Menu

Ucraina: dopo 6 anni la strage nazista di Odessa aspetta ancora una risposta

C’è una data che sulla quasi totalità dei grandi mezzi di informazione demoliberale è d’uso tacere: 2 maggio 2014.

Sei anni fa si consumava il crimine che avrebbe anticipato il terrorismo e le stragi ucraine nel Donbass: quarantadue (secondo la versione ufficiale) antifascisti venivano assassinati alla Casa dei sindacati di Odessa.

I più, vennero uccisi o bruciati vivi all’interno dell’edificio, in cui si erano rifugiati per sfuggire alla caccia all’uomo scatenata dalle bande dei golpisti Turcinov, Parubij, Jatsenjuk, fatte affluire a Odessa alla vigilia. Altri, che avevano cercato scampo dalle fiamme lanciandosi dalle finestre del palazzo, vennero finiti a colpi di pistola e di spranga.

I nazisti ucraini fornivano al mondo il primo esempio di ciò che sarebbero stati capaci di fare contro la popolazione civile delle Repubbliche popolari, in un’aggressione terroristica che non si è ancora conclusa.

In questi sei anni, si sono alternati tre presidenti golpisti (il primo, Aleksandr Turcinov, “ad interim”) e almeno quattro primi ministri. Ma non sembra che la versione della Procura generale golpista, secondo cui colpevole della strage sarebbe il “vento che aveva alimentato le fiamme”, sia mai stata rivista. Ci si chiede se il “nuovo” presidente ucraino, Vladimir Zelenskij, non voglia o non possa – o entrambe le cose – cambiare alcunché nella linea golpista.

Se proprio devono parlare di Odessa, i mezzi di incanalamento informativo, ritengono più semplice e più “distensivo” intrattenersi sul possibile ritorno in scena di Mikhail Saakašvili. Al secolo: per l’appunto, ex governatore di Odessa e una delle comparse del dramma yankee ambientato in Ucraina.

Ex presidente georgiano e beniamino occidentale sin dai tempi della cosiddetta “rivoluzione delle rose” – il golpe del 2003 in Georgia – e dell’attacco all’Ossetija del Sud nel 2008, che costò alla Georgia una guerra con la Russia persa in cinque giorni; ricercato in Georgia per una questioncella di appropriazione di 5 milioni di dollari e falsificazione di prove nella vicenda della morte dell’ex premier Zurab Zhvania.

Della possibile nomina di Saakašvili a una poltrona ucraina di peso  – si è parlato anche del posto di vice premier, ma la Rada non ha per ora messo la nomina all’ordine del giorno – si vocifera almeno da una decina di giorni.

Sembra che il presidente Vladimir Zelenskij avverta la necessità di averlo vicino per almeno due ragioni: una esterna e una interna. La prima, è data dalle scadenze che Kiev ha in sospeso proprio nel mese di maggio col FMI, con cui Saakašvili ha diversi agganci. L’altra, sembra sia dovuta al bisogno di controbilanciare la forza crescente del perenne Ministro degli interni, Arsen Avakov.

Questi, origine armena e anima candida al pari di Saakašvili – il primo ha all’attivo inchieste e procedimenti tuttora in corso sia in Ucraina che in Russia; il secondo, nei due anni in cui era rimasto a Odessa, era riuscito a farsi accusare di macchinazioni speculative e appropriazione di fondi pubblici – oltre a condividere l’anima caucasica, ha con il georgiano alcuni conti personali in sospeso, pur avendo nel 2015 contribuito a buttar fuori dall’Ucraina buona parte della squadra georgiana che Mikhail si era portato dietro, a cominciare dalla vice Ministro degli interni, Ekaterina Eguladze, bloccata all’aeroporto di Kiev con 4 milioni di dollari in tasca.

E, di sicuro, né l’uno né l’altro hanno scordato il luminoso scambio di gentilezze reciproche al Consiglio Nazionale per le Riforme, in occasione della discussione sulla privatizzazione delle strutture dell’antiporto di Odessa, nel cui affare tutti, ma proprio tutti, compreso l’allora primo ministro Arsenij Jatsenjuk, avevano qualcosa da perdere o da guadagnare.

Ma, osserva Mar’jan Sidorov su iarex.ru, l’opportunità del rientro del georgiano (quantunque, a rigore, non abbia più tale cittadinanza, mentre quella ucraina, inizialmente persa, gli è stata restituita proprio da Zelenskij) ai vertici di Kiev è abbastanza dubbia, perché rischia di far vacillare i legami con i tre “amici” più fidati: Washington, Bruxelles e Tbilisi.

A ben guardare, però, i legami di Mikhail con gli USA hanno per lo più matrice “democratica”: Biden padre e figlio, per intendersi, e la “Burisma Holding”. E si conoscono i dolori di stomaco di Donald Trump al solo pronunciare i nomi di Joe e Hunter.

Anche sul fronte georgiano, Tbilisi ha già minacciato di richiamare l’ambasciatore a Kiev, in caso di nomina del “nemico pubblico numero uno” e, nota Sidorov, dati i piani europei per il “Partenariato orientale”, in caso di conflitto tra Kiev e Tbilisi, è molto probabile che Bruxelles prenda le parti di quest’ultima.

In definitiva se, come pare, il partito presidenziale “Servo del popolo” non dispone di voti sufficienti alla Rada per la nomina di Saakašvili a cariche ministeriali, è probabile che Zelenskij lo tenga di riserva per quel Consiglio Nazionale per le Riforme in cui bicchieri d’acqua e epiteti impronunciabili tra ardenti caucasici volano che è un piacere.

C’è da vederne ancora delle belle, purtroppo, sulla pelle sia del popolo ucraino, stremato da sei anni di “riforme democratiche”, sia della popolazione del Donbass, che aspetta ancora l’attuazione di otto dei nove punti concordati dal “Quartetto normanno” – i Ministri degli esteri di Francia, Germania, Russia e Ucraina – riunitosi di nuovo ieri l’altro in viedo-conferenza.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *