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Cina. L’ora delle scelte economiche per l’anno in corso

Questo fine settimana si aprono le sessioni parlamentari annuali della Repubblica Popolare Cinese. Come scrive Paolo Rizzi nell’intervento che qui pubblichiamo: “La sessione dell’NCP dovrà approvare il Piano Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale del 2020, in cui verrà tracciato l’obiettivo di crescita del PIL e degli altri indicatori”.

Le sessioni si terranno in un contesto in cui sta riemergendo con forza la tendenza alla guerra commerciale degli USA nei confronti della Cina ed allo stesso tempo si sviluppa con insistenza in porzioni rilevanti dell’opinione pubblica cinese la necessità di accettare il piano dello scontro economico con gli USA sia in termini di ritorsioni alle aziende americane (dalla Apple alla Boeing) che nello sviluppo di una maggiore capacità nelle tecnologie avanzate senza il supporto dell’High Tech statunitense.

Non usa mezzi termini l’editoriale del “Global Times” del 15 maggio che parla espressamente già nel titolo di una “guerra prolungata” con gli USA: “L’ambiente per lo sviluppo pacifico della Cina è notevolmente cambiato. Anche le politiche interne ed estere della Cina devono adeguarsi.”

Il discorso è semplice: se gli USA minacciano lo sviluppo cinese e le relazioni internazionali della Repubblica Popolare, la Cina deve usare la massima deterrenza nei confronti degli States.

Da parte loro gli Stati Uniti hanno già trovato il “casus belli” nelle supposte gravi responsabilità derivanti dalla gestione del contagio da parte della Cina – e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ritenuta da Trump “sino-centrica” – , spingendosi a dare credito alla teoria della derivazione del virus dal laboratorio di Wuhan.

Tra gli interventi più lucidi su questo aspetto bisogna annoverare quello di Massimo D’Alema, non esattamente l’ultimo arrivato nella politica italiana, forse beneficato dall’essere al momento fuori da ogni vertice decisionale: “in questi giorni molti hanno ricordato la famosa pistola fumante che portò alla guerra in Iraq, ma io che sono più vecchio ricordo anche l’incidente del golfo del Tonchino; anche quello non era vero, ma portò alla guerra del Vietnam. Ogni volta che gli americani se ne escono con queste teorie di complotto io tremo perché normalmente questo è stato il preludio alle guerre”.

Che questo pretesto serva da smoking gun per la precipitazione dei rapporti anche sul piano militare con la Cina non è dato saperlo – anche se non mancheranno le tensioni nell’Indo-Pacifico e le “guerre per procura” -, ma è chiaro come la guerra sia l’unica narrazione in grado di produrre un regime discorsivo che distolga i concittadini di Donald Trump dalla catastrofiche condizione in cui versa il suo Paese.

Non importa se “Orange Man” sembra la copia in sedicesimi del mitico John Belushi, in “Animal House”, quando esorta a non mollare i suoi in un discorso in stile patriottico: “quando i tedeschi bombardarono Pearl Harbor”.

È un mentitore seriale sempre più isolato sul piano internazionale, come conferma l’esito negativo per lui della due giorni di lavori dell’assemblea annuale “virtuale” dell’OMS.

È costretto ad ammetterlo lo stesso New York Times:

“Li stiamo attivamente alienando, il che non è una buona strategia competitiva da parte nostra”, ha dichiarato Thomas J. Christensen, direttore del programma China and the World alla Columbia University ed ex vice segretario di stato degli Stati Uniti per l’Oriente, Affari asiatici e del Pacifico. “Stiamo indebolendo il nostro profilo diplomatico in tutto il mondo e rafforzando quello della Cina” .

Più chiari di così…

Ma torniamo alla Cina e lasciamo ad un articolo Jamil Anderlini, apparso sull’autorevole quotidiano economico britannico Financial Times, il compito di illustrarci – in maniera meno grezza della solita spiegazione dovuta alla “natura autoritaria del regime cinese” – le ragioni della capacità di tenuta della dirigenza comunista nonostante l’impatto della crisi:

Queste decine di milioni di migranti disoccupati non rappresentano una potente minaccia alla stabilità a causa di una struttura della cittadinanza a due livelli che Pechino rifiuta di riformare, almeno in parte per questo motivo. In Cina, tutti i cittadini sono designati alla nascita con una “registrazione familiare” urbana o rurale che è molto difficile da cambiare.

La stragrande maggioranza dei lavoratori migranti interni sono contadini che viaggiano nelle città per lavorare in fabbriche e ristoranti o guidare veicoli per le consegne. Non hanno diritto ai benefici forniti ai cittadini urbani. Se perdono il lavoro in città ritornano per lo più nella loro città o villaggio dove, in assenza di un’adeguata rete di sicurezza sociale, possono almeno coltivare abbastanza cibo da mangiare.

Ciò significa che la Cina non ha enormi baraccopoli piene di poveri senza terra come in India, Brasile o Indonesia.(…). Nel frattempo, la classe media urbana rimane il principale beneficiario della rapida crescita della Cina. Hanno diritto al benessere sociale di base e possono essere addolciti con ulteriori dispense. È anche improbabile che si ribellino ora.”

Buona lettura

*****

Venerdì 22 maggio a Pechino cominciano le liǎnghuì, le due sessioni annuali del National People’s Congress – NPC, il parlamento cinese – e della Chinese People’s Political Consultative Conference – CPPCC, la camera di consultazione del governo e dell’NPC. In tempi normali le due sessioni si svolgono all’inizio dell’anno e sono largamente cerimoniali, ratificano a larghissima maggioranza il lavoro fatto dalle commissioni permanenti che lavorano tutto l’anno.

Ovviamente non sono tempi normali, è la prima volta dagli anni ‘80 che le liǎnghuì vengono rimandate per mesi e possiamo solo immaginare lo scompaginamento che la pandemia ha impresso al processo legislativo cinese. L’unica cosa su cui gli osservatori internazionali sono d’accordo è che l’NPC non potrà fare una sessione di ordinaria amministrazione.

Il primo compito formale dell’NPC è assistere e approvare il report di lavoro da parte dell’esecutivo, che verrà pronunciato dal capo del governo Li Keqiang. È abbastanza facile prevedere che sulla gestione dell’epidemia questo report si muoverà sulle stesse linee del discorso di Xi Jinping all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma non potrò eccedere in trionfalismo.

In parte perché nella provincia settentrionale del Jilin, al confine con la Corea del Nord e con la Russia, sono andate in lockdown le città di Jilin e di Shulan, per un totale di più di 5 milioni di persone. E in parte perché la società cinese attende risposte sull’economia.

La sessione dell’NCP dovrà approvare il Piano Nazionale di Sviluppo Economico e Sociale del 2020, in cui verrà tracciato l’obiettivo di crescita del PIL e degli altri indicatori. Per raggiungere gli obiettivi di crescita sociale verso una “società socialista moderatamente prospera” il piano quinquennale impostava una crescita attorno al 6%, mentre le stime dell’Organizzazione Mondiale del Commercio parlano di una crescita per il 2020 tra il 2 e il 3%.

Chiaramente diventa molto difficile fare stime quando il commercio internazionale si blocca e il presidente degli Stati Uniti cerca di trascinare gli alleati (un po’ scontenti di questo, va detto) nello scontro commerciale.

Lo stato cinese non si è mai tolto di mano le leve per poter manovrare l’economia di fronte alle crisi. Già un decennio fa si è visto col massiccio piano di investimenti pubblici da più di 500 miliardi di dollari per far fronte alla crisi innescata dai mutui americani.

Come nota Michelangelo Cocco per il Centro Studi sulla Cina Contemporanea, ora sembra farsi strada un consenso su un mix di politiche economiche a favore dell’occupazione e di spesa in deficit per finanziare progetti ragionati su scala locale, piuttosto che i grandi progetti infrastrutturali di dieci anni fa.

Questo tipo di politica potrebbe rispondere alla necessità di contenere la disoccupazione che nelle statistiche ufficiali è salita dal 4% al 6%, un aumento che in numeri assoluti corrisponde a circa 5 milioni di persone.

D’altra parte una politica di spesa in deficit da parte dei livelli inferiori dello Stato non piace alle imprese private, come quelle che sul South China Morning Post (quotidiano di Hong Kong di proprietà di Jack Ma… a sua volta membro del PCC!) lamentano i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione e già prima della crisi invocavano meccanismi di monitoraggio sulle spese di province, contee e municipalità.

Infine, per contrastare lo scontro commerciale di Trump, il ministro del commercio Zhong Shan ha già annunciato progetti per aprire nuove Zone Economiche Speciali e importare investimenti dall’estero. Da decenni la Cina ha una politica attenta di attrazione degli investimenti, ora cerca di attirare investimenti ad alto contenuto tecnologico mentre, in parallelo, cerca di ridurre la dipendenza dall’estero.

Si è visto col tentativo di Trump di fare terra bruciata attorno a Huawei nel 2019, che si è concluso con la marcia indietro di Trump e il ritorno alla negoziazione commerciale proprio col ministro Zhong Shan. Ora che l’applicazione dell’accordo Cina-USA è di nuovo in bilico, Trump torna alla carica vietando la vendita di microchip a Huawei. La risposta cinese è stata di investire 2,2 miliardi di dollari del fondo pubblico Big Fund nel produttore locale SMIC.

Durante queste liǎnghuì bisognerà quindi vedere quante energie saranno destinate alla crescita del PIL e quante agli altri indicatori sociali, quanto e come reagirà alla pressione commerciale degli Stati e Uniti e dei loro alleati più fedeli come il Giappone e l’Australia.

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3 Commenti


  • Mario Galati

    Articolo interessante su argomenti importanti, a margine del quale vorrei fare un’osservazione inessenziale sul “lucido” Massimo D’Alema; talmente lucido da evitare accuratamente di ricordare, tra i pretesti menzogneri di aggressione, le sbandierate fosse comuni del Kosovo, con cui il governo guidato da lui medesimo partecipò all’infame aggressione alla Jugoslavia (della quale continua a sostenere la legittimità), con bombardamento dell’ambasciata cinese, in qualità di vassallo spregevole degli USA e della NATO.
    Lo faccio perché vedo ancora qualcuno che non riesce a liberarsi dal fascino di questo grande teorico e stratega che, in cuor suo, sarebbe capace di sentirsi addirittura all’altezza di un Togliatti. E qualcuno finisce per subire questo narcisismo megalomane scambiandolo per grandezza. Ciò avviene ogni qualvolta riesce a dire qualcosa di corretto, essendo libero da impegni e responsabilità. In caso contrario, infatti, la libera aquila si trasforma in un cane fedele e arrogante del capitale, pur di affermarsi, fare carriera e soddisfare il suo ego.
    Ancora c’è qualcuno che, a fronte di queste libere uscite, considera D’Alema una risorsa e riapre un capitolo che, invece, dovrebbe essere definitivamente chiuso e sepolto.


    • Redazione Contropiano

      Scorrendo (molto) all’indietro il nostro giornale si può verificare che a D’Alema non gliene abbiamo mai perdonata una, a partire dala guerra in Jugoslavia ma (senza giornale) da quando ancora doveva diventare segretario della Fgci (1977).
      Qui si nota, en passant, una attenzione a temi che sul mainstream passano in modo appiattito e appunto, servile. Poi, certo, in questo momento se lo può permettere perché libero da impegni istituzionali…


  • Mario Galati

    Sia chiaro che non imputo nulla a Contropiano. Ho letto, invece, altrove qualche dichiarazione improvvida di trasporto dalemiano da qualcuno dal quale non me lo sarei aspettato.

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