“Now is our moment. Let us use our voice”
Adriana Aquarius, 21 anni, intervistata dal “Time”, 4/6/20
Le mobilitazioni successive all’assassinio del 46enne afro-americano George Floyd, avvenuto per mano poliziesca il 25 maggio scorso a Minneapolis, nello Stato del Minnesota, stanno in parte cambiando il volto degli Stati Uniti.
Una splendida mappatura anche fotografica delle mobilitazioni è apparsa recentemente sul New York Times, mentre numerosi studi e contributi – dal The Washington Post al Time – mostrano come si tratti della più importante mobilitazione, per estensione e partecipazione, nella storia statunitense e di come stia toccando l’America profonda.
USA Today ha contato 580 tra città e cittadine in cui si sono svolte le manifestazioni.
Per intenderci: anche città di poco più di 10 mila abitati hanno avuto manifestazioni di diverse centinaia di persone, con una buona partecipazione di giovani “bianchi”. Talvolta sono osteggiate dalla polizia locale, talaltra da gruppi dell’alt-right. che si sono resi responsabili di un certo numero di attacchi.
Mentre Trump prende di mira in maniera reiterata la galassia “antifa”, l’estrema destra è libera di agire in maniera abbastanza impunita.
Il 9 giugno The Guardian ha fatto un elenco esaustivo di questi attacchi, cercando di dare delle chiavi di lettura per decifrare il nebuloso boogalloo movement, un movimento eterogeneo anti-establishment che difende il diritto a possedere un arma, indossa delle camice hawaiane. e i cui membri oscillano dall’estrema destra al supporto alle attuali mobilitazioni contro le violenze poliziesche.
Come riportava ad inizio giugno l’Associated Press, le persone arrestate sono più di 10 mila, mentre diverse sono state le vittime collegate alle mobilitazioni.
Un’attivista 23enne “bianca” dell’Ohio, Sarah Grossman, sembra essere deceduta a fine maggio in seguito alle conseguenze dell’inalazione dei gas lacrimogeni e dello spray urticante, dopo avere partecipato due giorni prima prima ad una manifestazione a Columbus.
E proprio l’uso di questo dispositivo, come di altri, è al centro del dibattito teso a mettere in discussione le pratiche della polizia.
Come riporta il New York Times questo sabato: “A Washington, dove le autorità hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma per allontanare pacifici manifestanti da Lafayette Park, affinché il presidente Trump potesse mettere in scena un servizio fotografico nella chiesa di San Giovanni, all’inizio di questa settimana il Consiglio del distretto di Columbia ha approvato all’unanimità una serie di cambiamenti, incluso il divieto l’uso di sostanze chimiche irritanti, antisommossa e granate stordenti sui manifestanti che esercitano i loro diritti stabiliti dal Primo Emendamento”.
Complessivamente, le mobilitazioni hanno messo in rilievo non solo il “razzismo strutturale” di una istituzione come quella poliziesca, ma quello dell’intera società nord-americana.
Hanno messo in luce quale sia la condizione reale delle parti più vulnerabili della popolazione – non solo afro-americana – nel mentre il livello dei contagiati da Covid-19 è pari a circa 2 milioni ed i decessi hanno superato hanno superato i 110 mila, colpendo prevalentemente la comunità afro-americana, i latinos ed i nativi americani.
Questa settimana, giovedì 19 giugno, due avvenimenti catalizzeranno l’attenzione.
Si tratta da una parte del primo sciopero in solidarietà con gli afro-americani in memoria di George Floyd, promosso dalla storica organizzazione dei portuali della Costa Ovest – la ILWU – che cercheranno di bloccare i 29 porti della costa occidentale e stanno coordinandosi con l’organizzazione degli scaricatori della costa Est – l’ILA – per promuovere il primo blocco degli scali occidentali ed orientali degli Stati Uniti.
Un segnale importante, dopo lo sciopero dei conducenti degli autobus a Minneapolis, che si sono rifiutati di fungere da “ausiliari della polizia” trasportando le persone arrestate durante le proteste.
Un’azione, quella dei portuali, che si inserisce nel solco della tradizione di lotta di questa categoria ed in un contesto di “nuovo movimento operaio” sorto durante la pandemia.
L’altro avvenimento è la ripresa della campagna elettorale da parte di Donald Trump, che voleva iniziare proprio il 19 giugno con un comizio a Tulsa in Oklahoma. Una “provocazione”, più che altro, che riafferma il disprezzo per le attuali mobilitazioni da parte degli Presidente.
Nel 1921 la città è stata teatro di una dei “race riot” più distruttivi nei confronti della comunità afro-americana, una ferita ancora aperta nella memoria.
The Orange man vorrebbe emulare Ronald Reagan, che fece lo stesso nel 1980 nelle vicinanze del massacro di 4 attivisti dei diritti civili nel 1964 del “Mississippi Burning”. Ma ha dovuto fare marcia indietro.
Così lo storico Robin D.G. Kelley spiega all’emittente Democracy Now il contesto dei race riots che si inseriscono nella lunga scia dei saccheggi (looting) di cui è fatta oggetto la comunità afro-americana: “se si guarda alla storia dei disordini razziaii in America, la maggior parte di questi cosiddetti disordini erano fondamentalmente pogrom, risalenti a Cincinnati nel 1839, 1841, compresi tutta una serie di cosiddetti disordini razziali a Filadelfia. Hai menzionato Tulsa nell’inaugurazione dello spettacolo, Tulsa, in Oklahoma, (…) stai parlando di distruggere 35 blocchi di edifici dei neri e attività per un valore di milioni di dollari. (…) I bianchi che irrompono nelle case, con il sostegno della polizia, prendendo roba da neri, distruggendo e rubando. Tulsa, Oklahoma, East St. Louis nel 1917 – potremmo parlare di Rosewood nel 1923. Sai, ci sono così tanti esempi – Springfield, Illinois, nel 1908. E alcuni di quei saccheggi hanno precise responsabilità politiche”.
Black Lives Matter ha più consensi di Trump
Partiamo dal cambiamento della percezione della “questione razziale” affidandoci ad alcuni sondaggi.
Secondo Civiqs, che ha compiuto una consultazione on-line tra i cittadini che si sono registrati per votare, il sostegno a Black Lives Matter è aumentato di ben 17 punti percentuali durante le settimane che sono succedute alla morte di Floyd.
L’84% dei votanti democratici lo sostiene, ma anche il 39% dei repubblicani, e poco meno della metà complessivamente nella fascia tra i 18 ed i 34 anni.
Più di quattro quinti degli afro-americani lo sostiene, e più della metà dei latinos.
Ma non è la sola indagine d’opinione a riportare questo cambiamento di percezione, confermato da U.C.L.A/Nationscape, e da un sondaggio della Monmouth University, per cui più di tre quarti degli americani considerano il razzismo e la discriminazione un “big problem”. Erano solo il 26% nel 2015.
Più della metà – secondo sempre questo sondaggio – ritiene che la rabbia dopo la morte di Floyd fosse “pienamente giustificata”; il 21% “in qualche modo giustificata”.
Certo, la percezione dei problemi politico-sociali è piuttosto volatile, ma segna senz’altro uno scarto evidente rispetto a quando il movimento ha mosso i suoi primi passi, circa 5 anni fa. Le questioni che poneva allora erano le stesse, anche se alla casa bianca sedeva un Presidente afro-americano alla fine del secondo mandato ed una serie di posizioni di potere erano occupati da neri: “black faces in high places” direbbe Cornell West.
Riguardo comunque alla questione specifica rispetto alle altri temi che hanno tenuto banco in questi anni, l’aumento del sostegno alle tematiche di #BLM è spettacolare.
Un passo avanti nel movimento reale
Uno degli output concreti avuto dalle proteste è stata l’incriminazione – prima per omicidio di “terzo grado” e poi di “secondo” – dell’agente che ha ucciso Floyd (aveva già un curriculum con quasi 20 contestazioni al suo operato) e degli altri tre agenti. Una inversione di tendenza in una città dove gli afro-americani erano il soggetto più colpito dalle pratiche violente della polizia, cui era consentita sostanzialmente l’impunità.
A Minneapolis, il massimo della sanzione per un omicidio era stata una sospensione della paga per 40 ore!
Il secondo è l’aver messo in evidenza episodi simili che non erano entrati nel cono di luce dei media; in particolare quelli avvenuti durante la pandemia, come i casi di Ahmaud Arbery e di Breonna Taylor.
Come ha detto il reverendo Jesse Jackson, “ogni città ha il suo George Floyd”, per cui la richiesta di verità e giustizia difficilmente superava i confini della comunità locale, nonostante lo slancio delle organizzazioni e degli intellettuali che in questi anni non hanno mai smesso di denunciare la situazione. Iniziative che hanno comunque posto le basi organizzative ed il frame concettuale per le mobilitazioni attuali.
Kelley, nell’intervista citata, ne fa l’elenco preciso, per sgomberare il campo da ogni ipotesi di lettura “spontaneista” di ciò che sta accadendo: “Una delle cose che tutti dobbiamo riconoscere è che non siamo qui per caso. Sai, questa non è una risposta spontanea alla pandemia, e all’improvviso i bianchi si stanno svegliando e dicendo: ‘Oh, aspetta un secondo, le vite nere contano’. No, questo è un prodotto di un enorme lavoro, che risale molto prima di Trayvon Martin”
Il terzo, è l’avere popolarizzato la proposta di riduzione dei finanziamenti alla polizia, o ad altre istituzioni “totali”.
La California, per esempio – riporta la “Reuters” – ha preso la decisione di sopprimere il complesso carcerario privato, anche per ciò che riguarda le strutture di detenzione dei migranti “irregolari”. Un piccolo ma significativo passo in avanti per depotenziare il complesso carcerario-industriale privato.
Quest’ultimo era stato il vero beneficiario delle politiche di “legge ed ordine” che, per quanto riguarda l’istituzione carceraria, hanno di fatto perpetuato il lavoro schiavistico sotto altre forme, come ha recentemente denunciato tra l’altro il documentario XIII Emendamento, di Ava DuVernay.
L’amministrazione locale di Minneapolis – contro il parere del sindaco – ha votato per “smantellare” il dipartimento di polizia e riconfigurare una istituzione legata ai bisogni dei cittadini; una rivendicazione storica del movimento sin dagli anni ’60.
Più polizia, meno welfare…
La risposta dell’establishment cittadino alla “Grande Migrazione” afro-americana nei vari ghetti metropolitani era stata il ferreo controllo poliziesco, non l’implemento del welfare. Una politica di “Legge ed Ordine” che fu poi fatta propria a livello federale dall’amministrazione Carter, ed anche recentemente perpetuata con la possibilità data alle amministrazioni locali di sottrarre il finanziamento alla polizia dalle politiche di austerity imposte, come deciso con il “crime bill” del 1994.
E proprio sui soldi destinati alla polizia è uscita una recente indagine del Lincoln Institute of Land Policy, che mostra come nelle città statunitensile spese complessive per la polizia – non solo quelle dei fondi destinati dalle amministrazioni locali – sono aumentate sul lungo periodo, anche se il tasso del crimine calava.
Una logica “paradossale”, ma simile a quella che ha portato all’incarcerazione di massa descritta dettagliatamente da Loïc Wacquant in Simbiosi Mortale. Neoliberalismo e politica penale.
Mentre nel 1977, nelle prime 150 città nord-americane, la spesa media era pari al 6,6%, quaranta anni dopo – nel 2017 – era pari al 7,8%.
A Boston, Los Angeles e Milwaukee, ogni 10 dollari spesi dall’amministrazione locale un dollaro va alla polizia; a Minneapolis uno ogni 20.
Per avere un termine di paragone bisogna ricordare che solo il 5% in media è speso per le politiche abitative ed il 3% per i parchi.
In questa gara a chi spende di più in termini percentuali Tucson ha il primato con il 16%; mentre la città più grande che spende di più in polizia – sempre in termini percentuali – è Los Angeles, che con i suoi 4 milioni di abitanti spende l’11%. La seconda è Jacksonville, con poco più di 920 mila abitanti, che spende il 12%.
La polizia si è ritrovata a ricoprire compiti prima affidati a strutture del welfare, ovvero come ha detto un ex capo della polizia dell’attuale staff di Obama: “è stata usata per riempire i vuoti dove i servizi della città non erano adeguati”, di fatto contribuendo a far diventare dei problemi sociali delle questioni criminali tout court.
New York ha una percentuale relativamente bassa – attorno al 6 per cento – di spese per la polizia, ma molto alta in termini assoluti: 5,7 miliardi di dollari nel 2017.
In questi giorni lo Stato di New York ha reso illegale la tattica dello “Chockhold”, che ha portato allo strangolamento di George Floyd e nel 2014 a quello di Eric Garner, proprio a NY; e ha reso pubblici – prima erano secretati – i registri disciplinari della polizia.
A livello cittadino, lo speaker del consiglio comunale newyorkese ha detto di avere identificato 1 miliardo di possibili tagli al budget per la polizia, cui De Blasio si è per ora detto contrario, volendo contrattare le scelte con lo stesso Dipartimento di Polizia.
Questo processo è stato a lungo favorito attraverso la narrazione dei media-meanstream, che favoleggiavano di una criminalità “accresciuta”, e dal potenziamento dei sindacati di polizia, una lobby sempre più potente all’interno degli equilibri politici locali, che ha di fatto influenzato l’agenda degli eletti nei territori.
Un’economia della paura molto lucrosa, di cui ha beneficiato direttamente l’apparato militare-industriale, considerato che l’aumento delle spese è stato destinato alle tecnologie e all’addestramento.
Infatti “il numero di poliziotti a testa non è aumentato molto negli ultimi anni”, scrivono Emily Badger e Quoctrung Bui sul New York Times: “aumenta la sicurezza nelle città, ma il budget per la polizia continua a crescere”.
Come ha denunciato la sezione statunitense di Amnesty International – da tempo Angela Davis aveva posto la questione – l’addestramento viene fatto sempre più spesso in Israele o comunque da istruttori israeliani. Va da sé che una forza di polizia ampiamente militarizzata e “settata” su standard di guerra a bassa intensità non può che intervenire nei modi che da più due settimane a questa parte il mondo ha potuto appurare e che hanno stimolato mobilitazioni internazionali.
Su questo fronte c’è però da registrare una novità positiva.
Come riporta il Middle East Monitor, la città di Durham, in Nord Carolina – dopo una petizione che ha raccolto più di 1.400 firme – ha messo al bando con un voto plebiscitario (6 a 0) nel city council l’addestramento impartito da militari israeliani. “Il consiglio comunale ha dichiarato che il bando si estende a qualsiasi paese che offre addestramento in stile militare alle sue forze di polizia”.
Un nuovo spazio politico?
A cinque mesi dalle elezioni presidenziali gli USA sembrano sempre più polarizzati al loro interno, con l’attuale establishment – sia repubblicano che democratico – che ha perso la capacità di ristabilire un egemonia in grado di invertire il processo di delegittimazione che l’aveva coinvolto dopo la crisi del 2007/8.
Allo stesso tempo questa egemonia sembra sempre più compromessa anche in politica internazionale.
Da un lato una parte del Deep State sembra voler scaricare Trump, come dimostra la spaccatura sull’opzione dell’uso o meno dell’esercito per reprimere il movimento. Dall’altra Donald Trump non sembra voler rinunciare al suo secondo mandato, senza il quale dovrebbe smantellare la sua macchina organizzativa all’interno del Partito Repubblicano e passare probabilmente la sua vita tra le aule dei tribunali.
Biden non è stato altro che un “ripiego necessario” per i dirigenti democratici, almeno per sbarrare la strada a Sanders durante le primarie; ma non differisce molto dall’attuale Presidente per ciò che concerne gli aspetti politici più rilevanti.
Il pressing degli outsider democratici alla sua sinistra potrebbe trasformarsi in un sostanziale insuccesso, se e quando rientrerà nella stanza dei bottoni, rispetto alle scelte di fondo. Come fu del resto con Obama.
Uno spazio politico nuovo però sembra essersi creato, prodotto dalle conseguenze di uno specifico modo di produzione giunto alla sua fase crepuscolare e dalle capacità di un vasto arcipelago di attivisti di base, che hanno lavorato sodo in questi anni sia sul piano pratico che teorico.
Che questo spazio e le sue tematiche non trovino collocazione nel rigido bipolarismo statunitense rende la situazione estremamente interessante.
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andrea’65
The Orange mette a nudo le falsita’ e l’ipocrisia del Deep State, agendo come se fosse il lro manchurian candidate : minaccia la Korea N., si vedevano già in guerra gli eccitati falchi neocon, e poi flop – minaccia l’Iran che rx per le rime ed addirittura viola l’embargo Venezuelano, ma non ctrea il casus belli – espelle Russia e Cina dal sistema bancario SWIFT, ” costringendoli ” con gioia a creare un sistema alternativo al Dollaro – ed in ultimo piazza due dolcissime stilettate a zionisti con Gerusalemme Capitale e Golan israeliano, mentre Biby festeggiava, il mondo arabo si inczz ( la reazione dei Saud, i migliori amici dei sionisti è emblematica ) e torna dopo anni a condannare il regime di sion , insomma il Re è Nudo , Deep State lo odia e lui li sfankula
Redazione Contropiano
Si chiamano contraddizioni, che se non sai come gestirle producono un “darsi la zappa sui piedi”… Nessun complotto, solo la fine di un sistema…