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Usa: lo stato dell’Unione

State of The Union

Shut the fuck up

Sorry ass motherfucker

Stay away from me

Public Enemy, State of the Union (STFU), giugno 2020

Cos’è il Juneteenth?

Il 19 giugno del 1865 è stata abolita la schiavitù nell’ultimo Stato in cui vigeva, il Texas.

Era il culmine della “guerra civile” che aveva visto contrapposti gli Stati secessionisti del Sud – che avevano dato vita alla Confederazione – e gli Stati dell’Unione al Nord, con l’attiva partecipazione degli afro-americani, resisi protagonisti della propria liberazione.

Le truppe dell’Unione, entrate il giorno primo in Texas, di fatto decretarono la fine della guerra e dell’esperienza secessionista iniziata in Carolina del Sud il 6 dicembre del 1960.

Un quotidiano dell’epoca la definì: “la più grande rivoluzione politica e sociale di quel periodo”.

Prima del 1960 l’aristocrazia latifondista del Sud, ed il sistema schiavistico di cui erano espressione, tenevano saldamente in mano le redini del potere politico degli Stati Uniti con la ferma volontà di perpetuare un regime entrato complessivamente in crisi.

Quel sistema era fondamentale nella coltivazione di tabacco, caffè, canapa e soprattutto del cotone, vero “oro bianco” per i proprietari delle piantagioni, nonché una delle merci più esportate degli Stati Uniti a quei tempi.

Due terzi di tutto il cotone commerciato al mondo, l’80% circa della mastodontica industria tessile britannica, venivano coltivati nel Sud degli Stati Uniti.

Era una particolare forma di sfruttamento centrale nello sviluppo capitalismo dell’epoca, o come si espresse ai tempi un cronista di Montgomery, nell’Alabama: “l’istituzione dello schiavismo è semplicemente un ramo collaterale della grande questione politica del capitale e del lavoro”.

Negli Stati del Sud infatti una persona su tre era ridotta allo stato di schiavitù, circa 4 milioni di uomini; un regime in cui regnava il terrore, la negazione dell’istruzione ed un controllo capillare della vita degli schiavi che vivevano in baracche e che erano alla mercé del proprio padrone.

Una società comunque stratificata, quella del Sud, dove solo un quarto dei bianchi possedeva uno schiavo ed un padrone su otto – 46.000 persone in tutto – godeva del vantaggio competitivo datogli dal possedere almeno una ventina di schiavi.

Il rendimento del regime schiavistico era tre volte superiore, in termini di produttività, rispetto al “lavoro libero”, e questa particolare “merce” aveva un valore difficilmente immaginabile all’oggi.

L’elezione di Lincoln – il 6 novembre del 1860 – e l’affermazione del neo partito repubblicano cambiò l’ordine dei fattori, anche se proprio il nuovo presidente si dimostrerà pronto a tutto per salvare l’integrità degli Stati Uniti.

Nel giro di meno di un trentennio la sensibilità delle élites politiche del Sud era maturata al punto che, nella loro visione del mondo, era meglio separarsi dagli Stati Uniti piuttosto che vedere minato il proprio potere politico, anche solo in prospettiva; non intravedevano quindi più alcuna possibilità di compromesso, com’era avvenuto invece nel 1850.

La partita in gioco era quindi il mantenimento o la conquista della leadership sul corso politico degli Stati Uniti nel suo complesso, tra due differenti frazioni del potere economico.

Nella maturazione di questa scelta di rottura dei “sudisti” influivano molti aspetti della lotta abolizionista – fatta anche “armi in pugno” – che avevano particolarmente spaventato l’oligarchia sudista.

Lo sviluppo di quella che veniva chiamata “ferrovia sotterranea” era giunta ad un tale livello che i cacciatori di schiavi che andavano al Nord per riacciuffare i fuggiaschi – una pratica consentita dal “compromesso” del 1850 – venivano attaccati dai membri di quell’organizzazione interrazziale che assicurava la fuga al Nord e/o in Canada agli schiavi fuggiaschi.

La collera sudista raggiunse livelli parossistici quando in alcuni tribunali diverse giurie si rifiutarono di punire queste aggressioni.

Nel 1959 Il tentativo di lanciare una rivolta armata di bianchi e di neri contro la schiavitù in Virginia da parte di un abolizionista del New England, John Brown, nonostante il suo fallimento concretizzò uno degli incubi peggiori per l’oligarchia sudista: gli abolizionisti del Nord che fomentavano una sommossa di schiavi nelle proprie terre.

L’elezione di Lincoln, il 6 novembre del 1860, sembrava concretizzare questi incubi nonostante il nuovo presidente, come riporta uno dei maggiori storici della guerra civile – Bruce Levine – fosse “pronto a tutto per evitare la secessione”.

Dopo quel sanguinoso conflitto (1860-1865) iniziò il periodo detto della “Ricostruzione”, in cui gli afro-americani liberati cercarono di dare vita ad una società nuova con istituzioni proprie (scuole, chiese ed attività economiche, tra l’altro) e sviluppare appieno i propri diritti politici.

A questo si contrapposero l’omicidio mirato dei leader neri, il linciaggio e i race riots in cui squadre di bianchi, istigate dall’establishment politico locale “revanchista”, attaccavano ed uccidevano gli afro-americani.

Uno di questi episodi, forse il più famigerato, si verificò a Tulsa, circa 100 anni fa. La città dove Donald Trump ha voluto tenere il suo primo comizio elettorale dopo il lock-down. Il 19 giugno – che non è una festa federale – per la comunità afro-americana ha sempre avuto una importanza particolare e quest’anno, dopo le mobilitazioni successive alla morte di George Floyd, ha assunto una valenza ancora più rilevante.

Quel percorso di “integrazione”, iniziato allora, è di fatto tutt’ora incompiuto. Come ha affermato giustamente l’attivista ed intellettuale afro-americano Cornell West: “l’America è un esperimento sociale fallito”.

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Due eventi di cui avevamo già dato notizia restituiscono la dimensione dell’attuale polarizzazione politica negli Stati Uniti.

Da un lato il comizio di Donald Trump a Tulsa, cui è stata data abbondante esposizione mediatica, nonostante non sia stato particolarmente un successo come si augurava il presidente.

Trump a Tulsa

Dei 19.000 posti usufruibili, un terzo è rimasto vuoto, i suoi sostenitori che da giorni affollavano la città – per la stragrande maggioranza bianchi tra i 40 e i 60 anni – provenivano da altri Stati, nonostante proprio nell’Oklahoma Trump abbia vinto, distanziando i democratici 36 punti percentuali nel 2016.

Il suo discorso non ha fatto alcun riferimento a George Floyd, né al movimento che sta caratterizzando gli States, né al 19 giugno, né allo storico massacro di Tulsa, ma solo all’abbattimento delle Statue dei confederati, in senso ovviamente negativo…

Ha però rinfocolato la sua paranoia contro gli attivisti di sinistra secondo un canovaccio consolidato; ha parlato del “Kung Flu” – cioè del Covid-19 – con la sua forte declinazione anti-cinese ed ha spiegato di come sia stato fatto un lavoro eccellente nel suo contenimento.

In generale non proprio un discorso che passerà alla storia, se non per la sua stupidità.

Lo sciopero dei portuali della Costa Ovest

L’altro avvenimento caratterizzante – di fatto ignorato dai media “liberal” che stanno dando molto spazio all’attuale movimento sorto dopo la morte di George Floyd – è stato lo sciopero di otto ore nei 29 scali della Costa Ovest, promosso dal sindacato dei lavoratori portuali dell’ILWU, la storica organizzazione degli scaricatori creata negli anni ’30.

Più di 10 mila lavoratori hanno incrociato le braccia nell’azione più significativa fatta dal movimento operaio in questa storica giornata – i lavoratori del sindacato dell’automobile si sono fermati per 9 minuti – che ha declinato praticamente la questione di “razza” in una più ampia questione di classe.

È stata superata quella “gabbia narrativa” che la stampa liberal ha voluto dare fin qui agli avvenimenti, ed è stato ribadito come l’azione dei lavoratori e delle lavoratrici sia uno dei perni su cui basare le proprie rivendicazioni complessive.

Questi lavoratori – come ha ricordato Angela Davis, che ha tenuto uno degli interventi più significativi nella mobilitazione a Oakland – si sono sempre caratterizzati per un sindacalismo che andasse per così dire oltre quello “bread and butter”, cioè legato a questione spicciole.

La fondazione della ILWU avvenne in seguito ad una mobilitazione di protesta per due portuali uccisi dalla polizia. È stato il primo sindacato a “de-segregare”, negli anni Trenta, le squadre di lavoro e ad imporre garanzie per il lavoro “a chiamata” che caratterizza l’organizzazione del lavoro portuale, attraverso l’istituzione della hiring hall, che non permette l’assunzione discrezionale da parte del padrone.

Ha manifestato contro l’internamento degli americani di origine giapponese durante la Seconda Guerra mondiale. Dalla parte di Martin Luther King jr e del movimento per i diritti civili, si è mobilitato contro l’Apartheid in Sud Africa ed in Palestina, contro la guerra in Afghanistan ed in Iraq e, più recentemente, al fianco di Occupy con il “Wall Street on Waterfront”.

Uno sciopero politico, quindi, che si inserisce in una tradizione di lotta quasi secolare e in un contesto dove ha cominciato forma un “nuovo movimento operaio” negli Stati Uniti.

Una conferma ed una rielaborazione del vecchio motto operaio: “un offesa fatta ad uno, è una offesa fatta a tutti!”.

Nel suo intervento ad Oakland, lo storico attivista ed artista afro-americano Boots Riley ha detto: “Qual è il prossimo passo? Una buona parte di questa domanda riguarda il potere. Il nostro potere deriva dal fatto che creiamo la ricchezza. La ricchezza è potere. Abbiamo la capacità di maneggiarlo. Abbiamo il potere di gestire il nostro lavoro, e shut shit down!

L’ex cantante dei The Coup non poteva essere più chiaro.

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