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Lo sciopero politico di una parte importante del mondo dello sport professionistico nord-americano è un avvenimento di “rottura” per l’industria sportiva.

L’azione degli atleti non è stata solo una simbolica “presa di posizione”, ma un’iniziativa che ha sfidato l’assunto che lo spettacolo deve continuare e dà la cifra della crisi che affrontano gli Stati Uniti.

Non si è trattato di un gesto individuale, come quello del giocatore di football americano Colin Kaepernick, che si era inginocchiato durante l’inno pre-partita, o di Ariyana Smith – giocatrice professionista di basket – che l’aveva preceduto.

L’azione ha assunto un esteso profilo collettivo, difficilmente immaginabile senza questi gesti di partenza.

Certo le cestiste erano state l’apripista della coscienza politica nello sport professionista e, come riconosce Dave Zirin in questa intervista: “Le giocatrici della WNBA hanno avuto un ruolo importante nella radicalizzazione degli atleti maschi”.

Un processo simile a quello che è avvenuto per BLM ,nella sua prima fase del suo sviluppo, in cui le donne hanno avuto un ruolo centrale.

Se I giocatori e le giocatrici di basket sono stati/e i primi/le prime a muoversi, i professionisti degli altri sport li hanno presto seguiti, persino nel baseball e nell’hockey, qualcosa che ha sorpreso gli stessi commentatori sportivi più acuti, segno della profondità del cambiamento anche in ambienti tradizionalmente conservatori.

Come si è giunti a questa situazione? Come mai: “Ora abbiamo LeBron James che legge Malcolm X, Jaylen Brown che cita Angela Davis nelle interviste, e la giocatrice della WNBA Laysha Clarendion che descrive quel che ha imparato nel Programma di Studi Americani a Berkeley per guidarla nel suo attivismo e nel rispondere alle domande dei media”?

La risposta è da cercare in cosa sono stati questi anni.

Come afferma Zirin: “Gli anni di Trump hanno politicizzato una nuova generazione di atleti. Sono coinvolti nelle lotte, leggono libri radicali, discutono tra loro come mai prima, e si mettono in azione come lavoratori.”

Anche se erroneamente alcuni media hanno parlato di boicottaggio – scimmiottando il linguaggio di alcuni commentatori sportivi statunitensi – si è trattato di un vero e proprio sciopero, che l’establishment democratico (in primis Obama) ha voluto far rientrare e che i repubblicani hanno attaccato duramente.

E’ stata terza tappa, dopo lo sciopero del 9 giugno dei lavoratori portuali della Costa Ovest sindacalizzati dall’ILWU, e quello “Strike For Black Lives” il 20 luglio, organizzato da differenti sigle sindacali e diversi gruppi di base.

Per comprendere più a fondo questo fenomemo abbiamo tradotto l’intervista che il Managing Editor di «Spectre» – Ashley Smith – ha fatto al giornalista sportivo socialista Dave Zirin, riguardo allo sciopero dell’NBA che ha fermato i playoff della lega e si è esteso rapidamente tra gli altri sport professionisti e anche nello sport agonistico studentesco.

Zirin parla di cosa ha portato allo sciopero, dove può arrivare e le sue implicazioni per Black Lives Matter e per il movimento dei lavoratori. Dave Zirin è il redattore sportivo della storica testata della sinistra radicale statunitense «The Nation», nonché autore di una decina di libri sulla politica dello sport.

Buona lettura.

P.s. In copertina Colin Kaepernick, il quarterback che ha dato il via al rito dell'”inginocchiarsi” in onore ai neri uccisi dalla polizia.

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A.S.: Abbiamo appena visto qualcosa di storico – uno sciopero politico portato avanti da giocatori neri di basket che ne ha scatenati altri in numerosi settori sportivi. Perché l’hanno chiamato boicottaggio e non sciopero? Cosa ha portato allo sciopero, come sono messe le cose ora e che impatto ha avuto sull’industria sportiva e più in generale?

D.Z.: Cominciamo dalla seconda parte. Cosa ha portato allo sciopero? Due questioni – la continua piaga della violenza razzista della polizia e il fatto che i giocatori dell’NBA si sentivano sempre più presi in giro dal continuare a giocare su un parquet su cui era scritto “Black Lives Matter”, senza però fare nulla per protestare contro la violenza poliziesca. Questa contraddizione pesava chiaramente su tanti giocatori, dopo la tentata esecuzione di Jacob Blake.

Molti hanno commentato dicendo di sentirsi come truffatori nell’avere quegli slogan dietro le loro magliette mentre continuavano a giocare come al solito. Tutti loro erano in questa “torre d’avorio” del Covid ad Orlando, sigillati ermeticamente da tutto per un paio di mesi, mentre le rivolte dilagavano nel paese. Questa specie di “bolla” è una parte importante della storia.

I giocatori dell’NBA sono in questa condizione di “isolamento” insieme a quelle della WNBA, che abbiamo spesso riconosciuto di aver sempre cercato di far conoscere problemi sociali. Sono tutti in un’atmosfera da dormitorio. Sono intrappolati dentro, provando tanta noia durante lunghi periodi di fermo. Non vanno a casa dalle loro famiglie.

La tensione è stata molto alta perché ai giocatori manca casa. Sono stanchi di mangiare cibo da schifo in hotel. Ma allo stesso tempo stanno subendo una profonda politicizzazione. Fanno discorsi tra loro che altrimenti non avrebbero mai fatto.

Tutto questo si stava costruendo anche prima che la polizia sparasse a Jacob Blake alla schiena, sette volte, a Kenosha. L’atto di brutalità poliziesca ha portato i giocatori a scioperare, ma con sorpresa di molti ha strabordato in tutta l’industria sportiva.

L’NBA e la WNBA hanno guidato il tutto perché sono leghe dominate da atleti neri che hanno una gran quantità di influenza per via della propria storia, delle idee politiche e dell’abilità di comunicare a una larga fetta di pubblico.

Ma la cosa fantastica è vedere uno sport convenzionale come il baseball scioperare; e poi giocatori di hockey – già l’hockey – aggregarsi. Ma la cosa non riguarda solo i giocatori. Gli arbitri hanno organizzato una marcia durante durante l’Orlando Bubble. Gli allenatori si sono uniti.

Tutto questo fa riempire il cuore ed è un colpo potente contro razzismo e violenza poliziesca. Inoltre, riaggiusta le dinamiche di potere interne a questi sport.

Ora il genio è fuori dalla lampada. I giocatori ora mostrano le loro pretese ai loro capi miliardari nel fargli dire qualcosa, prendere provvedimenti e li costringono ad acconsentire. Tutto questo rivela quanto potere i giocatori hanno come lavoratori nell’NBA.

Le giocatrici della WNBA lo sanno da tempo e hanno già esercitato il loro potere. Ma per giocatori di altri sport, questa è una rivelazione assoluta.

Ora, perché è stato chiamato boicottaggio? Questo termine è uscito fuori per bocca dei media sportivi. I giocatori non l’hanno usato; hanno semplicemente detto “Noi non giochiamo, ce ne stiamo nello spogliatoio”. I media sportivi hanno messo come etichetta “boicottaggio” a quello che i giocatori hanno fatto perché non hanno alcuna relazione con il movimento dei lavoratori e quindi non hanno nessuna capacità di capire le differenze fra boicottaggio e sciopero.

Un boicottaggio si ha quando un consumatore decide di non usare il proprio d’acquisto come dichiarazione politica. Questo non è quello che sta avvenendo nell’industria sportiva. Questo è rifiuto del lavoro ed ecco perché “sciopero” non è solo il termine appropriato ma è anche politicamente importante per descriverlo correttamente. Mette quel che i giocatori hanno fatto e stanno facendo nel contesto delle lotte dei lavoratori.

A.S.; Lo sciopero è un avanzamento qualitativo rispetto a quando Colin Kaepernick cominciò mettendosi in ginocchio. Quando ha cominciato, solo pochi giocatori stavano con lui. Per via del suo isolamento, è stato diffamato da tutto l’establishment ed è stato emarginato dall’NFL da quel momento in poi. Cosa è cambiato negli sport, tra i suoi elementi più radicali e i loro giri, e più in generale nella società che ha dato ai giocatori la determinazione e il coraggio di scioperare?

D.Z.: È interessante paragonare Colin Kaepernick a Muhammad Ali. Si sono immolati quando pochi altri l’hanno fatto. Inizialmente, entrambi sono stati diffamati. Kaepernick è stato visto come ammonimento per il prezzo da pagare se prendi una posizione – ti licenziano.

Ora che molti hanno preso parte alla lotta, è visto come un eroe, un apripista profetico. E non solo i giocatori. Ora perfino l’alta burocrazia dell’NFL – incluso Roger Goodell – ha dovuto ammettere che quel che hanno fatto a Kaepernick è stato ingiusto.

Bada bene, Kaepernick l’ha fatto nell’agosto 2016, in un momento in cui l’idea di Donald Trump come presidente era ancora vista come una scommessa. Quattro anni di Trump hanno dimostrato che questo paese ha certamente un problema di razzismo sistemico e che quindi Kaepernick ha fatto bene ad agire e quel che ha fatto è stato un sacrificio eroico.

Questo si è cementificato nelle menti dei giocatori, specialmente i più giovani che hanno esordito durante il governo di Trump.

Il cambiamento nelle coscienze è drammatico. Ho ascoltato un’intervista in radio a Brandon Marshall, in cui confessa di vergognarsi di non essersi inginocchiato con Kaepernick. Ora abbiamo LeBron James che legge Malcolm X, Jaylen Brown che cita Angela Davis nelle interviste, e la giocatrice della WNBA Laysha Clarendion che descrive quel che ha imparato nel Programma di Studi Americani a Berkeley per guidarla nel suo attivismo e nel rispondere alle domande dei media.

Gli anni di Trump hanno politicizzato una nuova generazione di atleti. Sono coinvolti nelle lotte, leggono libri radicali, discutono tra loro come mai prima, e si mettono in azione come lavoratori.

Colin Kaepernick è arrivato prima di tutti, ma ora le persone lo stanno riprendendo e, con il loro sciopero, potenziando drammaticamente la lotta per la giustizia razziale.

A.S.: Tutto questo ha portato alla creazione di nuove organizzazioni all’interno o all’esterno dei sindacati dei giocatori? Che ruolo hanno nel fare avanzare la loro lotta?

D.Z.: Certo, ci sono dei gruppi informali. Non sono il tipo di organizzazione a cui sono abituate le persone che tendono verso l’attivismo – di quelli in cui la gente si incontra faccia a faccia, parla, cerca strategie come quella di costruire un gruppi di base.

Sono meno formali e più orizzontali. Ci sono chat di gruppo e conference call dove le persone si scambiano idee per l’azione. E ci sono organizzazioni quali Athletes for Impact, che fanno webinar per atleti sugli studi per la liberazione nera e la politica per i diritti civili. Questi sono stati molto popolari particolarmente durante la pandemia. Quindi, c’è sete di conoscenza.

Questi webinar hanno suscitato discussioni fra i giocatori e hanno aiutato a cominciare a sviluppare uno stile di lavoro comune e, nel caso dell’NBA e della WNBA, hanno contribuito a portarlo all’interno del sindacato in generale.

A.S.: Potresti parlarci un po’ di più del ruolo principale che hanno avuto le giocatrici della WNBA? Non ha lo stesso impatto mediatico degli uomini perché la loro lega ha un profilo più basso. Ma sono state in prima linea come le donne nere nel movimento Black Lives Matter. Che ruolo hanno avuto le donne?

D.Z.: Innanzitutto, ricordiamo due anni prima di Kaepernick ci fu la prima atleta che portò BLM a protestare contro l’inno nazionale nell’ambito sportivo. Si tratta di Ariyana Smith, una giocatrice di basket del Knox College. E prima che Kaepernick si inginocchiasse, le giocatrici della WNBA avevano cominciato mettendosi magliette nere sul parquet dopo che Alton Sterling e Philando Castile erano stati ammazzati.

Hanno continuato a protestare da lì in poi. Si sono messe a braccia conserte durante l’inno e hanno affermato di voler parlare ai media solo di liberazione nera e dei problemi del cosiddetto sistema di giustizia criminale nonostante quel che i giornalisti avrebbero chiesto loro.

Durante la ripartenza della stagione nell’Orlando Bubble, le relazioni tra i giocatori dell’NBA e della WNBA sono diventate più strette. Usano gli stessi parquet, escono negli stessi spazi, e fanno eventi promozionali insieme. Le giocatrici della WNBA hanno avuto un ruolo importante nella radicalizzazione degli atleti maschi. Infatti, non è un caso che anche i maschi hanno cominciato a chiedere giustizia per Breonna Taylor.

È importante ricordare che le agoniste della WNBA fanno esperienze nettamente diverse rispetto alle loro controparti maschili. Infatti, loro tendono a finire tutti e quattro gli anni di college e, nonostante riescano a laurearsi e a giocare professionalmente, sono costrette ad andare a giocare in campionati stranieri durante l’”off season” per guadagnare qualche soldo in più.

Questo è completamente diverso rispetto ai giocatori dell’NBA. La loro esperienza è professionalizzata sin dalle giovanili. Sono chiusi in una fabbrica di basket. Se sono fortunati, e molti non lo sono, tendono poi a fare uno e due anni di college e poi entrano direttamente nell’NBA. Durante questo periodo, gli allenatori e gli agenti mettono i paraocchi ai giocatori, li tengono fissi sull’idea di farcela e li avvisano di non prendere nessun tipo di posizione.

Quindi, in un modo o nell’altro, le giocatrici della WNBA tendono ad avere una visione più ampia del mondo. Si sono organizzate per portare avanti diverse lotte di giustizie sociali, dall’aborto e l’uguaglianza LGBTQ a Black Lives Matter.

Si sono anche scontrare con questa terribile senatrice repubblicana, Kelly Loffler, che ha in mano le Atlanta Dream ed è reazionaria convinta e pro-Trump. Le hanno detto che lei non appartiene alla loro lega. Tutto il loro attivismo ha avuto un effetto catalitico sui giocatori dell’NBA.

A.S.: Una delle cose più evidenti è stata la partecipazione di atleti bianchi nella lotta. Kareem Abdul-Jabbar ha chiesto particolare attenzione a questo aspetto nel suo articolo sul Guardian. Parlaci del significato della solidarietà multirazziale nello sciopero, perfino in quegli sport dove tendono a esserci pochi atleti di colore, come ad esempio l’hockey e il calcio. Che cosa comporta questo per le organizzazioni anti-razziste e per i sindacati dei giocatori?

D.Z.: Penso sia uno straordinario riflesso di quel che abbiamo visto accadere nelle strade sin dall’uccisione di George Floyd. Abbiamo visto manifestazioni in tutti i 50 stati, tra i quali alcuni proporzionalmente molto bianchi quali l’idaho, il Wyoming. Ho letto la storia di una protesta avvenuta in una città in cui c’era solo un residente nero, ma in cui decine di persone bianche che scendevano in piazza.

Solo oggi stavo guidando e ho trovato ad un angolo una ventina di persone bianche con scritte tipo “white silence is violence”. Una delle mie preferite diceva “if my feminism isn’t intersectional, then my feminism is bullshit.” Ho dovuto rallentare la mia macchina per leggerlo!

Black Lives Matter ha cambiato le persone, inclusi gli atleti bianchi. Un esempio è Josh Hader, dei Milwaukee Brewer. È un pitcher superlativo. Fu quasi espulso dalla lega nel 2018 quando furono rinvenuti dei suoi tweet razzisti risalenti al 2011. Dopo questo ha fatto un giro di scuse, ma non tutti pensarono fosse sincero.

Dopo che la polizia ha sparato a Jacob Blake a Kenosha, distante solo 45 minuti da Milwaukee, Hader è stato al centro dicendo “noi non giocheremo”. È stata la prima persona dei Brewers a prendere il microfono e a portare la squadra a scioperare. La sua trasformazione dimostra che la lotta cambia le persone.

L’altro sport fatto perlopiù da bianchi di cui dobbiamo parlare è l’hockey, che ha una storia di razzismo. Così, non appena l’NBA e altri hanno decretato lo sciopero, agli allenatori e ai manager dell’NHL è stato chiesto “perché anche voi non vi aggregate all’azione?

Hanno risposto “Beh, non sappiamo neanche cosa stia succedendo a Kenosha. Non c’interessa neanche. Che c’entra con tutto il nostro mondo?”. Ma al contrario i giocatori hanno reagito con talmente tanta rabbia da portare alla cancellazione da parte della lega delle partite della play-off di Stanley Cup.

A.S.: Che impatto ha avuto lo sciopero nello sport internazionale? Una cosa che si è mostrata palesemente dall’uccisione di George Floyd è la natura internazionale delle proteste; le persone hanno marciato in massa in ogni parte del globo. Ci sono stati sviluppi simili nell’ampio mondo degli sport?

D.Z.: Certamente. I giocatori hanno indossato magliette e si sono inginocchiati nel mondo del rugby e del calcio. Non sono sicuro riguardo il cricket! Quindi dilaga nel mondo così il movimento più generale. Non solo al corrente in questo momento di alcuno sciopero avvenuto.

È interessante pensare alla questione del carattere internazionale della lotta contro il razzismo nel mondo degli sport e in generale. Stavo intervistando il grande atleta NBA degli anni ’80 e ’90, nonché attivista, Craig Hodges. Gira attorno ai Milwaukee Bucks e si è impressionato di fronte alla figura di Giannis Antetokounmpo, cresciuto in Grecia.

Hodges ha evidenziato quanto è importante la questione del razzismo nel mondo. Giannis Antetokounmpo e la sua famiglia hanno avuto a che fare con la destra fascista in Grecia. Molti atleti hanno a che fare con minacce e razzismo nel mondo, specialmente nel calcio europeo. Quindi, questo non riguarda la solidarietà; i giocatori nel mondo hanno tutto da guadagnare in questa lotta.

A.S.: Tornando agli Stati Uniti, penso che questo sia il primo sciopero politico per la giustizia razziale dall’uccisione di George Floyd. Sicuramente, è lo sciopero politico di profilo più elevato fatto di recente. Ma accade tra i lavoratori meglio pagati e meno rimpiazzabili nell’industria sportiva. Che potenziale ha per dilagare tra i lavoratori non pagati dell’atletica scolastica e dei college?

D.Z.: Innanzitutto, ricordiamo che, l’anno prima che Kaepernick s’inginocchiasse, gli atleti della University of Missouri hanno scioperato, rifiutato il loro lavoro per via del razzismo. Hanno scioperato chiedendo il licenziamento del rettore, e hanno vinto, quando Tim Wolfe ha dato le dimissioni. Quindi, esiste un precedente riguardo gli scioperi fra i lavoratori non pagati.

Ma penso sia importante riconoscere le contraddizioni in cui questi atleti si ritrovano. I giocatori del college negli sport che producono profitto sono i lavoratori più potenti e allo stesso tempo i meno potenti di tutti. I meno potenti in quanto non hanno un sindacato e quindi un mezzo con cui possono contrattare collettivamente i termini del proprio sfruttamento. Ma anche i più potenti in quanto molti dei campus neo-liberisti moderni dipendono dai profitti del loro lavoro.

Ecco perché il rettore della University of Missouri è stato cacciato via così facilmente. Lo sciopero del team di football sarebbe venuto a costare 1 milione di dollari alla settimana. Con interessi così alti, il team di football è riuscito a mandare via immediatamente il rettore, mentre settimane di proteste erano arrivate a poco. Questo mostra il potere dello sciopero.

È difficile capire come andranno le cose questo autunno perché il Covid ha fatto cancellare le partite di diverse leghe importanti. Ma, per mostrare ciò che potrebbe accadere, atleti neri nei BIG 10 e nel PAC 12 si sono organizzati quest’estate dopo l’omicidio di George Floyd. Hanno mostrato le loro richieste, che partono dal paragone tra il Covid e la violenza poliziesca, due forze che mettono le loro vite a rischio.

Ma ora le loro leghe sono chiuse, per cui non vedremo nessuno sciopero questo autunno. Ma in altri campionati, abbiamo visto delle azioni. Ad esempio, il Boston College – uno dei più conservatori del paese – ha cancellato i propri allenamenti di football in solidarietà alle proteste in svolgimento.

A.S.: E l’NFL? Molti dei boss dell’NFL sono allineati con Trump e hanno bandito Colin Kaepernick dalla lega. Stavano già cercando di smarcarsi alla vigilia delle proteste dopo l’uccisione di George Floyd. C’è quel “proprietario che non deve essere nominato” dei Dallas Cowboys che pubblica dichiarazioni confusionarie. Ora la lega dovrebbe ricominciare a giocare. Cosa accadrà nell’NFL?

Beh, quel “proprietario che non deve essere nominato” ha appena fatto una conferenza alla stampa, parlando di come lui e il suo team vogliono essere una parte della soluzione al razzismo. Tu dici che i boss dell’NFL si stavano smarcando; in realtà stavano praticamente tremando. Mentre sono alleati con Trump, sono allo stesso tempo dipendenti dal lavoro dei neri. E quei lavoratori neri, che rappresentano il 70% dei giocatori, sono arrabbiati.

I boss dell’NFL sono disperati nel capire come governare questa contraddizione. Quindi, i Baltimore Ravens hanno fatto uscire una loro dichiarazione dopo 4 ore di incontri tra i giocatori e la dirigenza. La dichiarazione dei Ravens affermava, su carta intestata del team, che il paese è fondato sulla schiavitù ed è malato di razzismo istituzionale.

Fammi chiarire, questo non viene né dai giocatori, né dal sindacato, ma da una corporazione, i Baltimore Ravens. Continuano chiedendo l’arresto dei poliziotti nei casi di Breonna Taylor e Jacob Blake ed esortano il senatore repubblicano Mitch McConnell a portare a votazione il George Floyd Police Reform Act. E, come stanno facendo i team dell’NBA, i Ravens apriranno il proprio stadio come luogo dove le persone possono andare per votare con uno spazio ampio per mantenere la distanza sociale.

Penso che ci saranno più dichiarazioni simili a quella dei Ravens. Faranno di tutto pur di scongiurare lo sciopero nell’NFL. Chissà cosa succederà? Quando a Russell Wilson dei Seahawks – non esattamente un radicale – è stato chiesto se giocherà, lui ha risposto “Assolutamente no. Non giocherò certamente con tutto quel che sta accandendo”.

Ma non è esattamente chiaro se i boss dell’NFL saranno bravi nel calmare i giocatori. Perché? Perché la questione è sempre la stessa di chiunque altro nel movimento, cosa accadrà con la polizia? Non ci sono segni che essa fermerà il suo regno di terrore. Se i poliziotti non smetteranno di commettere brutalità ed eccidi, non è fuori dal reame delle possibilità che i giocatori dell’NFL possano scioperare.

A.S.: Un’altra domanda sugli sport prima di passare sull’importanza generale dello sciopero dell’NBA per il movimento dei lavoratori. Sono rimasto colpito dal passaggio degli ultimi dieci anni nei media sportivi da un linguaggio sottilmente razzista ad un vero e proprio dibattito continuo riguardo il razzismo nella società americana. Questo è culminato in uno dei momenti più sbalorditivi che abbia mai visto in TV – Kenny Smith che si toglie il microfono e se ne va del set durante la diretta di una partita in solidarietà ad un giocatore in sciopero politico contro il razzismo. Che impatto sta avendo lo sciopero NBA tramite i media nella coscienza collettiva?

D.Z.: Beh, ai media piace che la nostra società sia polarizzata, A differenza di dieci anni fa, quando, come dicevi, si trattava di razzismo sottile, tanto jock talk, tanto di quelle che io chiamerei “calorie vuote”, ora il discorso è polarizzato. Ci sono ora media sportivi di destra intrisi di razzismo.

Il nostro lato dei media sportivi sta andando verso un processo di politicizzazione di sinistra. Si sta discutendo di razzismo, di sciopero e di come tutto questo potrebbe dilagare presso altre industrie. Stanno ponendosi domande su come trasformare la società e che ruolo possono avere gli atleti in questa lotta. Molte persone nei media sportivi si sono politicizzate semplicemente seguendo il movimento tramite i giocatori.

I media sportivi, specialmente la radio, si oppone naturalmente, quando si parla se quel giocatore debba o non debba giocare o se quell’allenatore debba o non debba essere licenziato. Quindi, devono per forza prendere posizione a favore o contro lo sciopero. La domanda è diventata which side are you?

Non possono semplicemente andare in radio e dare una descrizione soffice di quel che sta accadendo. Ce l’hanno davvero un’opinione al riguardo. Tutto questo lo costringe a schierarsi. Un po’ di tutto ciò è brutto e un po’ è bello, veramente bello.

Kenny Smith ne è un esempio. Ma all’inizio ho pensato “Oh no! Non andartene Kenny!” Perché? Perché è ottimo politicamente. Ma è sul set con Charles Barkley, che ha detto cose incredibilmente di destra contro Black Lives Matter, e Shaquille O’Neil, che è uno sceriffo di complemento. Quindi, c’era una parte che diceva “Kenny rimani sul set in modo che Charles e Shaq non possano dominare la discussione”.

Allo stesso tempo, Kenny che se ne va è un evento potente che rimarrà scolpito nel tempo. È stato fantastico. Ma penso che la cosa più importante sui media sia stata Chris Webber. Ha parlato con la sua voce piena di lacrime dicendo “Non puoi semplicemente dire di votare, votare, votare alle comunità marginalizzate senza parlare del razzismo istituzionale e dell’impunità poliziesca.

Penso che sia stato veramente potente perché tanta lotta, e quindi anche lo sciopero stesso, viene diretto verso l’elezione di candidati che non si pongono contro quei problemi sistemici. Chris Webber stava parlando per quel 50% di popolazione che non vota perché non lo vede come un mezzo per cambiare le cose.

Ha parlato per tutte quelle persone che non hanno un microfono attraverso cui parlare per loro stesse. È stata la voce dei senza voce quando ha parlato del vuoto delle parole con cui si richiamano le persone a votare se non si affronta davvero il problema della povertà, se non si affronta davvero il problema del razzismo.

A.S.: Quel che hai detto è così importante. Penso che questa rivolta abbia fatto di più nel cambiare la coscienza e la consapevolezza nelle strutture dell’ineguaglianza razziale e di classe nella nostra società di ogni altra cosa nella memoria recente. E penso che nella politica elettorale, il ruolo della lotta venga lasciato in disparte. Come pensi che questa nuova ondata di lotta abbia cambiato la politica nella nostra società?

D.Z.: Ha cambiato la coscienza in modo fondamentale. Abbiamo avuto manifestazioni in tutti i 50 stati – il più grande numero di proteste e il più alto numero di manifestanti nella storia. Ma non abbiamo visto per nulla cambiamenti fondamentali.

Quindi, quando queste proteste non portano il reale frutto del sacrificio, particolarmente nel contesto [della crisi] del Covid che le persone stanno portando per strada, crea non solo una profondissima frustrazione, ma anche un bisogno nelle persone di trovare delle risposte.

So che molte persone hanno pensato che, nel momento in cui c’erano città messe a ferro e fuoco, quella fosse la risposta. Ma questo non vuol dire strappare riforme dal sistema. Peggio ancora, ha portato una ritorsione violenta da parte della polizia e delle milizie fasciste. Così, le persone hanno riconosciuto la necessità di adottare strategie migliori.

Penso che scioperando i giocatori abbiano mostrato quale sia l’alternativa migliore. Dobbiamo capire che, come mi ha detto Craig Hodges, “non si può militarizzare la cultura più militarizzata al mondo”, ma dobbiamo rifiutare il nostro lavoro e portare questo sistema ad uno stop, così come questi atleti sono riusciti a far fermare le proprie leghe.

A.S.: In questo contesto, non possiamo non paragonare queste rivolte di atleti neri alle ultime di questo genere negli anni 60. Quali differenze e similitudini esistono tra le due secondo te?

D.Z.: La più grande differenze fra le due riguarda il fatto che i grandi atleti ribelli degli ultimi anni 60 erano sportivi individuali, come Muhammad Ali nella boxe, John Carlos e Tommie Smith nella corsa, e Arthur Ashe e Billie Jean King nel tennis. Quella generazione di atleti non era in sport a squadre e quelli che lo erano non hanno mai organizzato la propria squadra nell’agire.

Oggi è molto differente. Abbiamo visto negli anni una forte espansione di sport a squadre e i giocatori più radicali stanno organizzando le proprie squadre nell’azione. Stanno portando con sé giocatori che altrimenti non sarebbero proprio radicali. Fanno pressione su pressione ai marginali che pensano di essere fuori dalla realtà e hanno bisogno di rimettere apposto la propria vita. Cominciano a dire a se stessi “Sai che c’è, non posso essere la persona più razzista del gruppo!

Un’altra differenza è il potere dei social media. Negli anni 60, gli atleti radicali avevano un vero e proprio problema nel cercare di portare avanti il proprio messaggio. Non potevano “messaggiare” nessuno. Non avevano Facebook, Twitter e Instagram. Cioè, quante telefonate potevano realisticamente fare al giorno?

Soprattutto, i giornalisti non erano realmente empatici e potevano distorcere a proprio piacimento tutto quello che dicevi e demonizzarti. C’erano solo pochi giornalisti sportivi di sinistra. Immagina se Muhammad Ali non avesse avuto Howard Cosell! E c’era solo un Howard Cosell, che non era a disposizione di molti.

Oggi, i giocatori usano i social media per portare avanti il proprio messaggio velocemente, evitando il filtro dei media sportivi. Possono far girare la propria storia al tocco di un bottone ai propri compagni di squadra, ad altri sportivi e al pubblico.

Finalmente, questa nuova generazione di atleti è pronta a far innervosire l’industria sportiva più di qualunque altro atleta degli anni ’60 possa aver mai fatto.

Sono stanchi di essere adorati sul campo quando giocano ed essere ignorati quando ne stanno fuori. Siamo arrivati ad una generazione di atleti che sono stanchi di dover sbattere contro questa contraddizione e invece si organizzano per oltrepassarla.

A.S.: La cosa fantastica è quanto supporto esiste per questa nuova militanza. Un sondaggio di YouGov ha sottolineato che il 57% degli americani sostiene lo sciopero dei Milwaukee Bucks. In tanti modi, gli atleti neri stanno guidando il movimento dei lavoratori nella lotta contro il razzismo. Quanto conta il loro sciopero per il movimento dei lavoratori più ampio? Si muoveranno gli altri sindacati e federazioni di sindacati?

D.Z.: Sono cauto nel fare previsioni in questo momento. C’è una forte pressione per sussumere queste lotte. Le organizzazioni vogliono far smettere gli scioperi così pubblicano dichiarazioni come quella dei Baltimore Ravens. Obama è intervenuto nella situazione dei giocatori dell’NBA, quando pensavano di poter chiudere la stagione, e ha consigliato loro di tornare al lavoro, focalizzarsi sull’elettoralismo e mettere su un comitato di giustizia sociale.

Quindi, il capitale vede quanto è pericoloso tutto questo per l’ordine stabilito delle cose e si sbriga ad intervenire, cercando di portare la situazione alla moderazione, in un momento in cui la moderazione non farà sparire magicamente i problemi. Detto questo, se qualcuno mi avesse detto che squadre di hockey e baseball avessero scioperato contro il razzismo, avrei risposto che era pazzo.

Cioè, solo una settimana fa, i commentatori di baseball stavano discutendo sul fatto che i giocatori non dovrebbero hit a grand slam nel nono inning perché è contro il modo in cui le cose si fanno in questo sport. E poi i giocatori scioperano! Quindi, chissà cosa potrà succedere?

Penso davvero che lo sciopero sia stato un bastone elettrico per larghe fette di movimento. Ricevevo addirittura telefonate, durante la notte in cui è accaduto, da lavoratori organizzati che mi chiedevano come arrivare a Chris Paul o Andre Iguodala.

Alcuni parlavano di organizzare un più grande sciopero contro il razzismo, che sembrava assolutamente folle prima. Ora, nulla di questo può accadere, per via del conservatorismo dei vertici sindacali e la mancanza di organizzazioni di quadri, ma quello di cui si sta parlando è significativo.

Pone un altro tipo di soluzione ai problemi che ci stiamo ponendo – che i lavoratori che scioperano hanno il potenziale di mettere a posto una società che è fondamentalmente rotta.

Questo è un nuovo sviluppo di significato rivoluzionario. Perché, a dire la verità, il movimento dei lavoratori non è stata una vera e propria forza contro Trump e all’interno di Black Lives Matter. Certo, ci sono eccezioni, ma in questo momento critico della storia i lavoratori sono stati letargici.

Quel che i giocatori stanno dicendo alle organizzazioni sindacali e agli operai è “non deve essere per forza così”. Dalla mia esperienza aneddotica, ha portato un brivido lungo le schiene di persone nel movimento operaio, tra cui insegnanti, postini e infermieri.

Ci sono stati conflitti e scioperi durante il Covid, ma sono stati scioperi per la sopravvivenza. Lo sciopero degli atleti è stato differente: è stato per la sopravvivenza di qualcun altro, un membro della propria famiglia o di un compagno di sindacato. Ha sottolineato l’idea che i sindacati possano usare il proprio potere per cambiare la società.

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