“Essere un intellettuale è schierarsi con ciò che sconcerta l’ordine sociale, schierarsi con le forze che lo scardinano, contro gli intellettuali per i media”. Seconda parte dell’intervista a Frédéric Lordon
È da poco uscito nelle librerie “Police”, opera collettiva pubblicata dalla casa editrice La Fabrique, in cui viene analizzata, grazie ai contributi eterogenei dei diversi autori, la natura storica e sociale della polizia, il suo ruolo e le sue funzioni all’interno dell’attuale società capitalista, la “legittimità” della violenza, la “degenerazione” aggressiva e la fascistizzazione dei suoi agenti.
Partendo dalle enormi mobilitazioni di piazza degli ultimi anni in Francia – da quelle contro la Loi Travail fino al movimento dei Gilets Jaunes – e sull’onda lunga delle manifestazioni contro le violenze brutali e spesso letali (Geroge Floyd, Jacob Blake, Breonna Taylor, Dijon Kizzee, Deon Kay…) della polizia negli Stati Uniti, viene investigato a fondo lo stretto legame oggi vigente tra politiche neoliberiste, repressione del dissenso e controllo sociale.
Di seguito la traduzione della seconda parte dell’intervista ad uno degli autori, Frédéric Lordon, realizzata da Selim Derkaoui e Nicolas Framont per la “rivista indipendente di critica sociale per il grande pubblico” Frustration.
La prima parte dell’intervista si è concentrata sulla polizia, sulla sua “legittimità” e sulla questione della sua abolizione, di fronte alla repressione delle lotte economiche, politiche e sociali. In questa seconda parte, Lordon articola una riflessione sul concetto di “repubblica” e sul ruolo degli intellettuali, in particolare durante i movimenti sociali e le rivolte popolari.
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Nel libro “Police” lei spiega che la “repubblica” sarebbe un “significante” che rivela della “finzione”. Le personalità politiche de La France insoumise, ad esempio, evocano spesso nei loro discorsi o nei loro testi la “repubblica”, o l’idea di una “polizia repubblicana”… Per quale motivo, secondo lei, si potrebbe sviluppare una “finzione”?
Con le parole è sempre lo stesso problema: c’è il loro significato originale e c’è quello che sono diventate nel tempo, attraverso l’uso – il divario a volte è abissale. Nulla garantisce una parola contro queste derive, poiché essa viene costantemente ridimensionata nella e dalla prassi. Allora si pone la domanda: cosa fare con un significante che all’inizio era eccitante ma che è diventato problematico, anche pestilenziale? Dobbiamo rassegnarci ad abbandonarla, o scegliere di raddrizzarla?
Non credo che ci sia una risposta generale a questa domanda: ci sono solo casi particolari che richiedono ogni volta un esercizio di discernimento. Per esempio la parola “comunismo”. Cosa facciamo con il termine “comunismo”? Ho sempre avuto grande stima per coloro che, come Alain Badiou, sfidano le avversità generali e riprendono ciò che tutti considerano irrilevante. Ma mi sono sempre chiesto se, da un punto di vista tattico, questa sia stata davvero la scelta giusta: “noi” abbiamo già così tante ostilità da superare, è davvero utile metterne una in più sul tavolo?
Perché la massa di idee spontanee, dovremmo piuttosto parlare di riflessi, da disfare intorno alla parola “comunismo” è colossale, tanto quanto stare in fila per 100 metri con un sacco da 20 chili. È davvero necessario? Beh, più ci penso, dopo averci riflettuto a lungo su questa questione, più tendo a pensare che sì, ne vale la pena.
Ma allora perché non assumere la stessa posizione con “repubblica”, cioè mantenere, raddrizzare, contro le deviazioni dei costumi contemporanei? Vedo che questo è ciò che qualcuno come Thomas Branthôme, per esempio, sta cercando di fare, di tenere insieme “repubblica”, “democrazia” e “sovranità” nel patrimonio rivoluzionario, ed è certamente uno sforzo che vale la pena di fare. Ma confesso che sono sempre meno capace di crederci.
Prendiamo le cose in ordine: prima le deviazioni. Per sapere cosa stiamo facendo con il significante “repubblica”, dobbiamo prima sapere a che punto siamo con esso oggi. Dove siamo, credo che ora sia molto ovvio: a destra della destra. Ci si dovrebbe chiedere se un grande significante politico abbia mai sperimentato un tale slittamento in un periodo di tempo così breve.
Avevamo vissuto un lungo periodo in cui la “repubblica” era senza dubbio un indicatore di sinistra; in trent’anni è diventata un punto di rivendicazione per tutto ciò che è a destra, o addirittura l’estrema destra. L’ex Union pour un Mouvement Populaire (UMP) si è ribattezzato Les Républicains (LR), la Macronia pre-fascista è La République En Marche (LREM), anche il Rassemblement National (RN) si dichiara repubblicano.
Ma soprattutto “repubblica” è ormai la perfetta marionetta, direi addirittura la marionetta di tutte le marionette: la facciata del “laicismo”, del “femminismo” e, perché farsi scrupolo, dell'”universalismo”, sono protetti e raccolti sotto la grande facciata sintetica della “repubblica”. In realtà, “repubblicano” è ora un occhiolino, una mezza parola, un nome in codice, un punto di raduno (appena) mascherato. Per cosa e per chi? Essenzialmente per gli islamofobi, si dovrebbero piuttosto dire i razzisti anti-arabi, uniti a tutti i difensori della “legge e dell’ordine”.
La manifestazione più tipica di questa degenerazione è la cosiddetta Printemps républicain, un raggruppamento informale a metà strada tra lobby, officina e club, ma saldamente legata all’islamofobia, ovviamente bardata di “valori universali”, che ha almeno il merito, per il suo stesso nome, di metterci in guardia sul modo in cui sta rinascendo il significante “repubblicano”: la via della sinistra di destra e anche dell’estrema sinistra di destra.
Perché sappiamo da tempo che c’è una sinistra di destra, ma uno degli insegnamenti dell’ultimo periodo è che c’è anche un’estrema destra di sinistra: la “sinistra” di Valls. Mi direte che, in una prospettiva storica, questo non è del tutto nuovo, e avrete ragione. Non è meno spettacolare.
L’islamofobia ossessiva, il razzismo a volte sbottonato di alcuni dei suoi membri, la forma estremamente violenta e molesta dei suoi “interventi” sui social network sono il marchio di fabbrica di Printemps républicain, a sua volta una metonimia del modo molto particolare in cui si sta svolgendo l’attuale fascistizzazione: sotto il significato di “repubblica”.
Comincia a essere molto, almeno abbastanza per far riflettere. Fino a qualche anno fa, pensavo che ci fosse ancora qualcosa a che fare con la parola “repubblica”, anche se era per lo più in un registro tattico-retorico. Il significante è profondamente radicato nel linguaggio politico comune, e come tale potrebbe essere una potente leva di legittimazione, a condizione che venga reinvestito con il suo contenuto appropriato. Questi contenuti ci sono stati indicati dalla storia: sono i contenuti della repubblica sociale. La repubblica sociale è la repubblica completa, la repubblica della Rivoluzione completa: non la Rivoluzione che si è fermata alle istituzioni politiche “democratiche”, destinate poi ad essere solo le istituzioni della democrazia borghese, ma quella che si estende fino al suo orizzonte, cioè la democrazia ovunque, anche (a partire da) la sfera della produzione. La repubblica sociale è una democrazia integrale, se l’installazione profonda della parola “repubblica” nell’immaginario politico francese potrebbe aiutare, attraverso l’opportuna rassegnazione, a far circolare quello che alla fine ha cominciato ad apparire come comunismo, ma senza dover passare attraverso il problematico significante “comunismo”, allora ci potrebbe essere la possibilità di un interessante sovvertimento lessicale e politico.
Oggi questo sembra molto ambizioso, anche quasi impossibile…
Il fatto è che i tempi di grande crisi – innegabilmente ci siamo dentro – le cose si muovono a una velocità prodigiosa. Questo spostamento del significante “repubblicano”, che per quanto mi riguardava nel 2016, è diventato oggi un’impresa quasi senza speranza – è perché nel frattempo sono successe delle cose, in particolare il completo svelamento dell’estrema sinistra di destra, lo Stato di emergenza indefinitamente rinnovabile, la decadenza della cittadinanza, l’inaudita repressione poliziesca dei movimenti sociali iniziata con la Loi Travail, e poi Macron, lo Stato di emergenza trasformato in diritto comune, l’ingresso franco in un regime di Stato di polizia, l’agitazione di tutti i temi di estrema destra (“comunitarismo”, “separatismo”, ecc.), il tutto sotto gli auspici, ancora di più, sotto l’unzione legittimante della “repubblica”. Il che diventa un po’ pesante da portare avanti.
Mentre il regno degli usi non intenzionali di “repubblica” e “repubblicano” si restringeva come una pelle di zigrino, di recente ho visto solo il registro dell’ironia a sostegno di affermazioni come: “il vero territorio perduto della repubblica è la polizia”. Con forse un po’ di efficacia residua, come possono avere i modelli di rovesciamento: è che ci sono ancora molte persone che credono nella “repubblica”, senza avere una visione troppo precisa di ciò che la parola in definitiva significa, ma che hanno qualche possibilità di sentirsi dire che un prefetto di polizia che divide la popolazione in “campi”, prende di mira i “partiti di protesta”, dà istruzioni per arrestare i semplici portatori di adesivi sindacali o Gilets Jaunes, per liberare i fascisti con lo striscione sul tetto, o che prendono di mira i giornalisti, è il capo di una forza di polizia che difficilmente può continuare ad essere definita “repubblicana”, anche per inerzia. Ci sarebbe persino un certo piacere nell’obiettare a Lallement (il prefetto di polizia di Parigi, ndt), dalla sua stessa grammatica, che la sua pretesa di essere “repubblicano” è una finzione – con l’aggiunta dell’efficacia della critica interna.
Eccoci di nuovo alla domanda originale: con i significanti “al problema”, andare avanti o lasciar perdere? Per quanto io creda che il termine “comunismo” – potrei aggiungere in un altro genere “sovranità” – meriti di essere portato avanti, vedo sempre meno interesse per la “repubblica”. Alla fine, “repubblica” è un concetto politico dei più deboli. Dicendo “la cosa pubblica”, qualifica la politica, ma in generale. Naturalmente la storia moderna le ha dato significati specifici, soprattutto in Francia, ma in Aristotele “repubblica” è il semplice nome della città costituita in quanto tale, prima delle sue particolari forme di organizzazione – quindi non c’è contraddizione nel fatto che la repubblica assuma la forma di una monarchia. Sulle spoglie della maggioranza che la storia dirà che sono stati i fermenti del fascismo nella Francia della prima metà del XXI secolo, infine senza molto contenuto da difendere – a differenza del “comunismo” o della “sovranità”, i cui contenuti sostanziali sono abbastanza ricchi – si cerca, invano, per quali ragioni si dovrebbe lottare per la “repubblica”. Se il fascismo sta arrivando a mo’ di “repubblica”, non vedo il motivo di lottare per questo significante perduto.
Pensiamo ai concetti, ai loro usi e agli abusi nel tempo, se dobbiamo reinvestire alcuni di essi piuttosto che altri… Ma a cosa serve, alla fine, un(a) intellettuale, quando in Francia si verificano periodi di protesta inattesi e più o meno spontanei, rivolte popolari e lotta di classe?
Direi che cerca prima di tutto di controbilanciare il partito di maggioranza che la “classe istruita”, compresa la “classe culturale”, prende spontaneamente, il cui primo movimento è quello di protestare contro gli oppressi. Ovviamente, nel dire questo, mi sto implicitamente impegnando in una particolare definizione dell'”intellettuale” come agente che, oltre ad avere come specializzazione, spesso come professione nel lavorare con le idee (idee concettuali o idee di creazione artistica), è molto esplicitamente contro l’attuale ordine sociale e nella prospettiva di trasformarlo radicalmente o addirittura di rovesciarlo. Insomma, colui che ritiene sia giusto ribellarsi. Questo non è esattamente il desiderio della classe istruita, che è sociologicamente legata a questo ordine. Tuttavia, è necessario fare alcune differenze. Lasciamo da parte tutti i laureati inseriti nella divisione del lavoro come dirigenti, la cui adesione all’ordine sociale capitalista arriva fino al folle (anche se: anche da questo lato si comincia ad inciampare) e consideriamo solo coloro che sono in grado di svolgere la “funzione intellettuale” nella società, cioè che hanno accesso al dibattito pubblico per proporre “idee”: giornalisti, opinionisti, esperti, accademici nei media, ecc.
L’accesso regolare ai mezzi di comunicazione di massa è di per sé un indicatore di come coloro che ne beneficiano vi deterranno la “funzione intellettuale”: in modo falso che contraddice la funzione intellettuale, poiché la funzione intellettuale è essenzialmente una funzione critica, la condizione implicita dell’accesso regolare ai mezzi di comunicazione di massa è che essa abbia solo una funzione di ratifica o di falsa critica. La ratifica è l’insieme degli esperti che vengono a dire in varie forme i meriti generali dell’ordine sociale così com’è, la necessità di fare alcuni aggiustamenti per renderlo ancora migliore.
Ma gli specialisti della falsa critica, cioè di una critica che sa bene fino a che punto non esagerare, sono quasi peggio, poiché forniscono al sistema egemonico dell’opinione pubblica i suoi alibi di pluralismo senza mettere in discussione nulla di fondamentale – la prova di ciò è data dal fatto che sono stati re-invitati. Un esempio tipico: trovare l’aumento delle disuguaglianze molto preoccupante, o essere allarmati dal cambiamento climatico, ma non mettere mai in discussione il capitalismo. La falsa critica è una critica fatta da una posizione, tenuta dal cuore del sistema e senza la prima intenzione di toccarlo. Ogni volta che si verifica un evento politico che ha il potenziale di esplodere, quindi con grande potere in termini di classe, come cose diverse come il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa nel 2005, i disordini in periferia nello stesso anno, o i Gilets Jaunes nel 2019, sappiamo esattamente da che parte andranno questi “intellettuali”: verso l’ordine sociale, contro ciò che lo prende di sorpresa, lo sconcerta radicalmente, ciò che è quindi una potenziale minaccia. Essere un intellettuale significa schierarsi dalla parte di ciò che sconcerta l’ordine sociale, schierarsi con le forze dell’irruzione, contro gli intellettuali dei media, che conoscono, con una intuizione molto sicura, l’intuizione dell’habitus, a quel punto in cui c’è motivo di essere spaventati – ci sono “intellettuali” che sono stati presi dalla paura quando i Gilets Jaunes hanno fatto la loro irruzione, temendo che il loro mondo, il mondo in cui si trovano così bene e di cui criticano solo in modo simulacro, venga stravolto per sempre.
Ma c’è un’altra funzione, meno polemica dell’intellettuale in tempi di crisi, una funzione di mettere le cose in parole. Qui prendo in prestito essenzialmente da Sandra Lucbert (con la quale lavoro anche) le sue riflessioni sugli effetti della letteratura, riflessioni ispirate alla psicoanalisi, ma che mi sembrano in parte trasponibili al discorso delle scienze sociali o della filosofia. Ci sono momenti di epifania nella cura analitica, che Freud sottolineava così fortemente come un’opera nella parola, momenti di epifania quando una formazione inconscia ancora sfocata, senza contorno, che lavorava in modo confuso e doloroso sull’argomento, viene improvvisamente portata alla luce dall’effetto di una adeguata messa in parole. Questo momento catalitico dell’analisi è il precipitato del significante, un’opportunità senza pari di vedere quanto profondamente l’essere umano sia un essere di parole, un ‘essere di parola’ come dice Lacan, cioè un essere che una sola parola può salvare (o distruggere). Questo è ciò che la letteratura, almeno come pratica di Sandra Lucbert, ha la funzione di operare: gli affrettati del “ri-significato”, attraverso i quali il semplice fatto di aver messo giù parole, parole nuove ovviamente, che contraddicono (o sovvertono) le parole del potere, può essere un prodigioso sollievo.
Nel suo ordine e con mezzi propri, l’intervento intellettuale può mirare allo stesso tipo di effetto di dissipare le nebbie, o di strappare il velo, in modo che improvvisamente “possiamo vedere”, in modo che finalmente si possa dare un senso a ciò che ci sta accadendo, altrimenti lasciato all’oppressione di una causa informe. Non c’è niente di più preciso quando le persone, dopo uno dei vostri interventi, vi dicono “voi mettete le parole”. Probabilmente non succede ogni volta, ma quando succede, è un bene. E tanto meglio perché questa funzione “significante” o “ri-signifante” è particolarmente richiesta in tempi di crisi, quando la prigione di significato e di strutture imposte dall’ordine egemonico diventa insopportabile da far crollare, ma quando manca ancora una chiara rappresentazione di cosa sia esattamente la prigione. Intervenire intellettualmente in tempi di crisi significa contribuire a produrre questa idea chiara e distinta, come effetto di senso. E poi, proporre un universo completamente diverso inseparabilmente di strutture e categorie, di istituzioni e di significato, alla maniera, per esempio, di Bernard Friot, che insiste molto sulla necessità di ricostruire i termini stessi dell’agenda: una posizione offensiva impone le proprie definizioni di problemi e compiti, quindi le proprie parole. In questo modo ci spinge in un altro mondo di significanti.
Ma non ha paura dell’abisso che a volte può allargarsi tra le classi lavoratrici e gli intellettuali, a causa di un certo tipo di linguaggio, accompagnato da concetti e riferimenti la cui violenza sociale simbolica può rivelarsi piuttosto forte? É qualcosa che le è stato rimproverato e, in caso affermativo, cosa ne pensa?
Se questo mi sia stato rimproverato? Ma questo lo sento dire tutti i giorni! (è un modo di dire, no?). Quello che è vero è che non posso contare il numero di volte in cui sono stato redarguito gentilmente o in altri casi maltrattato per questo motivo. Le buone intenzioni mi implorano di fare un piccolo sforzo per parlare o scrivere in un modo che mi renda comprensibile a poche altre persone. I più risentiti si avvolgono nella “classe operaia”, alla quale spesso non appartengono più di me (da qui l’ipotesi del risentimento), per spiegarmi che sono incomprensibile alla “maggioranza” – penso che non ne avevo proprio bisogno per esserne consapevole. Ma vedete come questo dibattito è contorto: coloro che mi fanno la predica qui non sono quindi, il più delle volte, non più lavoratori di me, ma sembrano considerarsi perfettamente in grado di sapere ciò che i lavoratori capiscono o non capiscono. E di trasmettere ammonizioni a loro nome. Ma una volta ho incontrato un sindacalista della RATP che mi ha chiesto la filosofia dell’essere e dell’evento di Badiou, altre volte ho ricevuto e-mail da persone che non mancano di raccontarmi le loro origini e la loro (modesta) condizione sociale, ma che tuttavia mi interrogano molto profondamente su passaggi di alcuni dei miei libri meno da “grande pubblico”. Sono esperienze salutari, che rompono le idee fin troppo semplici di chi ha decretato che “gli operai” non capiscono nulla se ci si rivolge a loro con un vocabolario di oltre 300 parole. Insomma, non si possono dimenticare completamente gli insegnamenti di base della sociologia e non cedere ai presupposti di incapacità delle classi lavoratrici.
Ma allora, in queste condizioni, quale linea dobbiamo seguire? La mia linea è di non avere una linea. Io scrivo come scrivo, va dove deve andare, tutto qui. Qualcun altro avrebbe scritto diversamente e forse, in quel momento, sarebbe andato oltre. Va bene, anche questo andrebbe bene – cioè, in modo diverso. Non ci sia indifferenza, o peggio, disprezzo, per chi si lamenta di discorsi che gli sono ermetici. Tutti sanno per esperienza che non capire è come la dolorosa sensazione di essere esclusi: la sensazione di essere esclusi da qualcosa a cui gli altri (“coloro che capiscono”) possono avere accesso e non se stessi. È spiacevole. Nell’argomentazione (indirizzata al sottoscritto), senza dubbio intrisa di argomentazioni generali e politiche, credo che ne vengano fuori molte. Ed è… comprensibile.
Tuttavia, credo che possiamo entrambi riconoscere questa sensazione e non limitarci ad essa. Perché lasciare a questi l’ultima parola è annullare la funzione intellettuale nel momento stesso in cui viene evocata – tutta questa discussione è ulteriormente complicata dalla lunga storia di arroganza degli intellettuali che abbiamo ereditato, con la quale si tratta proprio di rompere. La linea della non-linea è il mio modo di risolvere queste contraddizioni. Vorrei mostrare cosa c’è dietro, vorrei mostrarlo soprattutto a coloro che, critici rigorosi di “intellettuali” impegnati in politica (finiamo quasi per dire che avremmo meno problemi con loro se ci astenessimo da tutto), sono essi stessi vittime dei peggiori cliché sugli intellettuali, credendosi i meno ingannati. Questo perché in generale la loro prima mossa è quella di liquidare l’intellettuale che è l’esploratore dei popoli e il demiurgo della storia – nel qual caso non è troppo difficile seguirli, la porta è spalancata per essere sfondata. Ma, da questa premessa, ormai accettata da quasi tutti, si deduce a volte, e il più delle volte dagli stessi intellettuali, che essere un intellettuale, poiché non è tutto, è essere nulla. Così, in segno di espiazione per la sua posizione sociale e per il magistero che gli sarebbe essenzialmente legato, l’intellettuale si copre la testa di cenere e dichiara che non offre alcuna differenza (poiché in questo processo espiatorio teme che l’affermazione di una specificità venga immediatamente ricodificata come rivendicazione di superiorità), che andrà “alla scuola della classe operaia” o “del popolo” o altro. Sia chiaro: uscire dal suo isolamento sociologico, entrare in contatto con ciò che le altre classi sociali, soprattutto le classi lavoratrici, stanno elaborando in termini di conoscenze, riflessioni e pratiche politiche, è il minimo che un intellettuale possa fare, ma non è di questo che stiamo parlando. Si tratta di un certo discorso a cui è legato questo requisito elementare. Come sappiamo almeno dai tempi di La Rochefoucauld, le posizioni ostentate di umiltà non sono altro che posizioni di estrema arroganza rovesciata. L’ostentazione dell’abnegazione è il sentimento dell’onnipotenza di sé, ma censurata e rovesciata.
Ma allora, che posto occuperebbero?
In realtà, si potrebbe desiderare un po’ più di semplicità da parte degli intellettuali nell’idea che hanno di sé stessi: occupano un posto che non è né nullo né demiurgico (abbiamo ormai capito che è la stessa cosa), occupano il loro posto nella divisione politica del lavoro, punto. Il loro intervento non capovolgerà il mondo, ma prenderà il loro posto, né più né meno, nello sforzo combinato di capovolgere il mondo. Insomma, nel loro registro, insieme a tanti altri, vi contribuiscono. Nella divisione politica del lavoro c’è chi sa organizzare gli incontri, chi ha il cuore di uscire e tirare all’alba, chi gestisce le mense dei poveri, chi accetta di scuotere i posti di lavoro, chi ha il talento (di Serge D’Ignazio) di fotografare i movimenti di strada, o di tirare fuori dal basso un foglio che mostra la creatività dei Gilets Jaunes (“Plein le dos”), poi ci sono altri che lo fanno secondo la propria specializzazione: intellettuale. E buttiamo tutto insieme nella zuppa. L’idea è chiara: l’intellettuale non è lo chef, è lo scorfano, se volete. È nella pentola con gli altri.
Lo scorfano non fa tutta la zuppa di pesce, ma ha il suo piccolo sapore. Non capisco perché gli intellettuali cedano alla loro specificità, cioè alla loro specializzazione – o cedano a coloro che, dico, per demagogia, chiedono loro di cedere. Essere specializzati è aver imparato a fare una certa cosa meglio di altre. Solo una lunga storia di arroganza da parte degli intellettuali può spiegare perché, mentre il panettiere non ha problemi a pretendere di fare il pane meglio del filosofo, il contrario è diventato impossibile per il filosofo per quanto riguarda il suo stesso lavoro di pensiero. In realtà, nessuno ha nulla da guadagnare dalla rinuncia intellettuale alla precisione – che, come è noto, comporta delle complicazioni: di categorie, di linguaggio, di espressione, ecc… – nel suo lavoro. Non possiamo chiedere a un intellettuale di produrre un’analisi che faccia la differenza, cioè che trasformi i modi di vedere comuni in cui siamo bloccati e da cui, appunto, si tratta di uscire, di farlo in una forma immediatamente accessibile: non dobbiamo chiederglielo perché è contraddittorio. Se l’intellettuale non sostiene di avere un modo specializzato di praticare il pensiero, che non annulla il pensiero degli altri e non gli conferisce alcuna eminenza politica, insomma, se nega la sua specialità, allora nega sé stesso come intellettuale. Non ci si deve quindi sbagliare sulla “semplicità” richiesta all’intellettuale. Non è la semplicità del suo discorso – semplice, difficilmente può essere semplice per quello che deve produrre – ma la semplicità con cui viene a prendere il suo posto nella divisione politica del lavoro. Infatti, come ogni divisione del lavoro, la divisione politica del lavoro si basa su un duplice principio di specializzazione e complementarietà: è attraverso l’unione coordinata di contributi specializzati che si svolge il lavoro collettivo.
Vorremmo quindi rimproverarlo di “rendere le cose troppo complicate” e di “parlare solo agli addetti ai lavori” per vedere cosa significa ancora in termini di rappresentazione demiurgica della parola intellettuale – immense masse dovrebbero ascoltarla, capirla, senza dubbio seguirla – ma anche, qui paradossalmente, in termini di una profonda ignoranza del carattere collettivo dell’attività politica. Questo è un paradosso perché non dimentichiamo di cantare “il collettivo, il collettivo” nel modo giusto, ma senza trarre la minima conclusione logica, soprattutto per quanto riguarda la divisione del lavoro che il collettivo necessariamente comporta. Ora, collocare opportunamente l’intervento intellettuale in questo contesto è accettare che, nella forma che ha scelto (e che, peraltro, può variare – per quanto mi riguarda), produce … gli effetti che produce, né più né meno, che questo sarà il suo contributo, questo è tutto. Ed è questa mancanza di comprensione della divisione del lavoro che rende anche impossibile vedere che c’è spazio al suo interno per una grande varietà di registri e livelli di discorso, che è un bene. C’è spazio per un lavoro all’avanguardia, che può essere scomodo da accedere, ma che spinge a nuovi modi di pensare che, con il tempo e la staffetta degli altri, si faranno strada; c’è spazio per un discorso che spedisce legna senza circonlocuzioni – non si è costretti a chiedere questo a uno stesso individuo, tra l’altro. Mi dico che i critici degli “intellettuali ermetici” che, per di più, portano Marx sulle spalle, non devono aver letto una sola pagina de “Il Capitale”. Perché “Il Capitale” non è esattamente una passeggiata nel parco, devi darci una sbirciata. Marx può dire di essere molto preoccupato che il suo libro sia “più accessibile alla classe operaia” e anche che “questa considerazione sia superiore a qualsiasi altra”, ma non è certo (questo è un eufemismo) che molti lavoratori abbiano avuto l’accesso da lui voluto. Eppure, questo lavoro non contava molto nella traiettoria storica del movimento operaio, vero? Le opere di pensiero, di difficile accesso per molti, possono quindi, contrariamente alle apparenze, finire per produrre effetti utili per molti. Forse dovremmo chiederci un po’ di questo, non credete? Forse perché le cose sono un po’ meno semplici di quelle che vorrebbero sottoporre tutti gli interventi intellettuali al metro dell’immediatamente accessibile a tutti.
La prima parte dell’intervista
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