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Gli Usa contro la Siria, ci riprovano con le sanzioni

Il 17 giugno è entrato in vigore il Caesar Syria Civilian Protection Act, una legge del Congresso USA che inasprisce le sanzioni alla Siria, imponendo, in pratica, un blocco di tipo “cubano”: tutte le aziende e le personalità che avranno rapporti commerciali con il paese verranno sanzionate dagli USA (quindi non solo quelle americane).

Di fatto è così, anche se formalmente ad essere colpito dovrebbe essere solo chi, con la propria attività commerciale, “favorisce” alcune personalità quali il Presidente Bashar Al-Assad, la moglie Asma Akhras e altri.

Tuttavia, data la genericità di tale definizione e dato il fatto che nei territori controllati dal governo tutto passa per quest’ultimo, è evidente che gli USA, essendo divenuti poco influenti sul campo di battaglia, si sono dotati di uno strumento per stoppare la ricostruzione, affossare l’economia siriana fino a scatenare rivolte interne e, in prospettiva, indebolire l’intero fronte internazionale pro-Damasco.

Purtroppo, i primi segnali vanno nella direzione negativa, ovvero verso l’ottenimento di alcuni di tali obiettivi.

Effettivamente, infatti, l’economia siriana è nella fase più difficile da quando è cominciata la guerra: la moneta locale si è svalutata fino ad essere scambiata 3200 a 1 col dollaro. Prima della guerra il cambio era 50 a 1.

Ovviamente, tale svalutazione è stata dovuta anche all’avvicinarsi dell’entrata in vigore del Caesar Act, che ha provocato una fuga dai rapporti commerciali con la Siria, ma anche alla crisi del Libano, nei cui istituti bancari erano depositati consistenti pacchetti valuta siriana.

Il paese, dei cedri, inoltre, è il primo candidato a subire a sua volta gli effetti negativi del Caesar Act, dato che molte aziende libanesi hanno rapporti con la Siria e dato che da quest’ultima importa la maggior parte delle proprie risorse idriche e del proprio fabbisogno di energia elettrica.

L’attuale presenza in Libano di un governo appoggiato solo dalla coalizione a guida Hezbollah suggerisce che da Washington non si faranno sconti e verrà data un’interpretazione restrittiva del Caesar Act nei confronti delle aziende libanesi.

Come si vede, l’elevatissima interdipendenza fra le due economie rischia di trascinarle entrambe nel baratro.

Anche il fronte interno alla Siria, relativo ai territori controllati dal governo centrale, finora il più stabile rispetto a tutte le altre porzioni di paese controllati da altre milizie, rischia di subire degli scossoni: nei giorni scorsi, infatti, sono esplose delle proteste popolare nella provincia meridionale di Sweida, a maggioranza drusa, dovute alle cattive condizioni economiche. Di contro, manifestazioni contro le sanzioni e a favore del governo si sono registrate a Homs.

In questo quadro, molto complessa è la situazione del cosiddetto Rojava: da un lato, infatti, è sotto scacco degli USA, presenti militarmente in maniera consistente nell’area a est dell’Eufrate ricca di petrolio, di cui controllano la gestione e il commercio; dall’altro è fortemente dipendente dal punto di vista economico dagli scambi con le aree controllate dal governo, il quale ha anche schierati alcuni soldati a difesa di Kobane e altre aree a confine con la Turchia.

Tale contingente è presente nelle aree curde in conseguenza degli accordi che portarono alla fine dell’operazione militare turca peace spring nel 2019. Per il momento, le Ypg, nonostante abbiano chiesto più volte all’”alleato” americano di escludere le aree da loro controllate dal Caesar Act, paiono essersi adeguate alla situazione, sospendendo il commercio del petrolio e del frumento.

Il mese che ha preceduto l’entrata in vigore delle sanzioni ha visto forti scossoni anche ai vertici dello stato e dell’”establishement” siriano. A maggio, infatti, con l’accusa di non aver pagato le tasse, sono state nazionalizzate e messe sotto custodia giudiziaria tutte le aziende possedute dal più grande imprenditore siriano, Rami Makhlouf, attivo soprattutto nel campo delle telecomunicazioni e, fra l’altro, cugino per parte materna del Presidente Assad.

Da sempre descritto come sostenitore del governo e allineato, in particolare, con gli interessi iraniani, il magnate è stato anche sottoposto a misure restrittive, quali il ritiro del passaporto. Secondo alcuni analisti, questa mossa avrebbe avuto il beneplacito e sarebbe stata spinta dalla Russia.

Dopo le proteste di Sweida, inoltre, il Presidente Assad ha fatto decadere il Primo Ministro Imad Khamis, per sostituirlo con Hussein Arnous, naturalmente tutti del Partito Baath. Il nuovo esecutivo resterà in carica in attesa delle elezioni parlamentari, fissate per luglio.

In definitiva, con la battaglia di Idlib sempre sul punto di riprendere da un momento all’altro, determinante per la tenuta economico-sociale siriana e, di riflesso, quella libanese sarà la tenuta del fronte internazionale pro-Damasco, che determinerà anche se attraverso il Caesar Act gli USA riusciranno a riguadagnare un ruolo decisivo nella “partita” mediorientale.

Se sul fronte iraniano e quello di Hezbollah non vi sono problemi (“Gli alleati della Siria, che hanno resistito politicamente e militarmente, non la abbandoneranno di fronte alla guerra economica e non gli permetteranno di cadere”, ha rimarcato esplicitamente Nasrallah), in quanto per questi ultimi non vi è alternativa, bisogna capire fino a che punto la Russia e, in maniera minore, la Cina, vorranno dare sostegno economico-finanziario allo stato siriano e se veramente si determinerà una fuga delle aziende russe e cinesi impiegate nella ricostruzione.

Per il momento, la Russia ha sostenuto la Banca Centrale di Damasco con un’iniezione massiva di liquidità, riversata poi da quest’ultima su mercato interno, in coordinamento con i privati. Ciò ha tamponato la caduta libera della valuta.

Resta il fatto che il tentativo americano di incrinare il cosiddetto “Asse di Resistenza” nelle sue componenti siriana e libanese è entrato in una nuova fase, quella della guerra economica, che rischia di arrivare laddove la guerra guerreggiata non è riuscita ad arrivare.

E’ necessario, pertanto, che il “no” alle sanzioni alla Siria sia anche parte delle mobilitazioni contro l’applicazione del “piano del secolo” di Trump e Netanyahu, che potrebbe avere una tappa importante a luglio, con l’annessione unilaterale da parte dello stato sionista di ampie aree della Cisgiordania.

Il Caesar Act, infatti, è parte integrante di tale piano.

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