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Donald Trump, l’eredità di Obama e la pericolosità dell’America

A quanto pare, per uscire dala claustrofobica lettura delle vicende americane preponderante in Italia, basta attraversare la frontiera più vicina. Rispetto allo sciocchezzaio perbenista propalato da Repubblica, Corriere della Sera, telegiornali e talk show a reti unificate, basta anche la tv Svizzera di stato (Rsi, in versione italiana da Lugano) per leggere qualcosa di più serio e meno eticamente catastrofico.

Il problema vero da analizzare, come andiamo ripetendo da giorni, non è il colore della cravatta, il ciuffo posticcio, l'aggressività sessista, il circo barnum di nazi-razzisti che lo circonda o l'eloquio inascoltabile del "presidente neoeletto". Tutto questo è così semplice da vedere – trattenendo conati di vomito – che in pratica non c'è nulla di serio da pensare. E' invece decisivo capire il punto critico cui è giunta l'evoluzione della società statunitense, la sua crisi di egemonia ampiamente visibile durante le ultime presidenze (sia Bush che Obama, che pure hanno avuto fortune di stampa molto diverse), lo scricchiolio sempre più forte nella struttura dell'"ordine mondiale" delineato nel secondo dopoguerra.

Accenni in questo senso ne abbiamo trovati nell'articolo svizzero che qui vi proponiamo. Approfondendo, da materialisti, se ne potrebbero ricavare spunti di riflessione interessanti… Tanto più che lo stesso Dario Fabbri, a botta calda, aveva fornito un'analisi decisamente più convincente della  "sorprendente" vittoria del mega-palazzinaro newyorkese.

Fossimo in voi, faremmo caso ai titoli: "pericolosa" è l'America, chiunque la comandi…

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Donald Trump costituisce un pericolo per il mondo? E’ questa la domanda che, ad una settimana dalla sua vittoria nelle presidenziali americane, rimane maggiormente frequente tra le élites e l’opinione pubblica internazionale. Da più parti ci si interroga se l’apparente volontà del presidente eletto di stravolgere l’approccio americano nei confronti del globo non produrrà effetti assai negativi, se non addirittura catastrofici. Sopravvalutando i poteri di cui dispone la Casa Bianca, misconoscendo la capacità della superpotenza di rimanere impero e ignorando gli evidenti tratti di continuità con l’amministrazione Obama.

Stando ai proclami della campagna elettorale, Trump ha intenzione di aumentare il disimpegno degli Stati Uniti dagli affari internazionali. A suo avviso Washington dovrebbe concentrarsi sulle questioni domestiche e lasciare alle potenze regionali l’incombenza di risolvere militarmente o diplomaticamente le dispute regionali. L’America dovrebbe intervenire soltanto se può trarne un beneficio commerciale e in favore di quelle nazioni che stanziano per la difesa una quota accettabile del loro pil. Scendere a patti con la Russia significherebbe usare il rivale in funzione anti-cinese, oltre che appaltare al Cremlino gran parte della lotta al terrorismo. Con l’intenzione di risparmiare i costi legati al contenimento di Mosca e proseguire il ritiro dal Medio Oriente. Mentre la minaccia di applicare notevoli dazi alle importazioni cinesi o giapponesi dovrebbe rilanciare la manifattura statunitense, la cui parziale scomparsa ha innescato il moto di protesta che ha condotto Trump alla Casa Bianca. Come l’abbandono dei trattati commerciali dovrebbe servire a proteggere l’economia nazionale, in una sorta di sbandierato protezionismo.

Tuttavia il presidente americano non è un imperatore e i suoi poteri sono molto limitati. Trump non sarebbe in grado di realizzare unilateralmente nessuna delle promesse sopraelencate. Avrà piuttosto bisogno del (tutt’altro che scontato) sostegno del Congresso, di gran lunga l’istituzione più potente del paese, e degli apparati (dipartimento di Stato, Pentagono, Cia etc.) che materialmente attuano la politica estera e commerciale. Anzi, come sempre capitato nella storia, sarà proprio lo Stato profondo a tramutare in imperiale l’approccio puramente mercantilistico della Casa Bianca. Giacché la dismissione del liberismo e della globalizzazione segnerebbe anche la fine della pax americana, ovvero del dominio statunitense sul globo, sviluppo negativo tanto per il presidente che per gli apparati.

Gli Stati Uniti proseguiranno nella loro fase di introversione, perché questo pretende la pancia del paese, colpita dagli effetti collaterali della globalizzazione e dall’inutilità delle campagne mediorientali del decennio scorso. Ma non rinnegheranno la loro natura imperiale, che prevede interventi all’estero per ragioni strategiche e non puramente commerciali. Così Washington continuerà a garantire (almeno virtualmente) la difesa del continente europeo, anzitutto per alimentarne la dipendenza dalla superpotenza, sebbene questo non comporti concreti benefici materiali. E continuerà a battersi per mantenere divise Berlino e Mosca, storico proposito della strategia americana, indipendentemente dalla volontà di Trump di annullare l’ostilità russo-americana. Anche la retorica protezionistica nei confronti della Cina si risolverà probabilmente nell’accusa ai danni di Pechino di manipolare lo yuan, ma non comporterà dazi elevati perché questo porrebbe in pericolo la tenuta del debito pubblico americano.

Di fatto la prossima amministrazione proseguirà nel solco segnato nell’era Obama, cui si aggiungerà la rinuncia a promuovere il libero commercio ed una narrazione maggiormente esplicita delle intenzioni americane (o meno sofisticata). Del resto lo stesso Obama nel 2009 promosse il reset con la Russia in ottica anti-cinese, per poi vederlo naufragare nel corso degli anni, e la ricerca di un minimalista equilibrio di potenza in Medio Oriente. Nel caso di Trump, piuttosto che interrogarsi sulla sua pericolosità, il mondo dovrebbe chiedersi se è preferibile avere a che fare con una superpotenza che interviene militarmente ovunque, come e quando vuole, oppure con una superpotenza che intende parzialmente ritrarsi dagli affari internazionali. Il nocciolo della questione è tutto qui.

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Dario Fabbri

9 novembre 2016

Le straordinarie implicazioni sociali e geopolitiche della vittoria di Trump

La notte elettorale americana ci consegna il ritorno preminente sulla scena politica americana (e dunque internazionale) della questione di classe. Piuttosto che i temi culturali o sessuali, su cui la Clinton ha incentrato la sua campagna elettorale, è stata la sofferenza reddituale della classe media, colpita dalla globalizzazione, a determinare la vittoria di Trump. Una rivalsa della dimensione materiale, che avrà notevoli implicazioni sul futuro dei due partiti d’America e sul dominio globale di Washington.

Concentrati soprattutto sui dati demografici (caratteristiche sessuali, anagrafiche, geografiche, razziali) i sondaggisti statunitensi hanno clamorosamente mancato il pronostico delle presidenziali. Fino a ieri sera tutti i rilevamenti (nessuno escluso) prevedevano la vittoria più o meno larga di Hillary Clinton. Estraneo ai calcoli dei pollster era l’elemento di classe, la rabbia della middle-class bianca nei confronti dell’establishment, accusato d’aver abbracciato la finanziarizzazione e la deindustrializzazione dell’economia a scapito del tenore di vita dei cittadini.

Come mai capitato nella storia degli Stati Uniti, l’appartenenza di classe ha trasceso qualsiasi altra ragione di voto ed indotto i membri del ceto medio-basso residenti negli Stati del Midwest a votare in favore di Trump, che delle loro istanze si è reso paladino. Così donne e molti giovani hanno scelto il magnate newyorkese in barba alle sue dichiarazioni sessiste o alla sua figura demodé. Perfino alcuni ispanici hanno preferito il candidato repubblicano per ragioni di classe, onde impedire alla Clinton (proposito teorico ma percepito come reale) di regolarizzare milioni di ispanici clandestini che potrebbero sottrarre loro i lavori più umili. 

Talmente potente la rappresaglia sociale da consentire a Trump di sovvertire alcune regole storiche della grammatica politica d’Oltreoceano. Anzitutto la necessità di costruire una formidabile macchina elettorale per introdurre potenziali simpatizzanti alla propria dialettica e convogliargli alle urne. Poi di infischiarsene dell’idiosincrasia dei suoi concittadini che non eleggevano un newyorkese alla Casa Bianca dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.

Quanto accaduto grava sulla tenuta dei due principali partiti d’America. Trump, come Bernie Sanders durante le primarie, hanno ricordato alla sinistra statunitense che le battaglie relative ai valori culturali (diritti dei gay; status delle coppie di fatto; ruolo della religione della società etc.) sono divenute di retroguardia, perché ormai (quasi) definitivamente vinte. E che le condizioni di vita della popolazione sono tornate di assoluta importanza. Un’evidenza che i democratici dovranno necessariamente comprendere, altrimenti neanche l’apertura nei confronti delle minoranze potrà salvarli in futuro dalla débâcle elettorale.

Quindi la richiesta da parte dei bianchi d’essere posti al riparo dalla globalizzazione, specie attraverso una moderata forma di protezionismo, potrebbe incidere sul dominio statunitense sul globo. Perché la globalizzazione è semplicemente un sinonimo di pax americana, ovvero del controllo assoluto delle vie marittime oceaniche da parte di Washington. Qualora la superpotenza ne respingesse l’esistenza determinerebbe la fine della propria supremazia planetaria, o comunque il suo ridimensionamento. Di fatto abdicando al ruolo di egemone. Per questo sarà dunque impellente per la prossima amministrazione conciliare le pretese anti-liberiste della popolazione con la natura imperiale del paese.

Nell’ambito di una manovra strategica quanto il risultato delle presidenziali americane.

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