Vedere quel che sta cambiando nel mondo, senza illusioni e con la testa ben aperta, è la premessa indispensabile per poter agire in modo razionale. Specie in politica, dove il calcolo è sempre difficile, se non aleatorio, ma purtuttavia indispensabile. Pena il dondolare come fessi tra un fatto e un’aspettativa improbabile.
La cornice globale, nelle analisi politiche, è spesso lasciata alla fantasia, magari con inconsce “assunzioni” delle pillole avvelenate rilasciate dai Tg mainstream. Eppure è in quella cornice che tutte i nostri atti, foss’anche il più innocuo e solo “sociale”, vanno collocati. Per l’ora e per il futuro.
Usa e Cina sono i colossi che dominano la scena. Il primo viene da 75 anni di egemonia mondiale, trionfante nella lunga “guerra fredda” con l’Unione Sovietica e poi, per un paio di decenni, persuaso che “la Storia fosse finita”.
Oggi appare decisamente barcollante. Un’epidemia intenzionalmente “minimizzata” da un presidente che non è uno statista, quasi 6 milioni e mezzo di contagiati e quasi 200.000 morti finora. Un’economia che si regge sulla finanza di Wall Street e un apparato militare-industriale che perde velocemente la sua superiorità tecnologica (i miti F35 corrono rischi a volare quando piove…), tanto da far sembrare una patetica fanfaronata di Trump “l’arma fine di mondo” sussurrata all’orecchio di Bob Woodward.
E poi: oltre 100 milioni di disoccupati (su 250 milioni in età da lavoro), tensioni razziali e politiche esplose nelle piazze anche con sparatorie frequenti, oltre alla solita follia omicida della polizia.
E non sembra una causalità che un presidente che ha sempre negato il cambiamento climatico si ritrove un Paese non metaforicamente in fiamme, con incendi così colossali da cancellare intere città e mettere in ginocchio la california, da sola considerata la sesta economia del pianeta.
Questo Paese barcollante ha avviato – o contribuito ad avviare – lo “sganciamento” (decoupling) tra il proprio sistema economico-finanziario-tecnologico e quello cinese. Ha insomma messo volontariamente fine all’era della cosiddetta “globalizzazione”, da cui aveva tratto il massimo vantaggio (dare dollari stampati a volontà in cambio merci fisiche e non, sembrava il paradiso) al prezzo però di una deindustrializzazione radicale.
Skid Row, con i suoi accampamenti di tende e sullo sfondo i grattacieli di Los Angeles, descrive sinteticamente lo stato delle cose.
E proprio sullo “sganciamento”, e sulle conseguenze (ogni “competizione” tra grandi potenze economiche è un’avvisaglia di guerra), si comincia ad addensare l’attenzione analitica dei giornalisti più attenti. Che magari hanno un’altra e opposta “impostazione teorica”, ma che certo non difettano di informazioni e della capacità di restituirle.
Consigliamo perciò la lettura di questo articolo di Gideon Rachman, apparso sul certo non secondario Financial Times.
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La separazione fra Usa e Cina è solo all’inizio
Quando una situazione a noi familiare e rassicurante cambia drammaticamente, l’istinto umano è portato a credere che le cose tornino presto alla normalità. L’idea che la vita possa essere cambiata in modo permanente è troppo destabilizzante per poterla sopportare.
Questa stessa impostazione è alla base della crisi da covid-19. Stiamo in effetti assistendo a qualcosa del genere, quando il mondo degli affari reagisce alla spirale discendente nelle relazioni fra USA e Cina. Dopo 40 anni di rapporti economici sempre più intensi fra Cina ed USA, è difficile immaginare una reale rottura di queste relazioni.
Molti dirigenti d’azienda credono che i politici che siedono a Washington e Pechino metteranno da parte le proprie differenze nel momento in cui si accorgeranno delle vere implicazioni di un eventuale “sganciamento” (decoupling), un allontanamento delle due più grandi economie mondiali.
La speranza è che un accordo commerciale stabilizzi le cose, anche se si dovrà aspettare fino alla fine delle elezioni presidenziali statunitensi. Ma è un progetto auspicabile ma poco praticabile.
La realtà è ben diversa: lo sganciamento per avvenire ha bisogno ancora di un buon lasso di tempo. E’ già evidente nel campo della tecnologia e nella finanza. Nel tempo, interesserà ogni grande settore industriale, da quello manifatturiero a quello dei beni di largo consumo. Tutte le multinazionali – anche quelle con sede in Europa – ne saranno interessate, mentre tenteranno di orientarsi fra filiere sottosopra, nel caos, e cambiamenti nel panorama delle leggi americana e cinese.
Questo processo viene spinto da un mutamento fondamentale: il modo in cui entrambi i Paesi vedono le loro relazioni. Negli ultimi quarant’anni, la logica del business ha prevalso sulla competizione strategica. Ma ora siamo in un mondo totalmente nuovo, in cui la competizione politica bypassa gli interessi economici. Anche per un Presidente degli Stati Uniti che si vanta di essere un gran dealmaker.
Quando Donald Trump fu informato che il suo nuovo ordine – forzare le compagnie americane a tagliare i legami con l’applicazione di messaggistica cinese WeChat – avrebbe danneggiato le vendite americane in Cina, la sua risposta fu: “non importa”.
Questa non è solo una follia in stile Trumpiano. A Washington oramai il consenso a comportarsi come bulli nei confronti della Cina è bipartisan, anche se andasse a ledere gli utili societari. E infatti a maggio in Senato è passato all’unanimità un provvedimento che avrebbe imposto alle compagnie cinesi di essere escluse dalle quotazioni di borsa se non avessero aperto i propri libri contabili agli organi di vigilanza americani.
Al momento anche a Pechino l’imperativo politico per esercitare la propria sovranità è di annullare gli incentivi commerciali al fine di evitare ogni confronto con gli USA, il più grande mercato d’esportazioni della Cina. Da quando, nel 2012, il Presidente Xi Jinping è salito al potere, la Cina ha costruito basi militari ovunque nel Mar Cinese Meridionale, ha messo fine all’autonomia di Hong Kong ed imprigionato milioni di Uiguri musulmani nello Xinjiang. Inoltre i rischi militari nei confronti di Taiwan stanno diventando via via più evidenti. Entrambe le parti accusano l’altra di voler iniziare le ostilità. Questo il quadro generale.
I cinesi puntano il dito sull’imposizione unilaterale dei dazi voluta da Trump. Gli USA rispondono che Google e Facebook in Cina furono bloccati per più di dieci anni, prima che gli Stati Uniti potessero prendere seri provvedimenti contro le compagnie hi-tech Huawey e ByteDance.
Chiunque abbia sparato per primo, oramai entrambe le parti sono bloccate in una logica ritorsiva: se gli USA prendono maggiori misure contro WeChat o Huawey, Pechino verosimilmente risponderebbe con una serie di misure ancora più restrittive nei confronti delle compagnie hi-tech americane in Cina. Così, mentre le tensioni politiche aumentano, i maggiori brand a stelle e strisce si rendono sensibilmente più vulnerabili ai boicottaggi di un mercato cinese generalmente pubblico e più nazionalistico.
Potenzialmente sono brutte notizie per dei brand americani di alto profilo come Starbucks o la NBA (National Basketball League), ma, emozioni a parte, questa separazione fra i due Paesi è accompagnata anche da nuove valutazioni di rischio. La vulnerabilità delle compagnie cinesi, incluse ZTE e Huawey ed il divieto di montare microchip di produzione americana sui propri computer, ha accelerato la corsa a diventare autosufficienti nelle tecnologie-chiave. Anche le compagnie americane stanno giocando sul sicuro: Apple, che ha costruito il suo business sulla manifattura cinese, sta producendo il suo ultimo modello di iPhone in India, così come la Cina.
Il campo del conflitto però si continua a spostare; quello emergente ora è il campo della finanza e degli istituti bancari.
Negli ultimi dieci anni, gli USA hanno distribuito sanzioni nei confronti di decine di Paesi “canaglia”, inclusi Venezuela ed Iran, spesso con effetti devastanti. Ora è arrivato il momento di usare questo strumento nella lotta contro la Cina.
Per effetto della chiusura degli USA ai mercati finanziari alcuni funzionari governativi di Hong Kong e dello Xinjiang sono stati colpiti da sanzioni importanti e, data la centralità del dollaro nel mercato globale, le banche internazionali sono state estremamente caute nel violarle.
Quello è un rischio gestibile, proprio perché circoscritto a pochissimi singoli ma, cosa succederebbe se e quando sanzioni finanziarie del genere fossero applicate alle maggiori compagnie cinesi? Le banche di Wall Street, che si sono ricoperte d’oro quando hanno iniziato a far quotare in borsa le società cinesi di New York, ipotizzano di spostare le compagnie verso i mercati di Hong Kong se, nonostante il divieto, dovessero venire prodotte altre “liste di proscrizione”.
Questo vorrebbe dire confidare sulla tolleranza di entrambi i governi, quello americano e quello cinese, ma nessuno dei due può garantire questa tolleranza indispensabile. E’ del tutto improbabile che le società ed i Paesi europei o del sudest asiatico riescano a rimanere a “bordo campo”.
La decisione della Gran Bretagna di aprire il mercato delle telecomunicazioni al 5G di Huawey – scontrandosi di fatto con gli USA – è la prova che questo teorema non è sostenibile. HSBC (uno dei più grandi gruppi bancari del mondo, è il primo istituto di credito europeo per capitalizzazione con 157,2 miliardi di euro. La sua sede si trova nella HSBC Tower (nei Docklands di Londra N.d.T.) con sede in GB e realizza l’80% dei suoi profitti in Asia, ma è stato trascinato in questa faida a causa del suo ruolo di testimone nel processo contro Meng Wanzhou, direttore finanziario della Huawey.
Il mondo dei grandi affari vuole rimanere neutrale nella emergente guerra fredda fra USA e Cina. Ma potrebbe dimostrarsi impossibile. Gli ultimi 40 anni della storia del mondo sono stati costruiti intorno alla globalizzazione ed al riavvicinamento tra Cina ed USA. Ma quel mondo sta scomparendo velocemente.
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