Il conflitto tra Cina e Stati Uniti è tornato ad essere al centro della scena internazionale.
Il montare della tensione è stato causato principalmente dalle varie affermazioni di Trump e da altre figure di spicco del suo staff, tese innanzitutto a sviare l’attenzione dalla disastrosa gestione del contagio – i decessi negli Stati Uniti sono prossimi ai 100.000 – e dalla catastrofica situazione sociale con una ondata di disoccupazione – ben più di 30 milioni senza contare i 100 mila “scoraggiati” – mai vista nella storia degli USA.
“Recidere tutte le relazioni”?
Ma l’acredine di Trump e soci sono state accompagnate da tre fatti concreti sul piano delle scelte economiche.
La prima riguarda un fondo di investimenti pensionistico dei lavoratori a cui è stato “vivamente consigliato” di non investire il proprio portfolio in stock cinesi.
Il monito al board di FRTI – il fondo che vale 600 miliardi di dollari – era già stato fatto a novembre, ma non aveva dato esito positivo. Questa volta le paventate sanzioni prossime e venture contro la Cina ed in generale il clima instauratosi deve avere influenzato la decisione di chi gestisce i risparmi di quasi sei milioni di impiegati federali attivi o in pensione.
L’attuale amministrazione, com’è nel suo stile, ha pensato comunque di procedere alla sostituzione di 3/5 del board, caso mai…
Il secondo fatto rilevante è un rafforzamento dei controlli sulle esportazioni delle aziende statunitensi che producono anche all’estero componenti per il gigante cinese Huawey, le altre aziende di telecomunicazioni cinesi e chi fornisce loro componentistica.
Si tratta del rafforzamento di una tendenza già in atto della guerra digitale in atto da tempo e che le aziende statunitensi hanno cercato in qualche modo di aggirare come dimostra la continuità di fornitura di componenti per il nuovo mobile della Huawey, il P40.
L’annunciato investimento della Taiwan Semiconductor Manifacturing – la leader mondiale del suo settore che rifornisce l’industria delle telecomunicazioni cinesi – del valore di 12 miliardi di dollari in Arizona deve avere fatto “innervosire” qualcuno a Washington.
«La nuova legge» riporta il “Financial Times” «impedisce ad una compagnia dal vendere a Huawey senza una licenza se il prodotto che sta fornendo è stato ideato o fabbricato usando tecnologia prodotta negli Stati Uniti».
È prevista una “sospensione” temporanea di 90 giorni per permettere alle aziende di adattarsi alla normativa.
Il terzo avvenimento significativo è il finanziamento tramite l’agenzia statunitense preposta – l’USIDFC – di prestiti alle imprese che riallocano le aziende negli USA.
Quello della re-internalizzazione delle filiere produttive è un tema che la Pandemia ha risposto con forza rafforzando l’ipotesi alla “de-globalizzazione” non solo negli USA.
In generale le conseguenze economiche delle misure intraprese dalla Cina per contenere il contagio hanno mostrato la debolezza strutturale di alcuni sistemi-Paese dipendenti dalle filiere produttive cinesi per alcuni settori chiave, dall’automotive giapponese all’industria farmaceutica indiana per esempio.
Una presa di posizione netta è stata presa da R.E. Lighthizer rappresentante al commercio statunitense in un suo intervento sul “New York Times” della scorsa settimana dal titolo eloquente: “L’era dell’offshoring dei posti di lavoro statunitense è finita”.
A Washington sembrano che si siano accorti addirittura che l’internalizzazione delle filiere produttive durante la globalizzazione ha fatto perdere posti di lavoro nel settore manifatturiero…
Festeggiano i “china haws” statunitensi e si avvelena il clima tra le super-potenze con il portavoce del ministro degli esteri cinese che ha parlato – riferendosi ai falchi statunitensi – di “mentalità da guerra fredda”.
Queste mosse prefigurano i prima passi di una prassi per “cut off the whole relationships” come ha minacciato Trump? Difficile dirlo.
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Cina-Usa: un rapporto complesso
È un rapporto complesso infatti quello tra le due “super potenze”.
Se da un lato la globalizzazione neo-liberista le ha portate a divenire sempre più inter-dipendenti a livello economico, nel corso degli ultimi anni sono diventate sempre più antagoniste a livello geo-politico.
La fase uno del “mini-trattato” commerciale siglato quest’anno prima della pandemia sembrava aver posto fine a quasi due anni di guerra commerciale, ma non risolveva i motivi di attrito – soprattutto riguardo alla “guerra digitale” – emersi con forza alla Conferenza sulla Sicurezza della NATO a Monaco di Baviera a febbraio di quest’anno. Lo scontro sulle alleanze di alcuni Paesi Europei con la repubblica Popolare rispetto al 5G era la punta di un “iceberg” di una guerra digitale senza esclusione di colpi.
Ed è proprio Trump che non perde occasione per ricordare che se la Cina non adempirà ai suoi impegni di acquisto nei confronti degli USA, il trattato salta ritornando ad uno status quo ante, mentre altri esponenti come R.Lighthizer o S.Mnuchin sono più pragmatici e dialoganti e si adoperano per perpetuarlo, trovando una sponda importante in una parte dell’establishment politico cinese.
Un fatto è certo gli investimenti cinesi che nel 2016 ammontavano a 45 miliardi di dollari nel 2019 erano pari a 5 miliardi secondo i calcoli fatti da Rhodium Group.
Un disimpegno non da poco…
Numerosi sono i terreni di scontro tra i due Paesi: dalla possibilità di sfruttare importanti risorse strategiche come i metalli rari al differente posizionamento rispetto a rilevanti dossier di politica internazionale –quasi tutti – così come i possibili punti di frizione nell’Asia Pacifico lungo le linee di difesa della Cina e gli snodi della “nuova via della seta” marittima.
Una parte dell’amministrazione Trump ed il presidente stesso ha nuovamente “rinfocolato” lo scontro prendendo come pretesto la presunta inefficienza della Cina nel contenere il virus permettendone la diffusione oltre confini, per non parlare della fantasiosa ipotesi di origine del Covid-19 in un laboratorio di Wuhan sostenuta anche dal Presidente statunitense.
Di fatto anche gli attacchi all’Organizzazione Mondiale della Salute – a cui gli Stati Uniti hanno annunciato di sospendere il pagamento delle proprie quote – si inscrivono nel confronto con la Repubblica Popolare, considerando che proprio Trump aveva descritto l’OMS come sino-centrica
Un’altra parte dell’amministrazione statunitense, come abbiamo accennato, ha cercato invece di stabilire una relazione più pragmatica con la Cina mettendo mano proprio al “mini-trattato” per consolidare il rapporto economico che sembrava essersi instaurato, ed allontanare lo spettro della fine di quell’accordo anche perché gli sbocchi di mercato in questa situazione di “recessione globale” sono ossigeno per il settore già in forte difficoltà dello shale oil e gas, per i produttori agricoli e l’industria alimentare statunitense.
Una parte dell’apparato militar-industriale “spinge” nell’aumentare la pressione sulla Cina specie nell’Indo-pacifico adottando il vecchio refrain del gap balistico nord-americano – come il senatore repubblicano dell’Arkansas Tom Cotton – per finanziare ulteriormente l’industria missilistica o come fa Philip Davidson – ammiraglio a capo del comando dell’Indo Pacifico – propugnando una maggiore deterrenza che neutralizzi le aspirazioni cinesi in questo quadrante .
Le elezioni presidenziali a novembre complicano ulteriormente il quadro. Il suo attuale sfidante democratico non ha lesinato critiche a Trump accusato di essere troppo morbido con la Cina, segno che la volontà di confliggere è “bi-partisan”.
La ripresa cinese
La Cina sembra avviata verso la quasi totale ripresa dell’attività produttiva dopo il forte rallentamento dell’economia dovuto alle misure – fino ad ora vittoriose – prese per il contenimento del contagio.
I dati rilasciati la scorsa settimana sono abbastanza eloquenti e smentiscono le previsioni degli analisti occidentali che prefiguravano una ripresa più lenta. Investimenti in asset e commercio al dettaglio stanno ancora soffrendo, ma il cuore dell’economia produttiva a ripreso a pieni ritmi come dimostrano le importazioni per la produzione d’acciaio…
Sulla disoccupazione dei lavoratori migranti dalle campagne poi gli analisti sembrano ignorare come l’ambiente rurale possa “riassorbire” storicamente questo tipo di forza lavoro all’interno delle aziende a conduzione familiare e sembrano non considerare le caratteristiche complessive del sistema agricolo cinese e la sua complementarietà con quello industriale.
In buona sostanza, le esortazioni fatte da Xi il 17 febbraio: “riprendere il lavoro, riprendere la produzione, riprendere l’attività economica” sembrano avere trovato riscontro nella pratica ad un mese di distanza.
Alcuni analisti – già prima della rivelazione dei dati dell’Ufficio Nazionale di Statistica questo venerdì – sottolineavano “la resilienza” dell’economia cinese, altri affermano che “c’è stato arretramento ma non implosione” ed in generale versa in condizioni migliori dei suoi competitor statunitensi ed europei.
La Cina proiettata sul piano internazionale grazie al ruolo di leadership avuto nella gestione della pandemia, ed è in pole position riguardo alla sperimentazione del vaccino.
Sarà per questo che Mike Pompeo, l’FBI e l’agenzia che si occupa della cyber-sicurezza hanno rilevato con ovvi intenti propagandistici – senza fornire riferimenti precisi o prove notevolmente – l’attività di cyber-spionaggio di hackers cinesi nei confronti delle aziende statunitensi che lavorano rispetto ai trattamenti per il Covid-19.
Il ruolo svolto a livello medico-sanitario che ha un precedente importante in Africa nella lotta contro l’Ebola è il corollario dell’iniziativa della “Nuova Via della Seta”, che è uno degli assi strategici dello sviluppo innanzitutto regionale e del “soft power” cinese nel mondo.
La sperimentazione poi di una cripto-valuta sovrana cinese potrebbe aprire la prima vistosa crepa nell’egemonia del dollaro, mentre il consolidarsi di una rete di relazioni economiche che non abbiamo come perno gli USA – in ambito BRICS – potrebbero marginalizzare ulteriormente il peso della potenza americana, considerate le notevoli difficoltà che stanno attraversano attualmente gli States sotto molteplici punti di vista.
La seconda potenza economica mondiale, anche se la spesa totale ed il numero di testate nucleari possedute dagli States sono notevolmente superiorista annullando il vantaggio strategico in due campi centrali nella competizione militare: quello delle porta-aerei americane nel Pacifico rispetto alle proprie linee di difese attraverso l’evoluzione dei propri sistemi balistici e quello della “guerra spaziale” con la fase finale del proprio sistema satellitare.
La proposta cinese della “Nuova Internet” formulata in ambito ONU e che dovrebbe essere discussa a novembre è un altro terreno in cui gli USA e l’Occidente sembrano perdere egemonia. In questo caso la Cina non solo sembra annullare un vantaggio competitivo, ma determina un piano in una sfera fondamentale dei futuri impieghi della rete.
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Un analista politico – Chen Zhiwu docente di economia finanziaria ad Honk Kong – ha osservato che: “una volta che la Cina ha avuto successo economicamente, il PCC è tornato a focalizzarsi sulle sue intenzioni originali, costruire il socialismo”.
Stando alle affermazioni ribadite dal premier cinese ad inizio aprile, le cose sembrerebbero proprio stare così.
Si tratta di un “socialismo con caratteristiche cinesi”, ovviamente.
Al netto dello scontro di potere difficilmente sondabile e che rimane sottotraccia all’interno della dirigenza cinese la mancata realizzazione di due punti programmatici fondamentali espressi nel 2013 – inizio della leadership di Xi – sembrano suffragare questa ipotesi.
Le paventate “riforme” pro-mercato sull’allocazione delle risorse e la formazione dei prezzi, e quella sulle imprese di Stato sono lettera morta e la direzione intrapresa sembra proprio essere una altra.
Senz’alzo la sessione dell’NPC – National People’s Congress – rimandata a lungo per l’epidemia che inizierà il 22 maggio sarà un momento importante per capire le misure economiche che verranno adottate e quali tendenze si consolideranno o meno.
*Rete dei Comunisti
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