Martedì il quotidiano The Telegraph ha pubblicato una notizia emblematica del clima di sfiducia e sospetto che sta ammorbando le relazioni tra la Repubblica popolare cinese e l’Occidente.
Tagliando un legame che risale al colonialismo britannico, per timori di attività di spionaggio la marina del Regno Unito sta licenziando il personale cinese in servizio sulle sue navi da guerra, per la maggior parte lavandai reclutati a Hong Kong. Verranno rimpiazzati da lavoratori nepalesi.
«È una questione di sicurezza, la marina non ha scelta», ha commentato l’ex ammiraglio Allan West.
E di “sicurezza economica” e “sicurezza nazionale” ci occuperemo nella prima parte di questa edizione di Rassegna Cina, esaminando la rappresaglia contro le ultime limitazioni all’esportazione in Cina di microchip avanzati varate dall’amministrazione Biden.
Pechino ha risposto bloccando l’export di grafite, un minerale essenziale per le batterie elettriche, del quale gli Stati Uniti sono i primi importatori globali.
Spazio poi al clamoroso annuncio di un’inchiesta cinese su Foxconn, la multinazionale taiwanese primo datore di lavoro del settore privato nella Rpc: è un messaggio al suo fondatore, Terry Gou, nel tentativo di influenzare le prossime elezioni presidenziali di Taiwan?
Buona lettura!
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Pechino prova a frenare il contenimento hi-tech Usa, stop all’export di grafite cinese (dopo germanio e gallio)
A partire dal 1° dicembre prossimo, i produttori della Cina – da dove proviene il 65% di quella esportata nei mercati internazionali – non potranno più vendere all’estero la grafite lavorata di alta qualità (utilizzata nelle batterie dei veicoli elettrici) se non avranno prima ottenuto la relativa approvazione governativa.
Con l’annuncio arrivato venerdì 20 ottobre dal ministero del commercio e dall’amministrazione delle dogane cinesi – mentre prosegue una complessa trattativa con Washington sugli scambi e gli investimenti bilaterali – Pechino ha avvertito la controparte che è disposta a utilizzare un’arma molto potente contro il contenimento hi-tech attuato dall’amministrazione Biden, che punta a rallentare lo sviluppo industriale e militare della Cina.
La grafite è una componente fondamentale delle batterie agli ioni di litio, che, dopo essere diventate ubique nell’elettronica di consumo, si sono imposte nell’industria automobilistica.
Per i prossimi anni è previsto l’allargamento del divario tra domanda e offerta della preziosa polvere grigia classificata da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone e Canada come “materia prima essenziale” (Crm), indispensabile per la transizione dai combustibili fossili all’elettrico.
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, la domanda crescerà fino a 25 volte entro il 2040 (rispetto al livello del 2020). Oltre che nell’automotive, la grafite è utilizzata nella difesa, nell’aerospazio e nella chimica. La Cina ne è l’esportatore numero uno, i principali importatori globali sono gli Usa.
Il monopolio della produzione di grafite è un esempio tipico di quella dipendenza dalla Cina dalla quale – nei settori considerati strategici – Usa e Ue puntano a liberarsi, grazie alle rispettive politiche di “de-risking”. Il dominio di questo mercato evidenzia però anche le difficoltà di emanciparsi da un paese che sforna prodotti di buona qualità a prezzi imbattibili.
«Siamo disposti a pagare di più per avere materiali sostenibili nelle nostre batterie?», si è domandato Hans Erik Vatne, amministratore delegato della norvegese Vianode, che dall’anno prossimo fabbricherà grafite sintetica.
Lo stesso interrogativo si ripropone per i microchip avanzati, la cui produzione – su impulso dell’amministrazione Biden – il monopolista Tsmc sta spostando parzialmente da Taiwan negli Usa e in Giappone, e per l’intera filiera hi-tech.
Pechino ha comunicato le nuove regole sull’export di grafite dopo che, martedì 17 ottobre, l’amministrazione Biden ha limitato ulteriormente la vendita alla Cina di semiconduttori avanzati che, ha sostenuto la segretaria al commercio, Gina Raimondo, «potrebbero alimentare scoperte nell’intelligenza artificiale e nei computer sofisticati che sono fondamentali per le applicazioni militari cinesi».
La guerra hi-tech tra Washington e Pechino si combatte ormai a carte scoperte, tanto che i media cinesi non hanno esitato a parlare di rappresaglia nei confronti dei “comportamenti egemonici” degli Stati Uniti, sottolineando che alcuni tipi di grafite, proprio come certi microprocessori, vengono utilizzati negli armamenti.
La mossa sulla grafite fa seguito alle restrizioni decretate da Pechino sull’export di germanio e gallio – entrate in vigore il 1° agosto scorso – per effetto delle quali nei mesi di agosto e settembre le spedizioni dalla Cina di questi due metalli fondamentali per la fabbricazione di semiconduttori si sono ridotte a zero. Dall’inizio del 2023 il prezzo del germanio e del gallio è aumentato rispettivamente del 20 e del 13 per cento. La Cina detiene inoltre il monopolio delle 17 cosiddette “terre rare”, anch’esse fondamentali per l’energia pulita, la difesa, l’automotive, l’elettronica e l’aerospazio.
«Questo è solo l’inizio delle nostre contromisure, la cassetta degli attrezzi cinese ha molti altri strumenti a disposizione», aveva dichiarato Wei Jianguo dopo la stretta su germanio e gallio. L’ex viceministro del commercio aveva previsto che «se le restrizioni hi-tech nei confronti della Cina diventeranno più severe in futuro, lo saranno anche le contromosse cinesi».
Le strategie di sicurezza nazionale ed economica dell’amministrazione Biden puntano a frenare l’avanzata della Cina nei settori dei semiconduttori, dell’intelligenza artificiale e dell’informatica quantistica e, nello stesso tempo, a riportare negli Stati Uniti la manifattura dei microchip, scesa dal 37 al 12 per cento di quella globale tra il 1990 e il 2022.
Ma, dal momento che la Cina possiede gran parte delle materie prime hi-tech, è possibile negarle l’accesso ai semiconduttori avanzati (dei quali quelle materie prime sono componenti chiave) senza mettere a repentaglio intere filiere – come quella dell’automotive (nel caso della grafite) o degli stessi semiconduttori (per il germanio e il gallio) – esposte alle reazioni di Pechino?
La statunitense Semiconductor Industry Association ha fatto sapere che, pur riconoscendo la necessità di proteggere la sicurezza nazionale, «controlli eccessivamente ampi e unilaterali rischiano di danneggiare l’ecosistema dei semiconduttori statunitense senza promuovere la sicurezza nazionale poiché incoraggiano i clienti esteri a guardare altrove».
La scorsa settimana l’amministrazione Biden ha decretato il divieto di vendita alla Cina di microchip per l’intelligenza artificiale, tra cui gli A800 e gli H800, messi in commercio dalla californiana Nvidia per rispettare le precedenti restrizioni varate dall’amministrazione Biden e poter vendere in Cina microprocessori meno performanti.
Ma i giganti cinesi di internet Alibaba, Tencent, ByteDance e Baidu non hanno atteso che il bando entrasse in vigore, e hanno fatto incetta dei velocissimi A100 e H100, acquistandone per 5 miliardi di dollari.
Infatti, mentre i divieti sono ufficialmente diretti al settore militare, tra le vittime “collaterali” ci sono le compagnie che stanno cavalcando l’impetuoso sviluppo dei “large language models” (Llm), come Ernie – la cui versione 4.0 è stata svelata il giorno dell’annuncio delle ultime restrizioni Usa -, che conta 45 milioni di utenti e che, secondo lo sviluppatore Baidu, può competere con GPT4.
Oggi il ministro degli esteri di Pechino, Wang Yi, inizia una visita di tre giorni negli Stati Uniti, durante la quale incontrerà il segretario di stato, Antony Blinken, e il consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan.
Il viaggio negli Usa di Wang (a capo della commissione esteri del partito, numero nove della nomenklatura comunista e tra i più stretti collaboratori di Xi) arriva dopo una serie di visite in Cina di alti funzionari dell’amministrazione democratica nelle ultime settimane.
Tra gli argomenti di confronto, oltre ai dossier macroeconomici, alla guerra in Ucraina e alla crisi di Gaza, ci sarà la possibilità di un incontro tra Xi Jinping (che ieri ha ricevuto a Pechino il governatore della California, Gavin Newsom) e Joe Biden, che potrebbe aver luogo il mese prossimo a margine del vertice della Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) di San Francisco (12-18 novembre).
Alla vigilia della partenza di Wang, la portavoce del ministero degli esteri, Mao Ning, ha dichiarato: «Ci auguriamo che gli Stati Uniti lavoreranno con la Cina per mettere in pratica l’importante consenso dei due capi di Stato (raggiunto al vertice del G20 di un anno fa a Bali, ndr), rafforzare la comunicazione e il dialogo, espandere la cooperazione pratica gestendo adeguatamente le differenze», e ha invitato Washington a collaborare con Pechino affinché le prime due economie del pianeta «ritornino sulla via di uno sviluppo sano e stabile».
Pechino e Washington stanno cercando il modo di raffreddare la tensione, in una fase in cui gli Stati Uniti devono gestire in qualche modo parallelamente il conflitto in Ucraina e quello tra Israele e Hamas e la Cina è alle prese col rallentamento della sua economia.
L’altro ieri si è svolto (in collegamento video) il primo incontro del gruppo di lavoro economico Cina-Usa, che il ministero delle finanze cinese ha definito “approfondito, schietto e costruttivo”. E ieri si è tenuta una riunione del nuovo gruppo di lavoro congiunto sulle questioni finanziarie.
I due gruppi di lavoro sono stati istituiti a settembre per migliorare la comunicazione bilaterale, in seguito ai colloqui del luglio scorso tra il vice premier cinese, He Lifeng, e la segretaria al tesoro statunitense Janet Yellen.
La Foxconn del candidato Gou sotto inchiesta in Cina, a due mesi dalle elezioni presidenziali a Taiwan
In Cina sono state avviate indagini per evasione fiscale e sull’utilizzo dei terreni da parte della multinazionale dell’elettronica Foxconn, fondata da Terry Gou, candidato indipendente alle elezioni presidenziali di Taiwan che si svolgeranno il 13 gennaio 2024.
A rivelarlo, domenica 22 ottobre, è stato il Global Times, che ha riferito di perquisizioni avvenute in sedi Foxconn di quattro province: Guangdong, Jiangsu, Hunan e Hubei.
La compagnia – che, con oltre 1 milione di dipendenti, è il principale datore di lavoro del settore privato nella Rpc, nonché il maggiore produttore globale di elettronica in outsourcing – ha comunicato che «collaboreremo attivamente con le (autorità) competenti per le operazioni in questione».
Ufficialmente il settantatreenne Gou ha rinunciato a ogni incarico aziendale per candidarsi alle elezioni che decideranno il successore di Tsai Ing-wen.
Mercoledì 25 ottobre, la portavoce dell’Ufficio per gli affari taiwanesi del governo di Pechino, Zhu Fenglian, ha dichiarato:
Attualmente, le relazioni tra le due sponde dello Stretto attraversano una fase critica e l’isola si trova ad affrontare una scelta cruciale tra pace e guerra, prosperità e declino.
Ci auguriamo che i compatrioti di Taiwan, per salvaguardare la propria sicurezza e il proprio benessere, si oppongano con decisione all’indipendenza di Taiwan e facciano scelte razionali. […]
Mentre le imprese dell’isola di Taiwan condividono i dividendi della crescita e raggiungono uno sviluppo sostanziale nel continente, dovrebbero anche assumersi le corrispondenti responsabilità sociali e svolgere un ruolo attivo nella promozione dello sviluppo pacifico delle relazioni tra le due sponde dello Stretto. […]
La “indipendenza di Taiwan” significa guerra. Speriamo che i compatrioti di Taiwan apprezzeranno la pace nello Stretto di Taiwan come hanno a cuore i propri occhi, e si opporranno al separatismo della “indipendenza di Taiwan” come si oppongono alla guerra, e lavoreranno insieme ai compatrioti sulla terraferma per promuovere il ritorno delle relazioni tra le due sponde dello Stretto sulla via dello sviluppo pacifico.
Foxconn è il primo produttore globale di elettronica in outsourcing, per brand come Apple e Microsoft, tra gli altri. Subito dopo la pubblicazione della notizia dell’avvio dell’indagine, lunedì le azioni Foxconn scambiate a Taiwan, sono scese del 3,0% e ieri la Foxconn Industrial Internet Co Ltd, una filiale di Foxconn che opera sul mercato delle azioni A della Cina continentale, è crollata a 13,54 yuan per azione.
Terry Gou non ha commentato la notizia dell’inchiesta cinese, e si è limitato a ricordare che non è più coinvolto nella gestione quotidiana dell’azienda, della quale rimane tuttavia un grande azionista, e ha annullato senza spiegazioni un evento elettorale previsto per lunedì sera.
Intanto però gli uomini della sua campagna elettorale sono indagati a Taiwan, accusati di aver acquistato (per l’equivalente di una dozzina di dollari ognuna) le firme necessarie alla presentazione della sua candidatura alle presidenziali come indipendente. Mentre i sondaggi lo danno tuttora inchiodato intorno al 10% delle preferenze, staccato da tutti e tre gli altri pretendenti: Lai Ching-te (Partito progressista democratico), Ko Wen-jie (Partito del popolo), Hou Yu-ih (Kuomintang).
Se Terry Gou rinunciasse a correre per la presidenza, si riaccenderebbe la speranza per Ko (che avrebbe il 25,6% dei consensi) e Hou (21,1%), anche perché negli ultimi mesi la popolarità del Partito progressista democratico della presidente Tsai è in costante declino.
Se poi il Partito del popolo e il Kuomintang riuscissero (ne stanno discutendo da qualche settimana) a presentarsi assieme, convergendo su un candidato unitario per la presidenza, avrebbero – secondo i sondaggi – la vittoria in tasca.
Questa ipotesi è considerata tuttavia altamente improbabile, per l’accanita competizione tra il vecchio partito nazionalista Kuomintang e il giovane e “alternativo” Partito del popolo, fondato da Ko nel 2019.
Martedì, il vicepresidente di Taiwan Lai Ching-te, candidato alla presidenza del Partito progressista democratico (Dpp) alle elezioni di gennaio (in testa, secondo i sondaggi, con il 29,7%) si è scagliato contro la Cina per l’indagine su Foxconn, dichiarando che Pechino dovrebbe “apprezzare” le aziende taiwanesi e non esercitare pressioni su di loro.
* da Rassegna Cina
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Lollo
il classico Pan per focaccia. Io cmq credo che, se gli Usa fanno una guerra interposta con la Russia in e tramite gl’ Ucraini e si siano messi a circondare e minacciare la Cina militarmente ed economicamente, poca voglia abbiano d’ avere con le potenze asiatiche una SANA COLLABORAZIONE PER LO SVILUPPO GLOBALE. Vogliono essere i dominatori totali, senza se e senza ma!