A sole 72 ore dall’auto-proclamazione alla «guida del popolo della Libia», il Generale Khalifa Haftar, a capo dell’Esercito nazionale libico (Lna), annuncia una tregua delle operazioni militari per il periodo del Ramadan, iniziato lo scorso 24 aprile.
Un annuncio quasi più problematico di quello fatto lunedì sera, in una tv locale fedele al Generale, che già tanti dubbi aveva sollecitato circa lo “stato di salute” del fronte dell’Lna.
Molti analisti stanno descrivendo questi due passaggi come sintomatici della crescente debolezza di Haftar, anche nella sua Cirenaica. Se per adesso è comunque difficile sbilanciarci sull’esito del conflitto, mettere in ordine i pezzi del puzzle può aiutare a comprendere cosa sta succedendo in Libia, dividendo per semplicità la questione militare da quella politica
Il fronte militare
Il Generale in aprile ha subìto la più brusca sconfitta dallo scorso giugno, quando le truppe del Governo di accordo nazionale (Gna), presieduto da Fayez al Serraj e sostenuto dalle Nazioni unite (Onu), ha ripreso il controllo delle coste a ovest della capitale Tripoli, fino al confine con la Tunisia, dove milizie berbere pro-Gna controllavano da tempo alcuni valichi strategici tra i due paesi.
La velocità con cui il Gna ha riportato sotto il suo controllo città importanti come Sabrata e Sorman fanno emergere numerosi dubbi sull’effettivo controllo da parte di Haftar sulle zone conquistate dal suo esercito, una rappresentazione di forza superiore alla realtà, secondo lo Stanford internet observatory, sostenuta da un sistema di manipolazione dell’informazione locale messo in piedi dall’alleato russo, che sul Generale ha puntato le sue fiches per trovare il tanto agognato “sbocco sul Mediterraneo”.
Ma il capovolgimento nell’ovest del paese è arrivato a mettere in discussione anche la tenuta di Tarhuna, centro logistico strategico per gli uomini dell’ex ufficiale di Gheddafi. L’incognita maggiore, sostengono alcuni analisti, è che Tarhuna e Tripoli non si sono mai fatte la guerra, quindi se il “dialogo” (se di questo mai realmente si tratta durante una guerra civile) tra i rispettivi comandi finisse con la ritirata delle truppe del Generale senza troppi strascichi, segnerebbe un punto importante per il governo di Serraj.
Tuttavia, se l’aiuto dei turcomanni islamisti reclutati dalla sconfitta in Siria e inviati da Ankara a sostegno di Tripoli sta dando i suoi effetti – tanto che un poliziotto di Sabrata ha dichiarato sul Middle Eeast Eye che potrebbe a breve ripartire il “traffico di umani” dalle coste nordoccidentali del paese, essendoci tra le milizie al servizio dello Gna molti trafficanti presenti sui taccuini dell’Onu, che pur sostiene questo governo! –, alti dirigenti emiratini sono stati avvistati martedì a Khartoum (su un aereo recante il logo del Manchester Utd) per chiedere al governo sudanese nuovi mercenari per sostenere l’avanzata verso Tripoli del Generale (The Libya Observer).
Il sostegno degli Emirati arabi uniti al Haftar è noto da tempo (sia con missili che con droni di fabbricazione cinese), così come quello dell’Egitto, a cui si è aggiunto da poco anche quello della Siria – dove in marzo a Damasco è stata riaperta l’ambasciata emiratina – in un più lunga strategia di rappacificamento da parte di Bashar al-Assad col mondo arabo che inquadra nella Turchia (e il Qatar) il nemico comune, reo di voler sovvertire lo status quo dei rapporti di forza in Medio Oriente.
Inoltre, mercoledì il ministro degli esteri del governo di Tripoli ha inviato una lettera in Francia denunciando la presenza non autorizzata di aerei militari, francesi per l’appunto, sui cieli di Misurata, 200 km ad est di Tripoli.
Il fronte politico
Se il fronte militare non presenta certezze circa la reale forza in campo dei contendenti, oltretutto alle prese con una eterogeneità di alleati che di certo non rafforza i rispettivi comandi, quello politico si presenta altrettanto complesso, ma con un segno più nitido.
La Francia, come appena scritto, nonostante sia ufficialmente col governo riconosciuto dall’Onu, sostiene de facto Haftar, sin da quando bombardava la capitale con i suoi aerei. Nella Cirenaica il governo francese detiene molti interessi, soprattutto legati allo sfruttamento dei ricchi giacimenti petroliferi, presenti in gran quantità nell’est del paese.
Quest’atteggiamento è una cartina di tornasole delle divisioni interne nell’Unione europea, incapace di giocare un ruolo anche progressivo per la soluzione pacifica del conflitto, come testimoniato dal fallimento della Conferenza di Berlino del 20 gennaio scorso e dagli accordi sottoscritti con gli emiratini, nonostante questi siedano chiaramente dall’altra parte del tavolo.
Ma all’insufficienza “europea” fa da contraltare, in questi giorni, un generico dissenso da parte delle forze in campo nei confronti dell’auto-proclamazione a guida della Libia di lunedì da parte di Haftar, non appoggiata da Mosca.
Proprio un’inchiesta del New York Times mostra come le chance di vittoria accordate dalla Federazione russa al Generale, nonostante il sostegno pluriennale, non erano mai state molte, ma la titubanza statunitense nelle prime fasi dell’avanzata di Haftar avevano aperto un varco in cui Mosca si era infilata nel piano di riequilibri delle forze geopolitiche con Washington.
Ora però a un anno dall’inizio della guerra, con il prezzo del petrolio e la pandemia che picchiano duro sulle finanze del Cremlino, con Haftar dato in difficoltà anche nel tenere insieme le numerose quanto eterogenee tribù nel Fezzan – la cui riunione avvenne sotto l’unica promessa di cacciare il governo Onu, traditore sulle promesse accampate per la guerra a Gheddafi –, Mosca vede di buon occhio uno stop delle operazioni militari nell’aerea, cementificando i nuovi rapporti di forza comunque instaurati nel paese.
Sulla stessa lunghezza si muove l’Egitto, la cui ombra lunga sul governo orientale di stanza a Tobruk, presieduto da Agila Saleh, vicino al presidente egiziano al-Sisi, spinge per un soluzione politica che porterebbe la Cirenaica sotto l’influenza de Il Cairo (Affari Internazionali).
Quale futuro per Haftar?
Insomma, l’Lna si presenta in questo maggio con la sconfitta militare più pesante dell’inizio della campagna e i suoi alleati più esposti (Russia ed Egitto) in progressivo convincimento della bontà di una soluzione politica alla contesa.
Dall’altra parte, la Francia non può sostenere alla luce del sole (e in solitaria) una posizione contraria a quella internazionale, e gli emiratini dovranno fare i conti, oltre che con l’impennata di contagi da coronavirus, anche con gli svolgimenti importanti che in questi giorni interessano la guerra in Yemen.
Il risultato del come back di Tripoli sembra allora risiedere più in questa congiuntura politica sfavorevole al Generale che non nella forza del comunque debole governo di Serraj, a volte disconosciuto anche dai suoi stessi sostenitori, come nel caso dell’embargo dei rifornimenti militari imposti ad ambedue le fazioni, come se il Gna non fosse il governo riconosciuto dalla comunità internazionale.
In questo quadro, spicca la debolezza degli Stati uniti, che dalla presidenza Trump sono sempre meno capaci di incidere nelle dinamiche mediorientali, ridondanza di tweet lanciati dal presidente a parte.
Tuttavia, questa guerra ha abituato a repentini capovolgimenti e promesse non mantenute, come avvenuto nelle ultime ore. Quelle a venire potrebbero comunque consegnare indicazioni importanti sul futuro prossimo del conflitto.
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