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Alvaro Garcia Linera: “La Bolivia non ha un destino scritto”

Dopo l’impressionante trionfo elettorale del Movimento Al Socialismo, abbiamo parlato a Buenos Aires con l’ex vicepresidente della Bolivia. Due ore e mezza di un’intensa riflessione sul senso della storia boliviana, i ribaltamenti della politica contemporanea e la turbolenta congiuntura che viene. Perché hanno recuperato così rapidamente il potere? Che farà la leadeship storica di Evo in questa nuova tappa? Ci si può aspettare un ritorno alla normalità perduta? Parla Álvaro García Linera, mentre prepara il suo ritorno.

García Linera è esultante. Non solo per una vittoria elettorale di inattesa grandezza, ma perché a Buenos Aires il caldo asfissiante ha ceduto per alcuni giorni e si è imposto un abbassamento della temperatura. Segnali inequivocabili di un ritorno imminente all’altopiano, dopo undici mesi d’esilio e incertezza. Ma, malgrado la sua fede cieca  nello sviluppo della storia, l’ex vicepresidente della Bolivia sa che niente tornerà ad essere come prima.

L’incontro si ha avuto luogo martedì 20 ottobre nella casa che la casa editrice Siglo XXI ha a Palermo, più precisamente sulla terrazza. Originariamente decisa per le 16, l’intellettuale nato a Cochabamba ha chiesto di posticipare di un’ora l’appuntamento perché doveva badare alla sua figlia piccola un po’ più del previsto. I motivi del trionfo del MAS, gli insegnamenti del pericolo vissuto, le sfide per il governo che verrà, i grandi dilemmi della sinistra nella tappa che viviamo, sono alcuni dei temi raccolti in questa intervista, che è terminata solo al cader della notte.

 

Qual’è il significato storico di questo avvenimento? Ti ha sorpreso quanto è accaduto?

—Mi ha sorpreso il volume del trionfo. Sapevamo che avremmo vinto, però non avevamo calcolato la dimensione della vittoria. Quando sono cominciati ad arrivare i primi dati sulla nostra distanza dal secondo, mi sono emozionato e rallegrato molto. Il significato, per la Bolivia, è che il progetto nazionale popolare che ha messo in campo il MAS continua ad essere l’orizzonte insuperabile di questo tempo.

L’anno scorso non è stato sconfitto questo progetto, è stato paralizzato. Sconfiggi qualcosa quando le strappi la sua forza morale o la sua energia. E questo non è successo. Si sono imposti grazie a evidenti problemi e a una votazione non molto elevata. Però la prova è quello che sta succedendo ora, quando il progetto che hanno cercato di paralizzare e asportare con la forza l’anno scorso, è tornato a rinascere con un brio impressionante, perché la sua energia non si è ancora esaurita, non è al culmine. In questo senso, continua ad essere il progetto del MAS d’inclusione sociale, crescita economica e distribuzione della ricchezza, l’orizzonte di questo nuovo decennio che viene. E per il continente, credo che la lezione è che se punti a processi che diano beneficio fondamentalmente alla gente più semplice, più bisognosa, più lavoratrice, non stai sbagliando. Potrai avere problemi, potrai avere difficoltà, contrattempi, tortuosità che avvengono, però è una sfida che va con il senso della storia.

A differenza di quei progetti che hanno puntato a collocarsi dalla parte dell’impresa, dei ricchi, dei privilegiati, perché avrebbero trainato il resto della società; quel progetto si mostra esaurito, sempre più indurito, autoritario. In cambio, se al momento di prendere posizione scommetti sui lavoratori, sull’emancipazione, la lotta, il benessere, il miglioramento delle classi lavoratrici, puoi cedere temporaneamente, ma la storia sta camminando in quella direzione. E questo è buono in questo momento in cui il mondo intero è in una specie di stupore planetario in cui i leader politici, sociali, gli intellettuali, non sanno verso dove s’incammina il mondo.

 

In queste ore ho ascoltato tre interpretazioni sul perché la vittoria del MAS è stata tanto ampia e in un certo senso sorprendente. La prima dice che la maggioranza della popolazione ha votato per tornare a quei dodici anni del governo precedente, che secondo la tua idea continuano ad essere l’orizzonte insuperabile dell’epoca. Un secondo argomento sostiene che il governo di Añez è stato così cattivo che la gente ha votato contro di lei e questo ha favorito il MAS. E una terza riflessione pone l’accento sulla formula Arce-Choquehuanca, che avrebbe apportato il flusso elettorale che la formula di Evo con te ormai non conquistava più. Che ne pensi?

—Che sono tre diverse angolazioni di uno stesso fatto sociale. Non sono punti di vista alternativi, bensì complementari. Il ricordo della precedente gestione naturalmente ha influito, perché ha permesso alle persone che la loro voce sia riconosciuta, che la loro identità sia inclusa, che le loro condizioni di vita migliorino e quando è arrivato questo governo e cerca di mostrare un nuovo cammino, lo fa senza includere la gente, senza riconoscere la sua identità, maltrattando e impoverendo le persone.

Perciò, la gente rapidamente ha potuto comparare. Sarebbe stato diverso se noi fossimo caduti per una cattiva gestione, se avessimo portato il paese a una crisi economica, di disoccupazione generalizzata e paralisi produttiva, da questo non ti rialzi.

Se questa fosse stata semplicemente una cattiva gestione, ma la precedente era altrettanto cattiva, poiché non puoi fare paragoni, semplicemente ne vedi la continuità. Il fatto che ci siano candidature come quelle di Luis e di Choquehuanca ha significato anche che, dentro il progetto generale di trasformazione dell’economia, stato e società che portavano avanti i sindacati e le organizzazioni sociali, esiste la capacità d’incorporare altre voci. E quindi dimostra che è un progetto che continua a crescere, che è capace di mantenere la fonte delle proprie radici, e la sua colonna vertebrale molto popolare, e avere la forza di cambiare leadership senza che questo produca scissioni o rotture tra la nuova generazione e la precedente, ma che si presenta come un processo di organizzazione.

La nostra generazione, che ha portato a termine una tappa, accompagna la nuova generazione. Questo in altre occasioni in Bolivia era una rottura tra antico e nuovo che si scontravano. Qui no, è un’articolazione organica. Per questo sento che sono tre elementi di uno stesso fatto sociale. La nostra vittoria è strategicamente garantita e continuerà ad essere garantita fintanto che non sorga un progetto alternativo di economia, stato e società. Per questo nel 2019 gli è stato detto: fintanto che voi non mettiate su un nuovo progetto di economia, stato e società che superi questo e che generi aspettative, perderanno sempre, continueranno a perdere. Potranno perdere un poco meno o un poco di più, ma continueranno a perdere. E questa è la convalida di questa ipotesi generale: oggi come oggi in Bolivia non è sorto dalle forze oppositrici, dalle forze conservatrici, alcun progetto alternativo di economia, stato e società. E questo è il loro limite.

Questo li condanna al fallimento. E se questo non cambia nel 2025, continuerà. Le forze conservatrici non fanno altro che semplicemente acchiappare il vecchio e irrigidirlo. Gli aggiungono un altro po’ di autoritarismo, un altro po’ di razzismo, una dose di odio, una di rancore, u’altra di violenza. Questo non è un progetto, questo va bene per un po’, ma non per generare una convinzione duratura dell’orizzonte predittivo di noi persone. In parte, la politica è il come dirigi l’orizzonte di previsione delle persone. È una lotta per il monopolio dell’orizzonte predittivo della società. E loro l’hanno perso. Cercano di rivivificarlo con scosse elettriche di odio, di rancore, di razzismo, però esce fuori un Frankenstein. Non un proyecgetto organico di società. Io sento che è un brutto momento per le forze conservatrici a livello mondiale. Possono continuare a governare, e stanno governando per la maggior parte, però è un brutto momento.

Ogni giorno gli cade un nuovo frammento di questa capacità di dirigere l’orizzonte predittivo della società. L’orizzonte predittivo è quando ti svegli, sapere che cosa farai. E che cosa farà tuo figlio, e tua moglie, e tuo fratello, perché hai pensato per il giorno dopo, o il prossimo mese o i prossimi sei mesi. È qualcosa di concreto, non un’astrazione filosofica: come le persone prevedono il loro destino immediato. Quando non puoi guidare questo, come sta succedendo ora con le forze conservatrici, avviene questo processo caotico. Il progressismo è una risposta all’esaurimento dell’orizzonte predittivo del neoliberismo. É una scommessa che avanza, ha problemi, cade e torna a rialzarsi. Guarda quello che è successo in Bolivia.

Il recupero del comando da parte delle forze neoliberiste in questi ultimi anni è temporaneo, è un recupero con le gambe corte. Tu dirai: ma quello che è successo con Bolsonaro? Certo, è un neoliberismo, ma è un Frankestein, con dosi di razzismo, sessismo, violenza. Può anche vincere le elezioni, ma non ha il controllo dell’orizzonte predittivo. Ce l’avevano, negli anni ottanta hanno detto al mondo “non ci sono opzioni”. La frase della Tatcher, “questo è quanto rimane”. Che poi il signor Fukuyama riscrive con linguaggio filosofico: “è la fine della storia”. Questo non possono dirlo ora, non si azzardano a dirlo. Nessuno sa quello che succederà nel mundo.

Torniamo alla congiuntura, vediamo che te ne pare di altre due argomentazioni che ascolto in questi giorni e che forse non sono tanto confluenti. Il primo fa questo ragionamento: l’ampio trionfo della formula Arce – Choquehuanca, non conferma che è stato un errore aver insistito l’anno scorso con la seconda rielezione di Evo? La seconda interpretazione è completamente differente, perché sostiene che l’obiettivo del golpe è stato distruggere la leadership storica e che con Evo fuori dalla scena il MAS può diventare una forza più digeribile per i poteri.

—Sul se si potrebbe aver sperimentato questa formula prima, certamente si può dire “è possibile”. La cosa interessante è che quando si prende la decisione di cosa fare di fronte al referendum, non è un decreto presidenziale quello che ordina di ricandidare Evo, bensì un grande incontro di organizzazioni sociali fatto a Santa Cruz, in Montero. Un’opzione era quella di cercare altri leader e di fatto già cominciavano a venire fuori vari nomi. E un’altra posizione ha detto no, un momento, bisogna cercare una consulta legale.

Si è dibattuto molto intensamente per tre giorni, e alla fine di questa assemblea del MAS che include direzioni sindacali, di corporazioni, di contadini, si decide di andare in questa direzione. Perché si aveva la preoccupazione che, se non fosse andato nuovamente Evo, sarebbe sorta una specie di esplosione di nuove leadership, con i rischi delle divisioni, come nell’esperienza dei grandi partiti, inclusi quelli della stessa sinistra. Quando ormai non c’è più il leader principale, per esempio Marcelo Quiroga Santa Cruz nel Partito Socialista, compaiono il PS1, il PS2, il PS3, il PS4 e il PS5.

Luis Arce viene da questo Partito Socialista, vero?

—Sì, dal PS1. E nel caso del MNR non c’è il leader, perciò sorgono il MNRI, il MNRA, il MNRR, il MNRZ. Questo è il timore che compare nel dibattito dei compagni. Non vogliamo che in questo che ha tardato tanto a costruirsi, e che non è un partito d’intellettuali, ma un partito di sindacati al quale aderiscono settori intellettuali, andiamo a riprodurre la vecchia frammentazione di prima. È stata questa preoccupazione dei compagni a portare per questa strada. Potrebbe essere stata tentata quest’altra formula? Chi lo sa? Chissà se in quel momento non avrebbe significato che gli interculturali organizzino una propria candidatura, e la CSUTCB una sua propria formula, e la COB la sua.

Perché ora ha potuto funzionare? Perché c’è stata una convocazione del leader storico che ha aiutato a mettersi insieme, ma anche la persecuzione di un governo che ha messo il popolo all’angolo con la clandestinità, la persecuzione, l’esilio, o il massacro. Perciò, la possibilità che la COB vada con un suo proprio candidato, che il Pacto de Unidad vada con il suo, o che El Alto faccia il proprio si è chiusa, perché tutti eravamo aggrediti. Per questo credo che ha funzionato questa formula, per quelle condizioni speciali. Chissà se questa formula avrebbe funzionato nel 2019? Io avrei dei dubbi.

E cosa ti suggerisce l’interpretazione che lamenta lo  spostamento della leadership storica?

—Evo, e nel mio caso infinitamente meno in termini di leadership, veniamo dall’organizzazione popolare. Prima di essere governo abbiamo fatto venti o trent’anni di lavoro di base, di organizzazione, di formazione politica, questo è quello che sappiamo fare, veniamo da lì, questo è il nostro essere, il nostro essere politico. E il fatto che ora dobbiamo tornare a questo per noi è una cosa ovvia. A dire il vero le leadership si costruiscono lì. La leadership di Evo non è stata costruita dallo Stato. Occhio, questo è un  errore che ha commesso la destra: “la leadership di Evo dipende dallo Stato, se non hanno risorse pubbliche il MAS non esiste”.

Così hanno pensato e per questo a febbraio quando sono state convocate le elezioni si candidano Tuto Quiroga, Doria Medina, pensando che non ci sarebbe stato il MAS. Ma non è così, perché Evo non è lo Stato, la sua leadership si è formata fuori, nelle sue manifestazioni, nelle sue mobilitazioni, nel suo affiancare le lotte della campagna verso la città, con gli operai. Lo Stato l’ha potenziato, ma senza Stato continua ad avere quella leadership costruita dal basso.

La leadership di Evo sento che continuerà, perché la sua forza non è nell’essere stato per un periodo il presidente, ma per aver saputo tessere dal basso. E questo è stato messo a prova ora. C’è molto di Evo nel fatto che le organizzazioni sociali non si siano frazionate con altre candidature. Una è uscita, sono i cooperativisti, che sono sempre stati con noi dal 2006, anche nel 2019, pero nel 2020 hanno presentato una propria candidatura che ha preso lo 0,4 % credo. Però, per il resto delle organizzazioni, Evo ha contribuito a suturarle, a cucire le alleanze. È lì dove si decide se la leadership di Evo si mantiene, acquisisce altre caratteristiche o si diluisce, dipende da quello che farà Evo negli anni che verranno all’interno delle organizzazioni sociali.

E tu che funzione pensi di assumere nel periodo che si apre?

—Anche io mi vedo lì. È quello che volevo fare dal 2016. Per le elezioni del 2019 non volevo andare, pubblicamente non ho accettato, ma poi i compagni hanno insistito. Perché vedo un deficit in noi, che è la formazione politica delle nuove generazioni, delle nuove leadership. Formazione politica non è solamente leggere un libro, bensì una maniera d’intendere la vita e d’intendere il destino personale nel destino politico.

Questo è lotta, è dibattito, è schema mentale, è schema morale, ed è schema logico. I tredici anni di governo che abbiamo avuto sono stati molto stabili però forse sono stati di grande rinnovamento di leadership. A eccezione di Evo e me, il resto è andato cambiando e ogni elezione sono 98% di nuovi deputati, di nuovi senatori, di nuovi sindaci, consiglieri, che vengono dal mondo sindacale, dal mondo agrario. Non c’è una burocratizzazione, però questa alta volatilità dei livelli di direzione fa anche sì che la gente che accede a posti di conduzione, di leadership sociale o dell’ambito statale, lo faccia per la via facile: vengo dalla base, divento dirigente sindacale, il passo successivo è diventare legislatore, poi sindaco, o governatore o ministro, quasi come una carriera di mobilità sociale.

Non è male, perché così tu vedi indigeni, operai, ministri, deputati, senatori, donne in maglietta dove prima c’era una classe endogamica bianca che si sentiva proprietaria di quegli spazi. Però non è sufficiente la tua origine sociale; devi essere anche segnato da uno spirito, una serie di convinzioni, che ti permettono giustamente di affrontare le avversità, che ti permettono di affrontare la tentazione della corruzione, sopportare le cadute, le sconfitte, per tornare a rialzarti. Quello che ti risolleva è la tua convinzione, non solamente la tua origine sociale.

Abbiamo appena visto un esempio di cosa è capace la destra. La destra è capace di porre freno, violentemente, a un progetto che ha potenza per dispiegarsi; e la difesa non è solamente un tema di apparato, è un tema di spirito collettivo. Questo tipo di elementi devono essere potenziati, e io mi vedo lì, voglio farlo da tempo. Questo anno duro, terribile, sanguinoso, è stato una scuola perché ci ha restituito la mistica. Nella nuova generazione di giovani che si sono fatti avanti c’è una mistica che ormai non avevamo per la gestione di governo.

Con questa mistica si sono formate le vecchie leadership, sono o perseguitati degli anni novanta, quelli delle grandi manifestazioni con arresti, lì si è formata una mistica del popolare, poi è diventata gestione statale, e bisogna potenziare quello che è rinato in quest’anno di lotta sociale, affinché la nuova generazione che guiderà il paese migliori e superi quello che abbiamo fatto noi e trasmetta alla prossima generazione una specie de sedimentazione arricchita dall’esperienza di lotta dei settori popolari.

Hai parlato di quello che è capace di fare la destra e in molti avevamo seri dubbi che il governo de facto restituisse il potere al MAS. Senti che quanto accaduto durante quest’anno in riferimento alla sospensione della democrazia e delle regole del gioco è un insegnamento che non si dovrà dimenticare troppo presto o è stato solo un accidente che possiamo rapidamente lasciarci alle spalle?

—No, la sensazione che mi resta è che la democrazia si presenta sempre più come un ostacolo per le forze conservatrici. Negli anni ottanta e novanta loro hanno incorporato la democrazia nel progetto dell’economia di libero mercato, venivano insieme. E ora, in tempi di esaurimento dell’egemonia neoliberista, la democrazia si presenta come un ostacolo. Questo non cambierà. La Bolivia è un esempio del fatto che se c’è da sparare ed entrare al governo per la finestra,  si deve fare. E la destra, nella sua disperazione, sta cominciando a puntare sempre più a questo.

Quello che succede negli Stati Uniti con un presidente che mette in dubbio se cedere il governo in caso di sconfitta, era impensabile che in una democrazia tanto antica se ne uscissero con una cosa simile. L’ipotesi è che sta arrivando un tempo in cui i portatori di quest’egemonia stanca sentono che la democrazia è un ostacolo e, paradossalmente, a misura che si sia andata svuotando la democrazia rappresentativa degli strumenti di legittimazione del progetto neoliberista, le possibilità di trasformazione sociale ed emancipazione hanno assorbito la democrazia come uno dei loro strumenti, dei loro sedimenti e dei loro pregiudizi inevitabili, del loro senso comune.

Non è che la democrazia sia l’emancipazione, è su di essa che si possono pensare processi di maggior democratizzazione. Estendere il fatto democratico esercitato una volta ogni cinque anni, qualcosa che si esercita ogni anno, ogni mese, ogni settimana. A misura che il popolare si appropria del fatto democratico, le forze conservatrici vanno perdendo il controllo e si vanno distanziando dal fatto democratico, perché non serve più ai loro interessi. Gli serviva nella misura in cui aveva un consenso generale, anche nelle classi popolari: libero mercato, globalizzazione, privatizzazioni, imprenditoria d’assalto. Quindi non c’erano dispute per i progetti, era dirimente che l’elite dirigesse il progetto generale. Però quando sorge un altro progetto, e comincia ad prendere voti, ecco che dicono “c’è troppa democrazia”.

Nel 2016 hai tenuto una conferenza nell’Università di Buenos Aires dove menzionavi cinque debolezze di un ciclo di governi progressisti che avevano cominciato a vacillare, in funzione di un’eventuale nuova ondata: in primo luogo l’economico e la necessità di mettere in primo piano i più dimenticati, malgrado la pressione delle elite e delle classi medie; in seconda istanza una rivoluzione culturale, molto legata a quello che dicevi sulla formazione; terzo la riforma morale, legata all’aspetto della corruzione che ha colpito varie esperienze; hai anche parlato delle leadership storiche; e per ultimo la poca profondità dell’integrazione regionale. Visto da oggi, e a partire da quanto successo l’anno passato in Bolivia, non si dovrebbe aggiungere la questione militare e di come affrontare il monopolio della forza negli stati contemporanei?

—Sì, questo è il nuovo che questa storia ci ha insegnato, e non l’abbiamo visto con sufficiente chiarezza nel 2016. Questa regressione autoritaria del neoliberismo, questo neoliberismo 2.0 più furioso, violento, disposto, senza alcun tipo di limite morale o rimorso, a ricorrere alla violenza, al colpo di stato, al massacro, pur d’imporsi. Questo è un dato nuovo che le forze di sinistra devono saper valutare a loro modo, nel contesto di una conquista del potere che si fa per la via democratica elettorale, almeno per ora.

Le forze di sinistra devono dibattere, devono assumersi il rischio, e pensare a come dovranno essere contenuti, sconfitti i tentativi di golpe e persino paramilitari con i quali sono capaci di cercare di riprendersi  violentemente il potere. E lì non c’è un solo cammino. Ritornano alcuni vecchi dibattiti della sinistra però ora in un contesto di mobilitazione di massa, di governi popolari, della democrazia elettorale come un pregiudizio popolare, della possibilità della presa del potere per via elettorale. Su questo fatto nuovo, l’antico dibattito sul monopolio della coercizione. Fino a qui posso arrivare nelle mie riflessioni.

Bisogna recuperare quella vecchia problematica nelle nuove condizioni e in questo contesto che ci permette di arrivare al governo per la via elettorale, e difendere anche le conquiste dei governi per la via elettorale, e anche altro. Cos’è quest’altro? Non lo so, ormai a ciascuno tocca fare delle riflessioni.

Ho visto il percorso elettorale del MAS: nel 2005 arrivano al governo con il 53,7% contro il 28,5%; nella prima rielezione nel 2009 hanno ottenuto il 64,2% contro il 26,4%, e nel 2014 tornano ad essere rieletti con il 61,3% contro il 24,2%. L’anno scorso è stata la votazione più bassa con il 47% contri il 36%. E ora si tornerebbe quasi agli stessi numeri del 2005. Si potrebbe interpretare che stiamo all’inizio di una ondata nuova, o si potrebbe pensare che in un certo modo si torna al punto d’inizio. E non solo per le cifre elettorali, ma per le sfide che avrà il governo che viene: ancora una volta dobbiamo avere a che fare con forze armate e di sicurezza che hanno represso e ucciso il popolo; ancora una volta il blocco orientale sembra egemonizzato dai settori oligarchici e di estrema destra. Non ti pare che questo mette un poco in discussione la tua fiducia in un movimento della storia sempre su un sentiero di progresso?

—Quello che succede è che non torni mai indietro, anche se in certi aspetti puoi trovare un isomorfismo con quello che succedeva quindici anni fa, però sono altre circostanze. Perché, vedi, nel 2005 abbiamo ottenuto il 54% però la destra di Tuto Quiroga, dura, neoliberista, pro nordamericana, arrivava quasi al 30%. Ora quella destra dura ha il 15%. C’è Mesa, però lui è di tutto un po’, come il suo carattere. Un poco di qua e un poco di là. Un poco conservatore, però pure un poco progressista. Questo è nuovo. Quel settore prima era rappresentato da Doria Medina, che ha preso il 15% nel 2005. C’è stata come una specie di inversione. Tuto Quiroga è Camacho, però un poco più intelligente. C’è quel settore conservatore, bisogna stare attenti. È golpista, regionalista, un rischio per la democrazia. Pero sta nel suo spazio. Non è la destra che avevamo nel 2005, qualcosa è cambiata.

E io mi azzardo a dire che è successo quanto segue: nel 2005 l’agroindustria orientale esportava 900 milioni di dollari, mentre le esportazioni della Bolivia erano 3000 milioni; per il 2019 abbiamo esportato circa 9000 milioni di dollari e loro hanno contribuito con 1000 milioni. Prima erano la terza parte, ora è la nona parte. È un settore importante, bisogna tenerlo in conto, però non è un settore decisivo. Prima il settore agricolo e zootecnico di Santa Cruz era organizzato verticalmente: contadino, fornitore di fattori produttivi, lavorazione della soia ed esportazione. Oggi il settore contadino, che prima riceveva credito dagli imprenditori, ha nello Stato il suo fornitore di fattori produttivi. Sei è rotta la catena verticale. YE poi c’è anche la presenza di un altro settore imprenditoriale che si lega al governo, che ha un terzo della lavorazione della soia. Concretamente, che significa questo? Se nel 2005 quel settore decideva che non avrebbe venduto torta di soia ai produttori di carne di gallina, in una settimana ti duplicava il prezzo, e la gente se la prendeva con il governo per l’inflazione che andava alle stelle.

L’alimento è un fattore decisivo per l’indice d’inflazione del paese. Oggi se il settore smette di vendere la soia ai produttori, lo Stato gliela può vendere. Continua ad essere un settore importante e potente, però ormai non ha quel controllo economico, perché lo Stato è intervenuto là. Si ti avvicini per fare affari il settore privato, ti devi avvicinare con uno Stato forte, no con un Stato mendicante. Perché se no diventi funzionario di quel settore economicamente potente. Se l’economia misurava 8000 milioni di dollari e questo settore ne gestiva 1000 milioni, beh è difficile. Ora continua a gestirne 1000, però l’economia del paese è passata a 42.000 milioni. E lo Stato è passato a controllare dal 12% al 35% del PBL in Bolivia. Perciò quando parli con l’imprenditore, non lo stai più facendo dal basso in alto. Puoi fare un accordo perché hai bisogno di quel settore imprenditore, però non più come fattore di dominio, di potere e di comando.

Quello che tu non puoi permettere, se sei un governo molto progressista, è che il potere economico stia nel settore privato. Questo è pericoloso. Devi stabilire una relazione tra pari, o da sopra a sotto con il settore imprenditoriale, senza bisogno di litigarci. Così si ottiene un’autonomia relativa dello Stato. Però se lo Stato non ha potere economico, l’autonomia relativa dello Stato non funziona. Quello che hai è una subordinazione generale dello Stato al grande funzionamento dell’economia, perché sono loro quelli che decideranno se ci sarà o no l’inflazione, se ci sarà o no impiego e investimento. Le tue politiche progressiste dovranno placarsi, perché il potere economico continuano a gestirlo quelli di sempre.

Per essere progressista, un governo prima o poi deve dare una potenza economica alle strutture dello Stato. Non assoluta: mai abbiamo pensato né crediamo che il socialismo sia statalizzare tutto. Però mi azzardo a dire che lo Stato deve disporre dal 30% del PBL in su. Meno del 50% però più del 30%, per poter avere un margine di decisione politica e sociale che non sia subordinato al temperamento dei grandi blocchi imprenditoriali.

Il ciclo progressista degli inizi del secolo ha usufruito di condizioni internazionali molto favorevoli, però oggi la situazione è altamente complicata e non solo per la pandemia. Il nuovo governo del MAS non potrà offrire buone notizie economiche a breve termine. In questo contesto, non temi che bisognerà fare troppe concessioni per ottenere una certa stabilità politica?

—Una parentesi alla tua domanda, per riprendere qualcosa sulla tematica della coercizione e la violenza. Con l’UNASUR vigente, non ci sarebbe stato il golpe en 2019. Anche il contesto internazionale aiuta a regolare la forza politica della coercizione. Questo è molto importante. Nel 2008 abbiamo avuto una situazione simile, anche più radicalizzata da parte dei conservatori. Però c’è stata una neutralità di polizia e militari, molto influenzata dal contesto continentale che vigilava affinché non si trasgredisse né si ignorasse lo stato di diritto. Ed è stato sufficiente, malgrado il denaro che ha dovuto circolare in quel momento tra i comandi militari.

Questo bisogna tenerlo in conto al momento di fare la valutazione generale su cosa si fa con questi impulsi delle forze conservatrici. Un contesto regionale progressista, più democratico, ti aiuta enormemente. Con la presenza di UNASUR, la polizia e i militari non avrebbero avuto il coraggio di fare un colpo di stato. Perché è stata una mobilitazione della classe media tipica, delle classiche mobilitazioni che ci sono state nel 2008, 2011, 2017. Inseribili nel quadro delle teorie latinoamericane d’azione collettiva. Però, se a questo ci aggiungi polizia e militari, sei in un altro contesto, non è più azione collettiva, è golpe. E questo è possibile solo in tempo di governi molto conservatori nel continente.

Una parentesi in questa parentesi: nel 2019 c’è stato un controllo della OEA nel processo elettorale, mentre nel 2020 l’ONU ha avuto un maggior protagonismo e l’Europa è stata molto presente, spiazzando in un certo modo gli Stati Uniti. Hai qualche ipotesi del perché?

—Quello che succede è che il nostro compito con Evo è stato quello di chiedere all’Europa, alla Fondazione Carter e alle istituzioni continentali che vadano a osservare. Non che vadano a tutelare qualcosa, solo che vadano a osservare e a denunciare qualsiasi irregolarità. Quindi l’OEA è sbarcata con tutta la sua truppa, però lì c’erano una gran quantità di osservatori dell’Unione Europea, di parlamenti di paesi latinoamericani ed europei, la Fondazione Carter, la Fondazione di ex presidenti, dispiegando una struttura logistica affinché non ci fossero irregolarità. Per questo la presenza dell’OEA è stata diluita. Il contesto internazionale mobilitato per la trasparenza delle elezioni in Bolivia ha aiutato moltissimo affinché l’OEA non facesse come nel 2019.

Torniamo alla domanda che era rimasta in sospeso: il  nuovo governo si insedia in un contesto di crisi economica, ti preoccupa la possibilità che si veda obbligato a fare troppe concessioni per ottenere stabilità politica?

—Quando ci siamo insediati nel 2005 abbiamo trovato un contesto avverso, però abbiamo saputo prendere un insieme di decisioni specifiche che hanno permesso a medio termine di superare quell’avversità. Una di quelle è stata nazionalizzare aree di alta rendita e non nazionalizzare aree di bassa rendita. Potremmo aver nazionalizzato la linea aerea, che costava 200 milioni di dollari. Ma per cosa? Era una zavorra, non c’era motivo di nazionalizzarla, per quanto tu voglia la sovranità aerea. Non ti tiri dietro un morto. Abbiamo nazionalizzato gli idrocarburi perché qui c’era un guadagno. Altre miniere non le abbiamo nazionalizzate perché non erano redditizie. Sembra molto pragmatico, però, fai con il bilancio tagliato? Lo sprechi saldando i debiti dei privati? Questo non è nazionalizzare, è privatizzare più risorse pubbliche. Concentrati dove ci sono risorse: abbiamo acchiappato idrocarburi e telecomunicazioni. Questo ha permesso allo Stato di avere un surplus già l’anno successivo.

Abbiamo nazionalizzato le telecomunicazioni con 100 milioni di dollari, che è quanto ti  genera di guadagno all’anno. In idrocarburi abbiamo pagato circa 600 milioni di dollari in vari anni, però avevamo una rendita petrolifera di 1500 dollari l’anno, che presto diventarono 2000 e quando i prezzi del gas sono saliti la rendita ha raggiunto i 4500 milioni di dollari di guadagno liquido per lo Stato. Questo ti permette di generare politiche pubbliche.

Ora non c’è molto margine per questo.

— E’ un altro contesto evidentemente, però bisogna vedere quali aree generano surplus. Se non ce ne sono, allora bisogna implementare altre opzioni. L’abbiamo proposto nel programma di governo: non pagheremo il debito estero per alcuni anni, come ha fatto l’Argentina. Sono 600 milioni di dollari all’anno per la Bolivia. Con questo non si costruisce un enorme investimento pubblico, noi l’abbiamo lasciato a 8000 milioni l’anno, però è già qualcosa. Altro è l’imposta sulle grandi fortune, che non ci sono in Bolivia. È prevista per persone che abbiano un’entrata annua di oltre cinque milioni di dollari. Bisogna applicarla perché non vai a togliergli le loro imprese, ma le ricchezze che hanno accumulato bisogna iniettarle nel paese. P

oi ci sono soldi che sono comparsi nei paradisi fiscali. Come funziona il paradiso fiscale? Sei esportatore di soia, la vendi agli USA a 400 dollari la tonnellata, però in Bolivia registri che l’hai venduta a 200: quell’extra rimane a Panama, nelle  Isole Vergini. Però c’è un registro di questo. Di fatto la famiglia di Camacho compare nella ragnatela dei Panama papers: suo padre ha evaso, è un crimine. Quindi puoi fare una specie di amnistia. Se lo riporti nel paese e lo reinvesti è tuo, e non c’è alcun tipo di castigo. Se non lo rimpatri, ecco che cominciano i debiti e le penali. E paghi o paghi. Poi bisogna riorientare il denaro delle banche. Quello che abbiamo fatto noi è stata una specie di fusione leninista del capitale bancario con quello produttivo: 60% del denaro delle banche, per legge, si presta al settore produttivo a un tasso fisso del 5%. Questo ti inietta denaro nell’economia, per generare impiego, a tassi ragionevoli. Poi, le politiche redistributive tramite salario e trasferimenti in paesi come i nostri, dove i settori popolari spendono il 48% in alimentazione da produttori locali.

Quel denaro torna a circolare, ti dinamizza l’economia. Buona parte del salario del popolo ritorna, è un reinvestimento. Quando si dice che il salario è inflazionario, non è così, nei settori popolari non solo è un fatto di giustizia, ma è anche parte della dinamica del mercato interno del piccolo e medio produttore. Il governo attuale ha dato denaro alle banche, alla maniera nordamericana, affinché loro lo facciano sgocciolare al settore. Nossignore, non è così: bisogna dare in basso, affinché dal basso veda verso l’alto. Non al contrario.

Credi dunque che esiste una possibilità di miglioramento economico a breve termine che sia palpabile per la popolazione?

—Sì, per recuperare quanto perduto durante quest’anno disastroso non solo per la pandemia ma per la pessima gestione di questa gente. Però, chiaro, gli strumenti sono più limitati di quelli che abbiamo conosciuto a partire dal 2008, 2009, 2010. L’importante è che la gente veda che quello che stai facendo, il poco, medio o molto che stai facendo, da priorità alla gente più bisognosa e non stai privilegiando i pochi. Perché potranno esserci momenti di scarsità e problemi, però se usi il poco denaro per darlo a quelli che hanno di più, allora va male.

Non pensi che ci sia un problema nella struttura economica che diventa un corsetto, in modo tale che si arriva a un limite in cui non ci sono altre opzioni che frenare l’impeto egualitario e retrocedere o mettere in discussione la struttura?

—Il problema del post-capitalismo non si risolve mediante un decreto, non è questione di statalizzare tutto e ti trovi già nel socialismo. Non è così. Ci sarà un sistema diverso dal capitalismo nella misura in cui la società vada democratizzando i rapporti di proprietà e di produzione. E questo non lo fai per decreto. I governi non fanno socialismo, la capacità di emergere del socialismo dipenderà dal fatto che la società democratizzi nei fatti i rapporti di proprietà e i rapporti di produzione. E un governo progressista può appoggiarsi a questo per irradiarlo. Chiaro, c’è un’immagine che il socialismo sia un fatto di decisione, con l’avanguardia che fa prendere un’altra direzione alla storia. Questo non funziona.

L’unica maniera è che la società si veda costretta da certe circostanze a socializzarlo, a occupare, a controllare, a gestire. E se succede, lo accompagni, te ne metti alla testa; però se non succede, se quello che esiste è una lotta per riconoscimenti, per redistribuzione, per partecipazione, affianca quella lotta. I limiti di un governo progressista soni i limiti della stessa società. E se la società si radicalizza, magari lo facesse, verso degli orizzonti post-capitalisti, un governo progressista deve accompagnare quell’esperienza e supportarla. La domanda è: si pone nell’azione collettiva, nel movimento sociale, la possibilità di costruire un orizzonte socialista oggi in America Latina?

No. Però ci sono orizzonti post-capitalisti che sono sorti in questo secolo e non sono eredi del socialismo.

—Per esempio?

I femminismi, l’ambientalismo, le economie popolari, movimenti che mettono in discussione il dominio del capital, la logica dello sviluppismo e la modernizzazione, incluso quando si pongono i maniera pluralista come avete fatto voi. D’altro canto mi ha colpito un tuo articolo recente su “las pititas, dove sostieni che le classi medie sono portatrici del fascismo. Si tratta di una questione estesa nei governi progressisti: la perdita della capacità d’interlocuzione con i settori urbani, soprattutto nelle grandi città.

—E’ un tema molto importante e complesso. Ogni società ha una storia propria dei settori medi. Nel caso boliviano è una storia molto recente. Le classi medie, quelle tradizionali, sono  emerse post 52, stiamo parlando di una storia di cinquanta anni. L’Argentina ha una storia di oltre cento anni. E questo sedimenta. E stabilisce un altro tipo di legame. Nel caso della Bolivia una parte di questi settori medi ha puntato molto sul neoliberismo, per questa narrativa, per questa illusione di modernità, di globalizzazione, di cosa fica, new age, certo femminismo, certo multiculturalismo, certo ecologismo. E ha puntato molto su questo neoliberismo progressista che è emerso nel mondo intero. E quando ha cominciato a mostrare crepe, debolezze, esaurimento, una parte di questo settore che ha puntato su Sanchez de Lozada, sul progetto più globalizzante, ha cominciato a guardare con molto interesse al popolare che emergeva. E quello che ha fatto il nostro progetto è stato raccogliere questo settore, l’ha incorporato, però non ha privilegiato la classe media, per quanto fosse influente, quello che ha privilegiato sono state le politiche di mobilità sociale dei settori più impoveriti, più emarginati.

Ti esemplifico: mentre un salario minimo di un operaio, di una casalinga, o di un lavoratore di una piccola bottega, era di 50 dollari nel 2005, durante il nostro governo l’abbiamo portato a 300. Il salario di un professore universitario, con anzianità di 20 anni, che prendeva 2000 dollari, durante questi anni è salito a 2500 dollari. Non è ribassato, però è salito in una proporzione minore. Non si è colpita la sua economia, però si è migliorato di più per quelli in basso. E al momento degli oneri fiscali, a questo settore che veniva dal basso non sono stati aumentati gli oneri fiscali; mentre a coloro che avevano entrate migliori non sono stati aumentati, ma è stato adeguato l’adempimento dei loro oneri fiscali. Quindi questo ha innervosito questo settore di classe media. Il suo innervosirsi non è tanto un fatto ideologico, è prima di tutto un fatto materiale.

Quel malessere si è andato accumulando, si è andato condensando, è stato verbalizzato e ha costituito narrativa contro il governo estrattivista. Evo, con una misura giusta di austerità, si riduce il salario e stabilisce un decreto secondo il quale nessuno nel settore pubblico poteva guadagnare una cifra superiore. Un presidente guadagnava in Bolivia 35 mila bolivianos, Evo lo abbassa a 15 mila, più della metà. Q poi, spinto dagli accademici, l’ha alzato fino a 20 mila, ma c’era un stop. Mentre il settore più in basso andava salendo sempre più. Il lavoratore di base, con formazione media, ha accumulato un aumento del 400% in dodici anni, quando l’inflazione era arrivata al 50% in quei 12 anni. Pertanto, i processi di miglioramento sociale hanno avuto una geometria differenziale o una velocità differenziale: in basso sono stati più rapidi e in alto più lenti.

Che cosa è successo? C’è stata una gigantizzazione dei settori medi. Di fatto, si calcola che in dodici anni si è creato lo stesso numero di persone con entrate di quante nei 50 anni precedenti. Erano tre milioni di persone che rappresentavano il 30% della popolazione, e si è creato un altro 30% di persone con entrate medie in un decennio. Pertanto la tua posizione, che non si è abbassata, si è svalutata. Perché ora competi con altri per l’insieme delle opzioni di lavoro,  di consulenze, di piccole imprese per rifornire di materiali i municipi. E ti trovi persino un poco svantaggiato perché quelli nuovi portano il capitale etnico, indigeno, più apprezzato ora, nell’ambito statale, della bianchezza. Un figlio del dirigente sindacale, o figlio di operaio, o di comunale, che è andato all’università e messo su una piccola impresa per rifornire di carta il ministeri del Lavoro, aveva migliori opzioni per quella contrattazione perché suo papà conosce il ministro che è dirigente sindacale.

Quello che hai visto a novembre è un rifiuto dell’uguaglianza, una mobilitazione contri l’uguaglianza, contro gli indios, perché gli indios dovrebbero continuare ad essere indios, ad essere operai, dipendenti, casalinghe, facchini nelle strade, venditrici nei mercati, e non con i figli all’università, persino private, e che si comprano un appartamento nel tuo stesso edificio, dove vive la gente bene, la gente con un cognome. Questo è andato accumulandosi ed è esploso. In questo contesto il tema ecologico è stato un discorso, diciamola così, strumentalizzato. Perché durante questi mesi del 2020 si sta bruciando il bosco in Bolivia nella medesima quantità dell’anno scorso. È uno scandalo, però non ci sono manifestazioni, non ci sono gli influencer a convocare contro questo governo depredatore.

C’è evidentemente una tematica ambientale che la sinistra deve raccogliere. Non puoi fare cose di sinistra se non raccogli la problematica ambientale. Però c’è anche un ambientalismo conservatore e molte volte di posa, certi settori di sinistra, ong, che l’anno scorso hanno incendiato le reti, hanno incendiato la discussione contri un governo estrattivista che stava bruciando i boschi della Bolivia, però quest’anno non gliene è importato nulla che si stia bruciando la stessa quantità di boschi e non reclamano niente.

Ma un governo sviluppista può realmente assumersi la sfida che significa la questione ambientale da parte dello Stato?

—Lo deve fare. Perché il problema ambientale ti connette con la tua eredità indigena che è legata alla natura come un ente vivo, dal quale estrai anche cose, però negozi e rinnovi il ciclo di dare e ricevere in funzione delle generazioni future. Pertanto, non ci può essere un governo d’impronta indigena che non recuperi permanentemente quella tematica. E forse è un tema sensibile anche per le nuove generazioni urbane. Però credo che nel nostro caso si sia sovradimensionato. Ti fornisco un dato: si dice che abbiamo depredato i boschi per farli diventare terreni per l’agroindustria. La quantità di terra che si usa per l’agricoltura in Bolivia è il 3%, includendo l’agroindustria e il settore contadino. La Germania, che vive della sua industria, che è la fabbrica d’Europa, utilizza il 15% delle sue terre per l’agricoltura, ed è un paese verde, che ha le tecnologie più potenti del mondo.

Se volessimo usare il 4% dell’agricoltura, che è molto meno di quello che usa qualsiasi altro paese dell’America Latina, è presentato come un olocausto della natura. C’è una valutazione esagerata dell’estrattivismo. Sono cose nel quadro della prudenza. Stai attento, prenditi le tue responsabilità, però non facciamo ricadere sui nostri popoli dell’America Latina, la responsabilità. Mi oppongo a questo senso di colpa di un paese e di una popolazione che emette gas serra, misurato in tonnellate, che sono la decima parte di quello che fa un ecologista in Europa, con tecnologie verdi, auto, elettricità, perché il suo sistema di vita emette gas serra dieci volte di più del compagno in Bolivia, Argentina, o Colombia, che ha un livello di vita normale medio basso. Non puoi far ricadere su di lui la responsabilità di salvare il mondo. Assumiti le tue responsabilità, sostituisci la tua energia fossile con energia alternativa. Il 13% in Bolivia viene già da energia alternativa. Dovrebbe essere un poco di più, gli europei hanno deciso molto di più. Però passare dallo 0 al 13% in dieci anni è un buon passo.

E il nostro obiettivo nel 2025 è che il 25% dell’energia consumata internamente sia alternativa. Vedere sostituti alle esportazioni di gas e di petrolio, senza perdere le entrate che servono per creare condizioni minime di salute e istruzione. Però non depositiamo sui nostri popoli la responsabilità di caricarci sulle spalle uno sforzo che deve essere condiviso da tutto il mondo. Non puoi chiedere a tutto un paese che smetta di produrre petrolio domani stesso perché sei complice della distruzione del mondo. Come smetto di esportare petrolio, che mi genera due mila milioni di dollari d’entrate, con che lo sostituisco? Almeno abbiamo bisogno di un periodo di transizione ambientalista, affinché la tematica ecologica venga accompagnata e non divorzi dalla problematica sociale. Credo che ci sia un punto di vista ambientalista che ha fossilizzato il sociale e si concentra sull’ambientale.

Perciò il sociale è parte del paesaggio. Sono gli indianucci delle cartoline e vorrebbero che fosse sempre così. Però quel compagno indigeno vuole la sua scuola, vuole la sua autostrada, vuole il suo ospedale, vuole internet, vuole la sua energia elettrica. Vuole condizioni che devi contribuire a ottenere. Questo devi farlo articolando misure ambientali con misure sociali. Non puoi dare la priorità alle misure ambientali lasciando da parte il sociale. Sì all’ecologismo, però con risposte alle necessità sociali.

Per terminare, come percepisci che saranno i prossimi mesi, i prossimi anni, che tappa vivremo nell’immediato? Non ti chiedo che tu trasmetta i tuoi desideri, ma la tua analisi.   

—E’ un tempo molto caotico per il mondo intero. È un tempo che non ha un suo destino scritto. È sempre un po’ così, però le egemonie ti fanno credere che già è scritto quello che verrà. Perché quando la gente non solamente vive un destino che non è già scritto, ma che crede che il destino non sia scritto, che quello che sta accadendo oggi e non solo in un gruppo di filosofi o militanti, ma in generale, in una specie di senso comune condiviso, allora ci sono momenti molto intensi e molto creativi. Ci può essere un’uscita molto conservatrice, che riscriva l’orizzonte di predizione nel cervello delle persone del popolo; o ci possono essere uscite molto più progressiste.

Quindi è un tempo ambivalente, perché può essere segnato da molto dolore, da molta sofferenza, da tragedie; però può essere segnato anche da grandi atti di eroismo, d’invenzione collettiva che facciano spingere il mondo in maniera positiva. Credo che questi tempi saranno così, molto turbolenti, ed è una grande sfida per le forze di sinistra e progressiste sapere che non ci saranno tempi normali. Non andare a cercare normalità, non ce ne sarà. Nella turbolenza bisogna andar creando linee d’azione, collocarti sulla cresta dell’onda per non affondare e non essere fatto a pezzi dalla stessa onda. Si richiede molta creatività e saper che è tutto molto volatile.

Non credo che si possano ripetere quei dieci anni, 2005-2015, di vento in poppa, questo non accadrà per nessuno nel mondo. Neanche per le forze conservatrici, né per le forze di sinistra. E si dovrà mettere permanentemente a prova la tua capacità di afferrare il tempo innovando le proposte, iniziative, discorsi. È un tempo altamente produttivo che vale la pena di vivere. Non c’è tempo migliore di questo per chi si impegna nella storia. Piccole azioni ben dirette e sistematizzate possono generare grandi effetti in diversi lati. Se uno viene dall’impegno di sinistra, progressista, rivoluzionario, questo è il suo tempo. Non per le vittorie che ci saranno, perché possono esserci vittorie straordinarie o temibili sconfitte. Un anno fa, quando siamo uscito dalla Bolivia il 12 novembre del 2019, chi avrebbe mai pensato il giorno dopo in Messico che avremmo vinto le elezioni un anno dopo?

Nei tuoi calcoli l’esilio sarebbe stato molto più lungo? 

—Sì, sì. Sapevo che sarebbe stato breve, ma non così breve. Non era un progetto, non aveva orizzonte, era una vendetta e questa ha le gambe corte, però le gambe corte possono durare quattro o cinque anni. E invece no. Questo tipo di modifiche dello scenario politico potrebbe essere una norma planetaria, dagli Stati Uniti alla Cina… anche se forse la Cina è il luogo più stabile, ma pure lì attraverseranno problemi. Voglio dire che è un mondo così. Credo che sia un grande momento per impegnarsi, per lottare, per organizzarsi, per inventare, per essere giovane. Quindi io vi invidio molto perché in una certa maniera anche il tempo è oggi. Il tempo è oggi. Però non sappiamo dove va.

E tu che farai ora?

—Quello che ho sempre fatto, sono un comunista, un cospiratore. Organizzare e formare. Credo che posso trasmettere certe cose alle persone, alle nuove generazioni. Quello che si deve fare ora non ha che vedere con una ripetizione di quello che abbiamo fatto, però può aiutare a non commettere molti errori che si sono imparati in tutto questo tempo. E mettere il naso nel futuro. Mi vedo in una funzione che ho avuto prima di stare alla vicepresidenza: scrivere, dare conferenze, tenere corsi, formare quadri politici, organizzare nel mondo sindacale, organizzare nel mondo agrario contadino, fare televisione, fare radio, darmi da fare per il senso comune, per nuovi sensi comuni. L’ho fatto da quando avevo 14 anni e suppongo che morirò facendo questo.

Hai voglia di tornare in Bolivia?

Sì, dobbiamo tornare in Bolivia. Bisogna aspettare che ci siano le condizioni minime di stato di diritto per poter rientrare come cittadino comune, e difendermi come cittadino comune, senza la paura che ti incarcerino per il tuo cognome o nome, che è quello che è successo durante tutto questo tempo. Appena ci siano queste condizioni minime di stato di diritto torneremo a fare quello che abbiamo sempre fatto.

Guarda l’intervista in video entrando qua.

*https://revistacrisis.com.ar/notas/bolivia-no-tiene-escrito-su-destino

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