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Catalogna: una consulta illegalmente legittima

Cuando más de dos millones de personas señalan la Luna, el tonto mira a Artur Mas. Mentre cercavo un titolo da dare a queste righe, un caro amico e collega ha postato queste parole su Facebook, in castigliano perché gli spagnoli le capiscano. All’istante vi ho trovato fotografata la situazione attuale e parte del nocciolo della questione. Il problema delle interpretazioni sulla questione catalana che popolano la rete (in italiano) non è quello delle risposte o interpretazioni che si offrono bensì quello delle domande che si formulano. E quando la domanda è sbagliata, non c’è risposta che tenga. Ieri, 9 novembre 2014, un enorme ingranaggio popolare, mosso da 40.930 volontari, cui hanno partecipato tutti i comuni catalani tranne tre, ha portato alle urne 2.236.806 persone, su sei milioni circa di aventi diritto. Una cifra di tutto rispetto, inferiore a quella del referendum per lo Statuto d’Autonomia e superiore a quella del referendum per la costituzione europea. Per quanto riguarda i risultati, ancora in parte provvisori, l’82,1 per cento ha votato a favore della costituzione di uno stato indipendente, il 9,1 per cento ha optato per uno stato non indipendente (ad esempio federato) e il 4,1 ha votato per il mantenimento dell’attuale situazione.

Cosa accadrà è in queste ore difficile da prevedere e in un certo senso anche abbastanza inutile. Da una parte, le reazioni di Madrid e dei partiti spagnoli, così come delle loro sezioni catalane, non lasciano presagire nulla di buono, anche se il reale stato della situazione si potrà valutare solo nelle prossime settimane. La stampa spagnola parla generalmente d’inaccettabile farsa e atto di disobbedienza da perseguire, nel caso di “El Mundo” e di “ABC”, “La Razón” parla di prevaricazione, “El País” ha una postura formalmente più neutra ma ospita un fondo di Francesc Carreras, uno dei più noti rappresentanti dell’unionismo spagnolista in Catalogna, dall’inequivocabile titolo “Il giorno della slealtà”. I maggiori quotidiani catalani parlano di grande prova di civismo e democrazia, “Ara”, di necessaria uscita politica alla situazione, “La Vanguardia”, e, “El Periórico de Cataluña”, di nuova giornata di rivendicazione. I partiti spagnolisti in Catalogna, per i quali l’intellettualità spagnola ha coniato la comoda definizione di “costituzionalisti”, e che sono in chiarissima minoranza, stigmatizzano la consultazione di ieri, chiedendo al Governo di Madrid di intervenire legalmente sia contro le istituzioni autonome sia contro i volontari. Mentre dalle dichiarazioni a caldo dei partiti che a Madrid chiamano “nazionalisti” o a seconda dei casi “secessionisti”, si prevede una difficile gestione di questa ennesima prova di partecipazione popolare.

In realtà ci troviamo da mesi in una situazione di pareggio tecnico, tra una Catalogna che vuole votare, in un modo o nell’altro, e un governo spagnolo arroccato sulla difesa della legalità e incapace di scendere sul campo della politica, come invece ha fatto il premier britannico Cameron.

È vero, si tratta di una consultazione senza nessun valore legale, come affermano da Madrid. I detrattori dell’iniziativa, che non ha altro significato che quello di visualizzare per l’ennesima volta il massiccio appoggio che ha l’opzione indipendentista in Catalogna, si trincerano dietro la mancanza di effettività legale della consultazione di ieri, e hanno ragione. È proprio riflettendo su questo fatto che verifichiamo quanto sia necessario evitare lo schiacciamento informativo rispetto alla strettissima attualità. Infatti, se questa consultazione non ha valore legale né effettività giuridica è perché la consultazione ufficiale, convocata dalla Generalitat de Catalunya, è stata impugnata e sospesa dal Tribunale Costituzionale (TC) spagnolo, che tra le altre cose l’ha brutalmente confusa con un referendum vero e proprio. Infatti, la consultazione ufficiale era stata convocata sulla base della Llei de Consultes catalana, uno strumento di partecipazione cittadina approvato per l’occasione e anch’esso impugnato e sospeso sine die, perché considerato un espediente per conoscere in maniera diretta l’opinione dei catalani, di tutti i catalani, in merito alla formazione di uno stato proprio (prima domanda) e l’eventualità che questo si costituisse in stato indipendente (seconda domanda).

Ciò significa che è sbagliato leggere la consultazione di ieri come una consultazione vera e propria, dato che si presenta piuttosto come una vera e propria manifestazione civica di massa a favore dell’indipendenza e, per essere precisi, la più numerosa e più precisamente quantificabile tra tutte quelle che hanno riempito le strade e le piazze di questa ridotta porzione di mondo. 

In questa situazione, numerose sono state le personalità internazionali che hanno dato il loro appoggio alla celebrazione di un referendum vero e proprio, attraverso il Manifesto “Let catalans vote”; tra esse, Noam Chomsky, Dario Fo, Ken Loach, Ignacio Ramonet, Paul Preston, Andrea Camilleri, Adolfo Pérez Esquivel. E in effetti, la questione, come nodo centrale che non riguarda solo i catalani o gli spagnoli, risiede proprio qui, nel diritto a decidere in maniera diretta una questione così importante come l’appartenenza/costituzione stato-nazionale. Quella che possiamo chiamare questione catalana può interpretarsi in due modi. Il primo, che gode senza dubbio di maggior visibilità, tende a vedere la questione come essenzialmente un conflitto nazionale, tra uno stato-nazione e una nazione-senza-stato. Tra i sostenitori di questa lettura figurano tanto i nazionalisti spagnoli quanto quelli catalani, con la differenza che i primi lo fanno per negare la definizione della Catalogna come nazione mentre i secondi lo fanno per rivendicarla. Il secondo punto di vista è quello che legge il conflitto in corso come una battaglia per il recupero della sovranità popolare, laddove questa è oramai annullata dai processi di allontanamento dei centri decisionali dai luoghi un tempo preposti alla decisione politica: parlamenti, governi, istituzioni democratiche rappresentative in generale.

All’interno di questo secondo punto di vista, che possiamo definire post-nazionalista, s’innesta la nostra interpretazione generale della questione, di cui gli ultimi fatti sono solo una delle tante conseguenze possibili. Sulla base di questi presupposti, cercheremo di presentare alcune riflessioni in prospettiva storica di quanto accade oggi in Catalogna, con l’intenzione di fornire degli spunti per una riflessione di fondo.

L’attuale momento politico ha tutte le caratteristiche di una cesura nella storia del catalanismo. Nelle sue espressioni maggioritarie questo movimento (nelle sue varie espressioni politiche e culturali) si è mosso tradizionalmente, in maniera maggioritaria, nell’ottica della contribuzione attiva alla modernizzazione della Spagna, proponendo fra le altre cose la costruzione di uno stato nazionalmente plurale e amministrativamente decentralizzato. Quest’idea generale ha alimentato in passato svariati progetti politici (federale, confederale, autonomista, stato bicefalo, ecc.), sempre con al centro una doppia preoccupazione: quella per l’articolazione e il riconoscimento istituzionale della nazione catalana all’interno di una Spagna moderna e pienamente inserita nei parametri delle democrazie formali europee.

Questo è accaduto, evidentemente con modalità e percorsi diversificati, in epoche diverse: nella seconda metà dell’ottocento, nel successivo passaggio di secolo, negli anni trenta, all’interno dell’opposizione anti-franchista e, finalmente, durante la transizione post-franchista. Possiamo dire che in un certo senso il catalanismo d’ordine, quello fino a poco tempo fa maggioritario espresso dal pujolismo, sia addirittura cofondatore dello Stato delle Autonomie. Questo, come si riconosce da più parti e in modo quasi unanime, è considerato uno stato “non-federale” però “quasi-federale”, nel senso che contiene al suo interno le norme per una sua progressiva federalizzazione. Le vicende politiche della Spagna post-franchista, e tra queste il ritorno in auge di un nazionalismo spagnolo che riteneva che durante la transizione fossero state fatte troppe concessioni ai nazionalismi periferici, creano dalla fine degli anni novanta del secolo passato una chiara dinamica di divergenza tra i governi di Madrid e quelli di Barcellona. Da più parti, infatti, si fa appello alla necessità di una segunda trasición, capace di completare o chiudere i tanti discorsi lasciati in sospeso dalla prima. Al consenso circa questa necessità si affianca, però, un profondo dissenso circa la direzione che questo processo deve prendere.

L’arrivo al governo dei socialisti nel 2003 si alimenta di una di queste opzioni: completare la transizione con un nuovo accordo con il catalanismo, nella forma di una riforma dell’autonomia. La vittoria di Zapatero si alimenta anche dell’appoggio dei partiti catalani (escluso il PP) nei confronti di questa ipotesi. È oramai celebre la promessa elettorale di Zapatero di rispettare la riforma statutaria proposta dal parlamento autonomo. È allo stesso modo celebre il mancato rispetto alla parola data. Il testo approvato a Barcellona dal 90% del Parlament nel 2005 viene modificato al ribasso a Madrid, grazie a un accordo tra l’allora leader di CiU (catalanismo centrista), Artur Mas, e lo stesso Zapatero. Il nuovo testo, sebbene approvato in referendum nel 2006, genera un forte movimento di protesta perché da questo scomparivano importanti elementi: il riconoscimento della Catalogna come nazione, la competenza esclusiva su questioni centrali come il potere giudiziario e le questioni linguistico-culturali, la bilateralità Catalogna-Stato e l’accettazione di principio di una qualche forma di autonomia fiscale. Importanti manifestazioni solcano le strade di Barcellona, ma il punto di non ritorno, se così lo vogliamo chiamare, si oltrepassa quando il Partido Popular ricorre dinnanzi al Tribunal Constitucional contro il testo di consenso tra Mas e Zapatero, allora già approvato in referendum. Dopo quattro lunghi anni di sospensione (il Tribunal Constitucional -TC- è tenuto per norma a deliberare entro quaranta giorni dalla sospensione) arriva la sentenza definitiva che ritaglia ulteriormente le competenze in materia di lingua, educazione, cultura e riconoscimento nazionale. Il TC afferma il 28 giugno 2010 che “la Costituzione non riconosce altra nazione che quella spagnola”, dichiara incostituzionali 14 punti e ne reinterpreta 24. Il 10 luglio ha luogo una manifestazione senza precedenti nella storia della Catalogna. Più di un milione di persone, contro ogni previsione, cambiano di segno una mobilitazione che, nelle intenzioni dei promotori doveva essere una semplice rivendicazione autonomista. Per la prima volta nella storia la richiesta d’indipendenza sostituisce quella più classica di autonomia e, anche dal punto di vista simbolico, la bandiera estelada sostituisce la senyera storica come simbolo della rivendicazione nazionale.

Non è possibile affermare se a metà 2010 ci trovassimo già ad un punto di non ritorno, di rottura, di passo del Rubicone nella rivendicazione politica catalanista. Quello che sì possiamo affermare è che il periodo 2003-2010 è decisivo e rappresenta l’antecedente immediato della nuova situazione politica che si vive oggi in Catalogna e del cambio di asse all’interno del catalanismo, stavolta a favore dell’ipotesi indipendentista rispetto alle altre vie possibili.

Tra 2009 e 2011 si sviluppa il movimento popolare delle consulte municipali per l’autodeterminazione; una serie di consulte autogestite che coinvolge il 58,3 per cento dei Comuni. Sebbene la partecipazione fosse decisamente bassa, circa un 18 per cento per un totale di circa 900.000 persone, ci troviamo già dinnanzi a un movimento qualitativamente importante in termini di presenza di entità della società civile e visibilità sociale. Fino a quel momento l’indipendentismo era stato questione marginale, rappresentata istituzionalmente solo da Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) e presente a livello sociale principalmente nell’estrema sinistra anticapitalista, strettamente legata all’idea dei Països Catalans (Catalogna, Valencia, Baleari e Catalogna francese). Frattanto il PP vince le elezioni con la maggioranza assoluta e Rajoy diventa Presidente. In un certo senso, certamente sintetizzando al massimo, possiamo dire che quegli elementi del nuovo Statuto che non vengono accettati dal Governo Zapatero, assieme a quelli che il TC dichiara fuori dalla legalità, rappresentano oggi il nucleo attorno al quale una grande maggioranza sociale di catalani ha maturato il proprio sentimento indipendentista. La vicenda della riforma dello Statuto e la successiva gestione della questione catalana fatta dal Governo Rajoy disegnano lo scenario in cui progressivamente il catalanismo e tutta la società catalana cambiano il loro equilibrio interno. Secondo il politologo Ivan Serrano, autore dello studio De la nació a l’estat (2013), il periodo 2005-2012 è caratterizzato dal paradigma del fallimento del riconoscimento della Catalogna da parte dello Stato e ha un impatto diretto in una serie di fattori che vanno modificandosi progressivamente, anno dopo anno: aumento del sentimento mono-identitario catalano a discapito di quello duale catalano-spagnolo, sorpasso dell’ipotesi indipendentista rispetto a quella federalista, maggior trasversalità dell’indipendentismo rispetto al passato. Le manifestazioni della Diada dell’undici settembre degli ultimi tre anni hanno in questi fattori la ragione del loro spettacolare successo: aver mobilitato dal milione di persone in su in maniera costante.

Esistono però una serie di questioni, qualitative e politiche, che vanno ben oltre il semplice dato numerico. La questione catalano-spagnola è una questione europea, o meglio è questione europea, poiché mette allo scoperto una serie di nodi che poco hanno a che fare con la dialettica nazionalitaria tout-court.

Questioni, queste, che è necessario accennare brevemente in questa sede, come contributo critico. In primo luogo, stiamo assistendo a un doppio processo di crisi. Da una parte, la crisi della Spagna come stato-nazione, alimentata dal processo di unificazione europeo, si alimenta oggi anche di una dimensione nuova: lo sgretolarsi di quel modello di sviluppo economico basato sulla speculazione edilizia che aveva contribuito a creare il mito della Spagna prospera e democratica del post-Franco. Dall’altra, la crisi del catalanismo storico, a causa del fallimento del progetto di fondo di trasformare la Spagna in uno stato plurinazionale, progressivamente federale, capace di superare l’identificazione tra nazione e stato. In questo crocevia ovviamente gioca un certo ruolo anche la questione basca, con le sue rinnovate e inedite modalità, al venir meno sia la lotta armata che la dialettica anti-terrorista. È legittimo pensare che uno stato fino ad ora abituato a legittimarsi (anche) attraverso il discorso della giovane democrazia in lotta contro il terrorismo, possa subire dei contraccolpi dinnanzi alla sparizione della pratica armata da parte dell’indipendentismo basco. In secondo luogo, è d’uopo chiedersi fino a che punto un’istituzione autonoma di uno stato-nazione e quindi da questo dipendente, possa generare realmente un potere costituente nuovo. La Generalitat de Catalunya in fin dei conti è tenuta istituzionalmente a far rispettare la legalità dello stato-nazione e muove la propria in funzione di questa, essendone emanazione decentrata. Una parte del processo sovranista si basa sulla considerazione delle istituzioni autonome catalane come generatrici di una legalità propria proveniente dalla legittimità democratica dei cittadini che rappresenta.

Detto in altri termini, fino a che punto un’istituzione di rango inferiore può dichiararsi disobbediente dinnanzi ad una di rango superiore?

In una delle oramai rituali interviste televisive rilasciate dal presidente catalano Artur Mas, questo affermava essere un “uomo d’ordine”, cosa che ha certamente dimostrato il suo governo dinnanzi alle manifestazioni di piazza, praticando tagli spregiudicati al welfare, ecc. In terzo luogo, quella che si sta giocando è una partita tra legalità costituita e legittimità costituente. Da una parte, la difesa dell’unità della nazione spagnola veste i panni comodi ma consunti del rispetto (palesemente strumentale) della legalità vigente, del cosiddetto “stato di diritto”. Dall’altra la rivendicazione nazionale catalana assume sempre di più le sembianze di un processo costituente, di un nuovo contratto civile per la delimitazione di un nuovo spazio di welfare.

Il punto di sintesi di tutte queste questioni, e di altre minori come l’inedita questione dell’allargamento interno dell’Unione Europea proveniente dalla possibile secessione da Stati membri, è a nostro parere rappresentato da una domanda che si aggira come uno spettro troppo vecchio per fare ancora paura nei meandri dell’intellettualità di quella che un tempo era la sinistra. L’indipendenza della Catalogna è o no funzionale alle sorti magnifiche e progressive? Questione nazionale e questione sociale sono compatibili?

Come detto in precedenza, ci sono delle domande che sono sbagliate e che contengono tutti gli elementi per dare una risposta fuorviante. Com’è possibile prevedere una cosa del genere? I processi storici non sono determinabili a tavolino e nessuno, per quanto intellettualmente superiore alla media dei mortali, può prevedere che strada prenderà un processo storico collettivo così complesso. Col senno di poi, forse, avremmo potuto prescindere dell’unità d’Italia, ma chi avrebbe potuto prevedere che le terre dell’ex Regno di Napoli si sarebbero trasformate in “questione meridionale” senza soluzione né via d’uscita prevedibile? Ciononostante, forse è arrivato il momento di accettare la sfida, per nulla facile, di dare a questa domanda una risposta non conforme a quanto si è soliti leggere e ascoltare. Senza avanzare paradigmi chiusi, sarebbe il caso di aprire l’arco problematico delle ipotesi. Il punto di vista post-nazionalista che adottiamo in questo testo ci permette di liberarci da una serie di lacci dialettici. Primo fra tutti l’erroneo uso sinonimico di nazionalismo e indipendentismo.

Molti pareri sulla questione catalano-spagnola affermano che Mas, il suo partito e il suo governo hanno abbracciato la causa indipendentista come strumento per perpetuarsi al potere, cercando di cavalcare il sentimento indipendentista. È una lettura che condividiamo in parte e, detto sinceramente, non ci vuole questa grande abilità per rendersene conto. Però, attaccare l’indipendentismo perché Mas cerca di cavalcarlo è come dire che non ci piace la Nutella perché la mangia anche Berlusconi. Se ci soffermiamo in modo critico sulla questione osserveremo che, sebbene Mas abbia una certa egemonia ai fini della legittimazione del suo governo, impensabile senza il processo (diciamo) secessionista, è altrettanto vero che tale processo è in mano alla società civile e che Mas c’è stato trascinato dentro su malgrado, in seguito alla manifestazione della Diada del 2012. Fino a quel momento né Mas né il suo partito avevano palesato il loro indipendentismo. Nel corso di questo processo politico, le cose si sono mosse a tal punto e con tale velocità che un “uomo d’ordine” come l’attuale President si sia ritrovato a commettere misurati atti di disobbedienza istituzionale. Ma ciò che più sorprende è che coloro che criticano Mas in realtà stanno contribuendo al gioco delle parti, avallando come autentico il suo indipendentismo.

Secondo le ultime inchieste del CEO (il Centro di Statistica e Opinione catalano), la maggioranza della popolazione catalana si identifica come catalanista e di sinistra, il che significa che le due categorie spesso vanno di pari passo tra i catalani.

Insomma, se incontri un catalanista per strada è più facile che questo sia di sinistra (o creda di esserlo), mentre se incontri uno spagnolista questo sarà generalmente di destra (spesso suo malgrado). Una tendenza, questa, confermata dai motivi a favore dell’indipendenza: in un’inchiesta a risposta multipla, l’80 per cento circa è indipendentista perché vuole più capacità di autogestione e possibilità di decidere rispetto alle grandi questioni politiche, economiche e sociali del paese, e meno del 30 adduce questioni puramente identitarie. D’altronde, l’attuale parlamento catalano vede una chiara maggioranza dell’asse catalanista e di sinistra rispetto a quello spagnolista e di destra, soprattutto dopo l’irruzione della CUP (Candidatura d’Unitat Popular), da una parte, e dei populisti di Ciudadanos, dall’altra. Un’articolazione che si traduce nella promulgazione di leggi impensabili nelle Cortes di Madrid, come la recente legge contro la discriminazione del collettivo LGBT o, se vogliamo, nella stessa Llei de Consultes, se teniamo conto del suo possibile uso per canalizzare in maniera più diretta la partecipazione della cittadinanza alla vita istituzionale e politica. Certezze ne abbiamo poche e dubbi tanti ma l’importante è avere dubbi di buona qualità piuttosto che risposte banali o fuorvianti. È probabile che in Catalogna si stia giocando una partita truccata tra due nazionalismi (quello spagnolo e quello catalano) che, grazie al contrasto vedono cristallizzarsi una situazione in cui, Mas a Barcellona e Rajoy a Madrid, possono continuare a massacrare ciò che resta di un welfare già ridotto. Ma è anche probabile che il processo catalano porti a una rottura dello status quo capace di aprire una via costituente, partecipativa e capace di trasformare il diritto all’autodeterminazione in strumento di decisione a 360 gradi circa questioni sociali che altrimenti, nella Spagna di oggi, sarebbe inimmaginabile solo ipotizzare. È probabile che oggi in Catalogna ciò che si sta affermando non sia un’identità nazionale bensì la riappropriazione de parte della popolazione della sovranità popolare perduta.

Fonte: http://www.qcodemag.it/2014/11/10/catalogna-una-consultazione-illegalmente-legittima

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