“Socializzare” la produzione Nissan, casa automobilistica multinazionale giapponese, e far sì che i lavoratori ne assumano il controllo, per salvare 3.000 posti di lavoro diretti e 22.000 indiretti ed evitare la miseria di circa 25.000 famiglie.
Questa la proposta, presentata mercoledì (22 luglio) a Barcellona, dalla triade composta dalla Confederación General del Trabajo (CGT), la Candidatura de Unidad Popular (CUP) e Anticapitalistas.
Una rivendicazione che si basa sulla necessità di cambiare il modello di mobilità e rafforzare la rete di trasporto pubblico, guardando anche a quelli che sono gli obiettivi di una reale transizione ecologica auspicata dalle tre organizzazioni. La Nissan ha annunciato ad inizio giugno di voler chiudere definitivamente lo stabilimento di Barcellona e delocalizzare la produzione altrove.
CGT, CUP e Anticapitalistes interrogano direttamente i governi catalano e spagnolo sulle loro responsabilità presenti e passate, dopo aver venduto l’industria automobilistica pubblica (Seat, 1986), privatizzato il settore ferroviario (Renfe, 2003) e regalato milioni di dollari alle multinazionali straniere.
Negli ultimi dieci anni, la Nissan ha ricevuto 180 milioni di aiuti fatti interamente con denaro pubblico. Senza contare la generosa riduzione dell’affitto dove si trova lo stabilimento, terreno pubblico nella Zona Franca di Barcellona.
La proposta non è solo una risposta immediata alla chiusura, ma guarda anche al futuro: la produzione di una “Nissan socializzata” sarebbe legata ad una trasformazione sociale ed ecologica, volta anche ad invertire la desertificazione industriale della regione.
Il sindacato della CGT propone di produrre veicoli elettrici condivisi o di convertire quelli esistenti, creando un cosiddetto “car-sharing sociale”: considerando un’auto ogni 100 abitanti e un abbonamento mensile di dieci euro, se il 25% rinuncia all’idea di avere un’auto privata o mette la propria al servizio della riconversione elettrica, il ritorno economico ammonterebbe a 1.400 milioni annuali, per un investimento che richiede 950 milioni all’anno, garantendo produzione e lavoro per un decennio.
“L’alternativa è reale e possibile: stiamo parlando di un processo complicato, ma il modello attuale sta portando ad un disastro ecologico e non può essere sostenuto”, ha detto Daniel Mulero, attivista di Anticapitalistas, il quale sottolinea che “dipende soprattutto dalla volontà politica di realizzarlo”.
Infatti, la Costituzione prevede “l’esproprio giustificato da interesse sociale o di pubblica utilità” (articolo 33.3) e che “tutte le ricchezze del Paese sono subordinate all’interesse generale” (articolo 128.1).
La decisione della chiusura dello stabilimento catalano è da leggersi nel nuovo modello di sviluppo per il mercato automobilistico elaborato dall’alleanza strategica Renault-Nissan-Mitsubishi presentata a fine maggio. Non una fusione, ma una partnership tra gruppi automobilistici in cui ogni casa sarà leader in una singola tecnologia (con gli altri nel ruolo di follower) ma anche nelle diverse aree geografiche.
In pratica, per ogni segmento di prodotto ci si concentrerà su un modello e da quello ne saranno sviluppati altri con l’aiuto delle altre società. Inoltre, ogni marchio sarà di riferimento in diverse aree geografiche: Nissan per Cina, Nord America e Giappone; Renault in Europa, Russia, Sud America e Nord Africa; Mitsubishi Motors per Oceania e Sud Est dell’Asia.
Un modello di piattaforma strategica che in una nota i promotori difendono come rilevante per “migliorare l’efficienza e la competitività su prodotti e tecnologie”, ma che segue la riorganizzazione dovuta alla pandemia e alla gestione di Carlos Ghosn (ex numero uno poi investito da uno scandalo giudiziario in Giappone), con investimenti elevati che però non hanno dato i frutti sperati.
Il costruttore giapponese limiterà la gamma a meno di 55 modelli, contro i 69 attuali, per un totale al massimo di 5,4 milioni di veicoli “sfornati” l’anno (oggi sono 7,2 milioni); anche Renault abbasserà il suo potenziale da 4 a 3,3 milioni di veicoli.
Dal canto suo, lo Stato francese, che ha una partecipazione del 15% in Renault, ha fatto la sua mossa: il 26 maggio il Presidente Emmanuel Macron ha presentato un piano di aiuti al settore automobilistico per 8 miliardi di euro, comprendente l’impegno del Gruppo PSA e Renault a produrre i loro veicoli elettrici e ibridi in Francia.
Nonostante ciò, Renault ha affermato di voler sopprimere circa 4.600 posti di lavoro in Francia, con la chiusura di quattro stabilimenti (Choisy-le-Roi, Dieppe, les Fonderies de Bretagne e, in un secondo momento, Flins-sur-Seine).
Il 15 giugno il governo spagnolo ha pubblicato un piano per l’industria automobilistica, un settore che rappresenta il 9% del PIL e il 19% delle esportazioni. Il piano del governo ha un budget di soli 3,75 miliardi di euro, di cui 2,69 miliardi sarebbero spesi per investimenti nella catena del valore del settore. Si tratta però di un’industria che non è né nazionalizzata né partecipata dallo Stato.
Tuttavia, come ha sottolineato Vidal Aragonés, deputato della CUP al Parlamento catalano, “se siamo tutti d’accordo che l’attività di Nissan è redditizia e può continuare, le strutture fondamentali dell’attività dovrebbero diventare di proprietà pubblica”. Ha aggiunto inoltre che “Nissan non se ne va a causa delle perdite, ma per la volontà di mantenere i profitti”.
Infatti, lo scorso 28 maggio il gruppo Nissan aveva annunciato una perdita netta di 671 miliardi di yen (6,2 miliardi di dollari) per l’esercizio 2019-20 conclusosi il 31 marzo scorso, a fronte di un utile di 319 miliardi di yen (3 miliardi di dollari) nel precedente.
É stata la prima volta in 11 anni che la casa automobilistica giapponese ha chiuso i conti annuali in rosso. “La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto rilevante sulla produzione di Nissan, sulle sue vendite e su altre attività in tutte le regioni e l’impatto si riflette sui conti annuali dell’esercizio fiscale 2019”, scrive Nissan in un comunicato.
Durante la presentazione di mercoledì, Vidal Aragonés ha ricordato che lo Stato spagnolo è basato su quattro pilastri: l’automobile, l’agricoltura, il turismo e l’edilizia. I primi due possono essere consolidati nel tempo: “Mantenere la Nissan è una decisione politica e non si può dare per scontato che ora arriverà una seconda ondata di distruzione dell’industria. Questa può essere una vittoria lungimirante o l’ennesima sconfitta da assumere in nome del male minore”, ha avvertito.
“Da Anticapitalistas siamo chiari; se Nissan vuole andarsene, il governo e la Generalitat devono fare in modo di recuperare gli aiuti milionari che Nissan ha ricevuto. Ci sono diversi esempi in altri Stati europei in cui gli aiuti pubblici non vengono dati a fondo perduto”, ha detto l’euro-deputato Miguel Urbán collegato in video-conferenza.
I lavoratori della Nissan sono in sciopero a tempo indeterminato da 83 giorni. Diego Rejón, sindacalista della CGT e segretario della Federación Estatal de Sindicatos de la Industria Metalúrgi (FESIM), ha detto durante la presentazione della proposta che “non capiamo perché i governi dopo la Transizione non hanno avuto l’intenzione di creare sovranità industriale in questo Paese”.
Inoltre, ha sottolineato che “mantenere l’impianto produttivo è essenziale: come sindacato, e insieme alle altre organizzazioni, facciamo un passo avanti con questa proposta”. La chiusura della Nissan “è un precedente che può essere utilizzato da altre aziende, quindi deve servire a proporre qualcosa di diverso”.
“Non fabbrichiamo una macchina da febbraio”, ha ricordato Javier Turrillo, operaio e rappresentante della CGT Nissan nella Zona Franca. “Nissan ha approfittato della situazione generatasi con il Covid-19 per annunciare la chiusura e mostra cosa può accadere con altre aziende. Questa nostra proposta non è da considerarsi solo per la Nissan, ma una nuova politica dello Stato spagnolo nei confronti dell’industria. Dobbiamo smettere di essere uno Stato di sovvenzioni per le multinazionali, per iniziare a decidere dove viene iniettato il denaro pubblico”, ha detto Trujillo di fronte ai suoi colleghi e ai cancelli di una fabbrica che non vogliono vedere chiusa.
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