Gli Stati Uniti, come l’Unione Europea, non sono “riformabili”. La struttura del potere e l’organizzazione sociale non ammettono cambiamenti che vadano in direzione diversa dal capitalismo neoliberista (“ordo-liberista”, nella Ue), ma solo “aggiustamenti” che lo conservano.
Neanche l’ondata di sommosse popolari che attraversano quel Paese dall’omicidio di George Floyd in poi sono state in grado di “convincere” parte dell’establishment a correggere in modo significativo quella struttura.
Le elezioni presidenziali erano l’occasione per verificare se questa possibilità “riformista” aveva o no una chance. E la risposta è stata come sempre brutale nella sostanza, furbesca nella forma.
Bloccato il campo repubblicano intorno al cavallo pazzo Trump, l’establishment “democratico” ha prima respinto la scalata di Bernie Sanders (penalizzato, nei confronti dei movimenti, dall’eccesso di compromessi accettati in questi anni), ed ora procede alla solita operazione cosmetica che – sperano – dovrebbe dimostrare “capacità di ascolto” verso la sofferenza della maggioranza della popolazione, stremata da disoccupazione galoppante, bassi salari, razzismo e pandemia incontrollabile.
Era scontato, dunque, che il candidato dell’establishment – Joe Biden – dovesse essere accompagnato da una figura relativamente “nuova”, che potesse rappresentare le figure sociali più deboli almeno sul piano dell’immagine.
Ma la scelta di Kamala Harris – la cui storia politica e istituzionale viene ricostruita dall’articolo di Elisabetta Raimondi, che vi proponiamo qui di seguito – è quanto di peggio ci si poteva aspettare. Al punto da compromettere, probabilmente, la stessa operazione cosmetica.
Il che può significare molte cose, ma una ci sembra prevalente: in quell’establishment non può entrare nessuno che non dimostri concretamente, mediante complicità e atti chiari, subordinazione completa. E dunque, quando per la sopravvivenza stessa di quel sistema occorrerebbe qualcuno credibilmente presentabile come “elemento del popolo”, non se ne trova neppure uno.
In mancanza di una “sostanza riformatrice”, insomma, non resta che la scontata scelta dell’”apparenza”. Ma quel che matura nella società, ormai molto chiaramente, spinge in tutt’altra direzione…
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Si scrive Kamala Harris si legge Hillary Clinton
Elisabetta Raimondi – Jacobin Italia
La nomina della vice di Biden, presentata come donna e nera paladina delle persone comuni, è in realtà uno schiaffo in faccia ai progressisti e sancisce il totale controllo dell’establishment sui candidati del Partito democratico
Come da copione, apparentemente anonimo ma in realtà scritto da Hillary Clinton, Kamala Harris è la compagna di Joe Biden per il ticket presidenziale. L’annuncio di questa travagliata ma quasi scontata scelta è finalmente arrivato l’11 agosto dopo innumerevoli rinvii, con il seguente annuncio di Joe Biden:
Ho il grande onore di annunciare che ho scelto Kamala Harris – una indomita combattente per le persone comuni (the little guy), e una dei migliori funzionari al servizio del paese – come mia compagna di corsa. Quando Kamala era Procuratrice Generale, ha lavorato fianco a fianco con Beau [il figlio di Biden deceduto per tumore nel 2015]. Io li osservavo mentre attaccavano le grosse banche, miglioravano le condizioni dei lavoratori e proteggevano i bambini e le donne dagli abusi. Ero orgoglioso allora e lo sono ora per averla come mia partner nella campagna.
Sembrano così svanite le preoccupazioni per l’eccesso di ambizione personale di Kamala che il consigliere di Biden Chris Dodd aveva sollevato, considerate le particolarissime prerogative di questa elezione in cui l’età e le condizioni di Biden spostano l’attenzione sulla successione alla stessa presidenza.
Con l’insediamento di Biden-Harris, il vecchio corso, quello che gli statunitensi nel 2016 avevano creduto di ripudiare preferendo Donald Trump a Hillary Clinton (considerata come la prosecuzione femminile della presidenza Obama), verrà ristabilito nella sua integrità. E gli elettori di questo ticket continueranno a credere, almeno fino a che l’esasperazione per la situazione creata dalla pandemia, dai soprusi della polizia e dalla crisi economica senza precedenti non esploderà in maniera molto più massiccia, che fosse l’unica scelta possibile per sconfiggere Donald Trump.
Perché questo è ciò che il Grande Fratello democratico ha fatto credere loro, quando invece quel binomio altro non è che il prodotto di un establishment interessato solo a mantenere lo status quo per salvaguardare i suoi priviliegi e guidato dalle decisioni di Obama e Hillary.
Del resto Obama desiderava proteggere la sua legacy che una presidenza Sanders avrebbe surclassato, Hillary voleva vendicarsi di Bernie che odia perché ritiene responsabile della sua sconfitta del 2016 e tutti e due vogliono continuare ad avere potere nella prossima eventuale amministrazione democratica.
Così come Obama ha pilotato la resurrezione di Sleepy Joe, la scelta di Kamala, come potenziale presidente prima e come vice poi, sembra infatti pilotata in particolare da Hillary.
Il rifiuto di Kamala Harris di perseguire Steve Mnuchin per frodi bancarie
Nel suo passato da procuratrice, Kamala Harris vanta il mancato perseguimento dell’attuale ministro del tesoro di Donald Trump, Steve Mnuchin, colui che in piena pandemia ha preteso miliardi di dollari per le corporation senza nessuna condizione, in cambio di un una tantum di 1.200 dollari data alle famiglie statunitensi.
Tra il 2009 e il 2015 Mnuchin era stato il Ceo della OneWest Bank che, come rivelato da The Intercept, nel febbraio del 2017 nell’articolo «Kamala Harris si rifiuta di spiegare perché non ha perseguito la banca di Mnuchin», aveva commesso una gran quantità di frodi.
«In un memorandum interno pubblicato da The Intercept martedì scorso – si legge – i pubblici ministeri dell’ufficio della procuratrice generale della California hanno detto di aver trovato più di mille violazioni delle leggi sul pignoramento da parte della sua banca [di Mnuchin] durante quel periodo e hanno previsto che investigazioni future ne porteranno alla luce molte altre migliaia. Ma l’indagine, in quella che il memorandum ha definito ‘ampiamente mal condotta’ è stata chiusa dopo che l’ufficio di Harris ha rifiutato di aprire un’azione civile contro la banca».
Dalle indagini condotte successivamente, è emerso che nel 2016 Mnuchin diede alla campagna di Harris 2000 dollari , unica candidata democratica a ricevere fondi da Mnuchin in quel ciclo elettorale, sebbene in anni precedenti Mnuchin avesse fatto donazioni a entrambi i Clinton, a Barack Obama, a Jonn Kerry, a ulteriore conferma di quanto agli alti livelli i soldi di persone di potere di tendenze repubblicane vadano a foraggiare indistintamente repubblicani e democratici.
I presunti provvedimenti della procuratrice Kamala a favore della gente comune e di colore
Quanto ai riferimenti di Joe Biden alla lotta di Harris per migliorare la vita delle persone comuni, lavoratori, mamme e bambini, persino il New York Times l’anno scorso ospitava l’opinione della professoressa di legge californiana Lara Bezelon, che smentiva con i fatti l’appellativo «progressista» con cui Kamala amava e ama tuttora definire la sua attività di procuratrice.
«La senatrice si è posta spesso dalla parte sbagliata della storia […] Di volta in volta, quando i progressisti la spingevano a sostenere la riforma della giustizia criminale in qualità di procuratrice di distretto [di San Francisco] o procuratrice generale statale, Ms. Harris si è opposta o è stata zitta. Cosa ancor più preoccupante, Ms. Harris ha lottato con i denti e con le unghie per sostenere incarcerazioni ingiuste che erano state effettuate per via di cattive condotte di funzionari, che includevano manomissione di prove, falsa a testimonianza e soppressione di informazioni cruciali da parte dei procuratori».
Anche gli attacchi di Tulsi Gabbard, di cui abbiamo già parlato, sferrati a Kamala Harris durante un decisivo dibattito presidenziale dell’estate 2019, che aveva dato il via al pesante declino di Harris nei sondaggi, facevano riferimento alla sua attività giudiziaria prima dell’elezione a senatrice nel 2016.
Gabbard si dichiarava preoccupata per l’attività di procuratrice di cui Harris andava fiera, ma che aveva avuto enormi impatti negativi soprattutto sulla popolazione di colore. Diversi i provvedimenti citati tra cui l’accanimento contro reati legati al fumo di marijuana, con l’incarcerazione di 1.500 persone, l’aver negato il riesame di un condannato dopo l’emergere di prove del Dna che avrebbero potuto scagionarlo, la mancata scarcerazione di persone che ne avrebbero avuto diritto per farle lavorare a basso costo, e persino la proposta di mettere in prigione i genitori di bambini ad alta frequenza di assenza scolastica.
Sta di fatto che dopo quel dibattito Kamala ha perso sempre più quota nei sondaggi e nelle donazioni, tanto che in dicembre ha abbandonato la corsa presidenziale, giusto in tempo perché il suo nome non comparisse nelle liste elettorali californiane, dove una sua debacle sarebbe stata umiliante.
Pur essendo di colore, madre indiana e padre giamaicano, Kamala non avrebbe infatti probabilmente avuto il voto afroamericano, indirizzato per lo più verso Joe Biden per la popolazione più anziana, e verso Bernie Sanders per la popolazione più giovane.
I commentatori mainstream Conan Nolan e Chuck Todd della Msnbc avevano subito visto quel ritiro come un’abile strategia non solo per evitare imbarazzanti risultati elettorali nelle primarie, ma come propedeutico alla corsa alla vicepresidenza con Joe Biden.
«Uscire dalla competizione prima del 2020» l’avrebbe aiutata «a non scavarsi una fossa più profonda in California» e le avrebbe permesso di «ripulire il suo curriculum» riportando l’attenzione su quelle che erano stati i suoi principali «punti di forza all’inizio della campagna». Vale a dire le indubbie doti oratorie e capacità di mettere alle strette gli imputati, che oltre a caratterizzarla come figura leader nella lotta contro Trump (Le audizioni di Trump lanciano Kamala Harris), le avevano dato molta popolarità.
Alcuni suoi interrogatori erano infatti diventati virali, come quelli delle audizioni in Senato per l’infinito Russiagate (qui alcune fasi cruciali dell’interrogatorio a William Barr) o quelli a Brett Kavanaugh sugli abusi sessuali prima della sua conferma a Giudice della Corte Suprema, e successivamente, nel caso Muller legato alle implicazioni russe.
Non scegliere Karen Bass è stato altro schiaffo in faccia ai progressisti
Pare dunque che l’operazione di make up sia riuscita alla grande, lasciando i progressisti nello sconforto e nella rabbia. «Siamo nel mezzo del più grande movimento di protesta nella storia americana, il cui soggetto è l’eccessivo stato di polizia, e il Partito Democratico ha scelto una “top cop” e l’autore del “crime bill” Joe Biden per salvarci da Trump. Il disprezzo per la base è, wow».
Così ha commentato l’ex-capo ufficio stampa della campagna di Bernie Sanders e opinionista politica Briahna Joy Gray alludendo ai trascorsi di Kamala più da poliziotto che da difensore dei deboli.
La vicepresidenza di Kamala Harris appare dunque come un ulteriore schiaffo in faccia ai progressisti, soprattutto dopo l’ascesa a sorpresa dell’ultima ora di Karen Bass, che avrebbe segnato un’apertura verso di loro in un momento in cui ce ne sarebbe più che mai bisogno.
Sebbene «lontana dall’essere socialista», si legge su Jacobin Magazine, Bass «è innegabilmente una progressista. Prima di entrare nella politica elettorale, è stata un’attivista contro la brutalità della polizia e contro il “crime bill” del 1994».
Negli ultimi giorni più di 300 delegati alla prossima Democratic National Convention (Milwaukee 17-20 agosto) avevano firmato una lettera che sollecitava Joe Biden a scegliere Bass «per aiutare l’unità del partito e il progredire della nazione». Inoltre Bass aveva anche ricevuto l’endorsement di Nina Turner, cosa che, considerando il peso politico di Hillary Clinton e il suo odio spietato verso Bernie Sanders di cui Nina è sostenitrice, confermava l’idea che Jaren Bass non sarebbe stata scelta.
Susan Rice e Hillary Clinton
C’era anche Susan Rice in corsa (e forse Kamala è meno peggio di Susan Rice), e la sua scelta sarebbe stata una sicurezza personale per Joe Biden, che ha lavorato a stretto contatto con lei per otto anni. C’erano però anche da parte dell’establishment dei fattori che andavano in direzione contraria alla sua scelta, sebbene non fossero di certo i trascorsi di Rice da guerrafondaia in politica estera, né i suoi coinvolgimenti con le industrie dei combustibili fossili.
La controindicazione era che Rice avrebbe offerto ai repubblicani il miglior bersaglio politico per infiammare i sostenitori di Trump contro Biden. Gli stessi repubblicani lo avevano dichiarato, come riferisce Politico nell’articolo «[Susan Rice] ‘è in assoluto il nostro Numero 1 nella scelta’: il Gop [Grand Old Party] vuole Rice come vice di Biden».
Tuttavia nell’esclusione di Rice non è da sottovalutare ancora una volta il fattore Hillary. Proprio in occasione dell’attacco di Bengazhi, ossia l’episodio che più di ogni altro rendeva Rice così suscettibile agli attacchi dei repubblicani, Hillary Clinton, allora segretaria di Stato, aveva mandato Susan Rice davanti alle telecamere a raccontare quella che poi si sarebbe rivelata una menzogna, non assumendosi dunque le responsabilità che sarebbero spettate a lei. La cosa non aveva dunque favorito i rapporti tra le due, che già non erano dei migliori.
I legami tra Kamala Harris e Hillary Clinton
I legami tra Kamala Harris e Hillary Clinton risalgono alle fasi immediatamente successive alla sconfitta del 2016. Già nel 2017 molti media sottolineavano come i primi a raccogliere fondi per Kamala fossero i grandi donatori e i principali surrogates di Hillary Clinton, con eventi organizzati negli Hamptons e in altre ricche località.
La benedizione dietro le quinte di Hillary Clinton, il cui staff si era trasferito quasi in massa nella campagna di Kamala, a cominciare da Maya Harris, sorella di Kamala, passata dalla posizione di top advisor di Hillary a leader della campagna di Kamala, trova ora aperta conclamazione nel tweet di Hillary, arrivato immediatamente dopo la dichiarazione di Biden: «Sono esaltata nel dare il benvenuto a Kamala Harris in questo storico ticket democratico. Ha già dato prova di essere un’incredibile servitrice e leader pubblica. E so che sarà una partner forte per Joe Biden. Vi prego di unirvi a me per sostenerla e farla eleggere».
Nessun dubbio, questa volta, sulla veridicità delle parole di Hillary, che con la candidatura di Kamala ottiene la sua personale rivincita e si garantisce una posizione di potere nell’eventuale nuova amministrazione.
Il caso Flournoy e il voto di Kamala contro i tagli al Pentagono
Un articolo dei primi di luglio di quest’anno, «Wall Street, Republicans and militarists back Biden campaign» del World Socialist Web Site è illuminante sulle previsioni militaristiche dell’amministazione Biden-Harris sia per i diretti collegamenti con Hillary sia in relazione al voto in Senato che Kamala Harris ha espresso recentemente.
Una delle componenti «della coalizione di reazionari che si è velocemente riunita intorno a Biden – leggiamo – è costituita da ex funzionari dell’intelligence militare dell’amministrazione Obama che hanno fatto un sacco di soldi con il redditizio business della consulenza strategica e che ora sperano di tornare al potere in un’amministrazione Biden».
Tra loro c’è la «nota guerrafondaia» Michele Flournoy, figura apicale della ditta West Executive Avenue (creata per mettere in atto il business di consulenza strategica), nonché vicesegretaria alla Difesa di Obama fino al 2012, poi dimessasi dalla carica contestualmente alle dimissioni della Segretaria di Stato di Hillary Clinton, che doveva prepararsi per la campagna del 2016.
«Flournoy era ampiamente data come Segretaria della Difesa se Hillary Clinton avesse vinto le elezioni del 2016 ed è ancora una volta in cima alla lista per la carica di capo del Pentagono sotto Biden». Anche nell’amministrazione Trump ha ricoperto posizioni importanti, «prima di dimettersi quando la campagna presidenziale del 2020 è entrata nel vivo», per entrare a fare parte della squadra di Kamala Harris.
Non stupisce dunque che Kamala abbia votato no alla proposta di legge di Bernie Sanders che chiedeva un taglio del 10% alle esorbitanti spese per il Pentagono, previste per il 2021 in 704,5 miliardi di dollari, per riallocare quei soldi in sanità, istruzione e casa. Tutti provvedimenti dunque che, stando al bel ritratto di Kamala fatto da Biden, sarebbero dovuti essere in perfetta linea con le sue posizioni umanitarie.
Ma le parole sono una cosa e i fatti un’altra. La bocciatura di quella proposta di legge, che alla camera era stata presentata da Barbara Lee e Mark Pocan, ha dato un gran bel ritratto del Congresso e soprattutto del Partito democratico, la cui maggioranza ha votato no insieme al blocco compatto dei repubblicani.
Il no dell’attuale candidata vicepresidente ha dato un’ulteriore indicazione di quale sarà la politica estera della nuova coppia se vincerà le elezioni. Una coppia nella quale non mancheranno né le interferenze di Obama né quelle di Hillary.
* Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue da tre anni la Political Revolution di Bernie Sanders.
* da Jacobin Italia
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giancarlo staffolani
Precisazione doverosa e non scontata, visto che che la “sinistra da cortile” è sempre pronta ad incoronare l’icona mediatica di turno prescelta dai padroni dell’impero. >>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>>> “Gli Stati Uniti, come l’Unione Europea, non sono “riformabili”. La struttura del potere e l’organizzazione sociale non ammettono cambiamenti che vadano in direzione diversa dal capitalismo neoliberista (“ordo-liberista”, nella Ue), ma solo “aggiustamenti” che lo conservano.
Neanche l’ondata di sommosse popolari che attraversano quel Paese dall’omicidio di George Floyd in poi sono state in grado di “convincere” parte dell’establishment a correggere in modo significativo quella struttura”.
alberto gabriele
Si dovrebbe fare più’ attenzione al significato delle parole. Dire che la UE non e’ riformabile significa che si ritiene questo organismo sopranazionale inestricabilmente legato alle politiche reazionarie che sono iscritte nei suoi principi fondanti, e che quindi e’ preferibile favorire un suo scioglimento, affinché’ ogni paese europeo ricuperi la sovranità’ nazionale e abbia quindi almeno una possibilità’ di applicare politiche almeno moderatamente progressiste. Lo scioglimento della UE e’ un obbiettivo arduo ma non fantascientifico, con il quale personalmente concordo.
Invece la distruzione degli USA – anche se in astratto auspicabile in quanto centro mondiale dell’imperialismo- e’ un obbiettivo astratto e non realistico, che potrebbe essere concepibile solo in uno scenario apocalittico tipo terza guerra mondiale. Sarebbe folle pretendere anche dai più’ radicali compagni statunitensi (che pure esistono, e stanno molto meglio di noi) di mettere nel loro programma la distruzione del loro stesso paese. Quindi sostenere che gli USA non sono riformabili equivale a condannare all’impotenza e all’irrilevanza tutti i compagni statunitensi, e mancare loro di rispetto. Avrebbe invece un senso (sia pur discutibile) dire che il partito democratico statunitense non e’ riformabile, e che quindi i compagni di quel paese dovrebbero smetterla di illudersi di poterlo cambiare dall’interno e concentrarsi sulla costruzione di un altro partito veramente rivoluzionario.
Redazione Contropiano
Le due entità non sono “riformabili”, ma sono chiaramente due entità molto diverse. Gli Usa sono UNO Stato da quasi 250 anni, l’Unione Europea è un insieme di trattati e istituzioni, ma non uno Stato con politiche economiche, fiscali, militari, ecc, comuni. Nella Ue, per esempio, risulta impossibile scrivere un manuale di Storia che sia condiviso da tutti gli Stati membri (i “liberatori” di un Paese cono i “terroristi” di un altro; basta già Garibaldi, senza arrivare a Napoleone…).
Dunque gli Usa possono essere “trasformati” solo da una Rivoluzione, perché non possono “sciogliersi”. Quindi non vediamo dove sia il mancato rispetto per i compagni statunitensi.
In qualche modo, però, anche lo “scioglimento” della Ue necessita di una Rivoluzione (la Gran Bretagna, non aderendo all’euro, di fatto era rimasta largamente fuori). Solo che al dunque ci sarebbero più alternative per sostituirla (diverse forme di aggregazione paritaria tra grupi di Paesi).
Daniele
Perfettamente d’accordo con Giancarlo, purtroppo non ci sono scorciatoie ad un governo di sinistra VERA, non l’immagine falsa e sbiadita della coppia Biden – Harris