘Et quidem naturali iure omnium communiasuntilla: aer, aquaprofluens, et mare, et per hoc litoramaris‘.

[3] Due dei testi più profondi a riguardo sono senza dubbio “il Terribile Diritto”, di Stefano Rodotà e “Il territorio bene comune degli italiani” di Paolo Maddalena.

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