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Kamala Harris, una “sbirra” alla Casa Bianca

Il cursus honorum di Kamala Harris non è quello della paladina della giustizia sociale, della lotta per l’uguaglianza di genere, delle battaglie per i diritti in un paese, gli USA, che pure ne avrebbe estremamente bisogno.

Questo ruolo le sta venendo surrettiziamente affibbiato stimolando una banale associazione di idee o “luoghi comuni”, a partire dal fatto che visivamente non incarna certo la tipica identità del “maschio wasp”, che da sempre domina nelle scelte dell’establishment. E questo appare già una “novità”, come già lo fu Obama, in una nazione in cui l’establishment rappresenta settori ben precisi della popolazione: lo strato dei milionari.

Ma è un’operazione quanto mai artefatta e che necessita una contro-operazione di “debunking”, volta a non farci cadere nell’utilizzo dell’ennesima figurina elettorale buona per rispondere, in maniera davvero palese, alle esigenze di un Partito Democratico statunitense alle prese con contraddizioni che stanno lacerando il tessuto sociale del paese.

Nell’articolo che abbiamo tradotto, pubblicato nel luglio di quest’anno dal bisettimanale liberal-progressista con sede a Washington, The American Prospect, l’autore Alexander Sammon ci racconta i particolari di una vicenda piuttosto recente che sembra essere stata velocemente messa nel dimenticatoio, ma che ha visto la futura vicepresidente degli USA coinvolta a pieno titolo in un tentativo anticostituzionale di mantenere migliaia di detenuti comuni in cella e utilizzarli come manodopera gratuita oltre i termini di legge. Il tutto mentre vestiva i panni di procuratrice generale dello stato della California.

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Come Kamala Harris si è battuta per mantenere dietro le sbarre detenuti accusati di reati non violenti

 *  The American Prospect, 30 luglio 2020

Come procuratore generale della California, ha trascorso anni a sovvertire una sentenza della Corte Suprema del 2011 che richiedeva allo Stato di ridurre la popolazione carceraria. Il collegio giudicante sovrintendente la disputa si è trovato vicino a intentare contro lo stato un’accusa di oltraggio alla corte.

Secondo i documenti legali esaminati da Prospect, la senatrice Kamala Harris, uno dei principali candidati per essere il compagno di corsa di Joe Biden, ha ripetutamente e apertamente sfidato una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che stabiliva la riduzione del sovraffollamento nelle carceri della California mentre prestava servizio come procuratrice generale dello stato.

Lavorando in tandem con il governatore Jerry Brown, Harris e il suo team legale presentarono mozioni che sono state condannate da giudici ed esperti legali come ostruzioniste, in malafede e prive di senso, a un certo punto suggerendo persino che la Corte Suprema non avesse la giurisdizione per ordinare una riduzione nella popolazione carceraria della California.

L’intransigenza di questo lavoro legale ha portato i giudici che presiedevano il caso a prendere in seria considerazione la possibilità di attivare nei confronti dello Stato della California una procedura di oltraggio alla corte.

Gli osservatori mostravano preoccupazione rispetto al rischio che il comportamento dell’ufficio di Harris avesse minato la capacità stessa dei giudici federali di far rispettare i loro ordini legali a livello statale, spingendo il sistema giudiziario federale sull’orlo di una crisi costituzionale.

Questa estrema resistenza a una sentenza della Corte Suprema è stata fatta per impedire il rilascio di meno di 5.000 autori di reati non violenti, che diversi tribunali avevano autorizzato in quanto presentavano quasi nessun rischio di recidiva o minaccia per la sicurezza pubblica.

Nonostante un’inequivocabile direttiva della Corte Suprema che assegnava alla California il compito di identificare un congruo numero di prigionieri destinati a essere rilasciati nell’arco di due anni, confermando una sentenza del 2009 che imponeva la stessa azione per la stessa tempistica, lo stato trascorse la maggior parte di quel periodo oscillando in un tira e molla tra dubbie dichiarazioni legali e plateale disprezzo.

All’inizio del 2013, divenne chiaro che lo stato non aveva alcuna intenzione di conformarsi alle disposizioni, portando a una serie di scambi sorprendentemente agguerriti.

Mentre la campagna presidenziale alla fine infruttuosa di Harris ha visto sorgere domande sulla sua criminalizzazione dell’assenteismo e sulla sua reputazione di “dura” nei confronti del crimine, durante il periodo in cui vestì i panni di procuratrice distrettuale di San Francisco, il suo ruolo nel caso dello svuotamento della prigione della California è finito in gran parte fuori dai radar, sebbene sia stato denunciato al tempo.

Mentre crescono le preoccupazioni per i sovvertimenti della legge da parte di Donald Trump – lui, insieme al suo procuratore generale, William Barr, sta attualmente sfidando una sentenza della Corte Suprema, rifiutandosi di riavviare il programma Deferred Action for Childhood Arrivals – stride il fatto che la principale candidata alla vicepresidenza democratica sia stata impegnata in uno scontro istituzionale relativamente simile.

Su questa vicenda, l’ufficio della senatrice Harris deve ancora rispondere a una serie di domande di Prospect.

Come ha fatto l’ufficio di Harris a trasformare in un fallimento costituzionale un semplice ordine del tribunale per rilasciare prigionieri a basso rischio per impedire pene crudeli e insolite?

I tribunali federali raramente intimano il rilascio dei prigionieri; è un rimedio da ultima spiaggia. Ma la California era un caso unico, con il suo sistema carcerario straordinariamente orribile. Al suo culmine, era riempito a circa il 200 percento della sua capienza prevista. Non c’erano abbastanza letti o personale medico, ma un eccessivo eccesso di persone.

Eclatante il caso di una prigione in cui 54 detenuti condividevano un unico bagno; le morti evitabili dovute a cure mediche scadenti e approssimative si verificavano ogni 5-6 giorni; detenuti con tendenze suicide venivano rinchiusi in celle delle dimensioni di una cabina telefonica per 24 ore alla volta.

Per quasi due decenni, le amministrazioni repubblicane e democratiche avevano sostanzialmente ignorato il problema, nonostante le protezioni costituzionali previste per i prigionieri contro punizioni crudeli e spropositate, come sancito dalla Carta dei Diritti.

Infine, nel 2009, un tribunale distrettuale federale ritenne che un rilascio forzato dei prigionieri fosse l’unica soluzione plausibile per ottenere che lo stato si conformasse a uno standard costituzionalmente ragionevole.

L’impegno di costruire rapidamente nuove prigioni, assunto già prima della venuta di Harris, non era considerato credibile, specialmente durante la Grande Recessione e con le limitate finanze della California.

Il tribunale distrettuale ordinò allo stato di emanare una serie di misure di scarcerazione per ridurre la popolazione carceraria al 137,5% della sua capienza entro due anni.

Lo stato presentò ricorso contro la sentenza del tribunale distrettuale e il 23 maggio 2011 la Corte Suprema emise una sentenza che valutava come il sistema carcerario della California violasse i diritti dell’ottavo emendamento dei prigionieri.

Nonostante la sua inclinazione relativamente conservatrice, la Corte identificò il rilascio dei prigionieri come il metodo più efficace per porre fine alla violazione costituzionale dello stato in modo tempestivo.

Il verdetto divise nettamente la Corte con un esito di 5 voti favorevoli e 4 contrari, con il conservatore giudice Anthony Kennedy che si era unito ai liberali della Corte. Sostenendo un mandato di un tribunale inferiore, Kennedy fu incaricato di scrivere il parere della maggioranza sul caso, nel quale erano inclusi una serie di dettagli raccapriccianti provenienti dall’interno di quelle prigioni, e veniva condannato lo stato per aver facilitato “sofferenza e morte inutili“, come le definiva la sentenza.

A quel punto, Kamala Harris era la procuratrice generale dello stato da poco più di quattro mesi, rappresentando la California come suo massimo ufficiale legale. Ma la sentenza della Corte Suprema avrebbe dovuto essere resa esecutiva sotto la sua vigilanza.

Ogni sei mesi, lo stato avrebbe dovuto dimostrare di aver diminuito la popolazione carceraria in conformità con una soglia controllata da una giuria di un tribunale distrettuale di tre giudici: 167% della capacità entro la fine del 2011, 155% entro giugno 2012, arrivando finalmente a il livello obiettivo del 137,5% entro giugno 2013.

Presto divenne chiaro che lo stato avrebbe opposto resistenza al rispetto dell’ordine giudiziario. Il 2011 passò con pochi progressi compiuti sul mandato di scarcerazione e nel 2012 si materializzò un rapporto che dimostrava che lo stato intendeva effettivamente aumentare la sua popolazione carceraria.

Nel maggio di quell’anno, l’ufficio di Harris “confermò la propria intenzione di non conformarsi all’Ordine, ma di cercare invece la sua modifica dal 137,5% della capacità di progettazione al 145%“, una modifica che non era consentita. Il termine per la conformità venne infine prorogato alla fine del 2013.

La Harris è stata criticata molte volte per aver tenuto in prigione persone anche innocenti.

Nell’aprile 2013, a soli due mesi dalla scadenza iniziale indicata in quella decisione della Corte Suprema, la California aveva ancora 9.636 prigionieri in più rispetto al tetto imposto dal tribunale. Lo stato presentò una proposta che prevedeva il trasferimento dei detenuti nei pressi di campi base dei vigili del fuoco per combattere gli incendi e che impedisse il rientro dei prigionieri presenti fuori dai confini dello stato.

Ma dopo la revisione, la giuria di tre giudici rilevò che questa ipotesi lasciava ancora nelle carceri della California circa 4.170 prigionieri oltre il limite massimo.

Dopo una serie di tira e molla, il collegio di tre giudici arrivò a una soluzione: l’espansione dei crediti di “buona condotta” per i delinquenti non violenti, abbreviando i soggiorni spesso solo di una manciata di mesi.

Anche lo stesso perito dello Stato aveva testimoniato anni prima che non si opponeva a misure di credito di buona condotta e che non c’era correlazione tra durata del soggiorno e recidività, il che significa che la popolazione non era a rischio. Altri stati, Washington, Illinois, persino New York – tradizionalmente rigido contro la criminalità – avevano implementato questi programmi con successo.

La corte ritenne che i crediti di buona condotta da soli sarebbero stati più che sufficienti per colmare il divario e risolvere il problema per sempre. Circa 5.385 detenuti erano idonei per il rilascio con tramite questi crediti.

Ma il governatore Brown, con Harris come suo avvocato difensore, non era d’accordo. L’ufficio di Harris si lanciò in una campagna di ostruzione totale, rifiutandosi di rispondere al motivo per cui non potevano semplicemente rilasciare detenuti non violenti a basso rischio per conformarsi alla richiesta della Corte Suprema. “Gli imputati non hanno offerto alcuna spiegazione, tuttavia, sul motivo per cui non potevano rilasciare in anticipo i prigionieri a basso rischio“, afferma la sentenza del giugno 2013.

Ma l’ufficio di Harris non si fermò qui. Anzi, rifiutandosi di rispondere alle domande su come avrebbero implementato la sentenza della Corte Suprema e stimolando così una crisi costituzionale, affermarono a nome dello stato che la Corte Suprema non aveva giurisdizione nemmeno per richiedere tale rilascio.

Ciò ha provocato un rimprovero incredibilmente acuto da parte del collegio dei tre giudici del tribunale distrettuale in una sentenza del giugno 2013.

Quando venne chiesto entro quale data lo stato avrebbe potuto identificare il proprio elenco di prigionieri di cui fosse improbabile prevedere una recidiva, “gli imputati hanno rifiutato con aria di sfida“, scrissero i giudici, “e hanno affermato, in modo piuttosto sorprendente, che la nostra allusione al fatto che potremmo ordinare agli imputati di sviluppare un sistema per identificare prigionieri a basso rischio, un sistema che la Corte Suprema aveva suggerito di prendere in considerazione ordinando agli imputati di svilupparlo ‘senza indugio’, sia un ordine di rilascio dei prigionieri che supera di gran lunga la portata di qualsiasi ordine precedente della Corte“.

La Corte Suprema, infatti, nella sentenza del 2011 aveva stabilito che il collegio dei tre giudici del tribunale distrettuale avesse esattamente quell’autorità nella sua sentenza del 2011. “Secondo un ragionamento tutt’altro che lineare“, proseguiva il tribunale distrettuale, “gli imputati hanno insinuato che la dichiarazione della Corte Suprema ‘non autorizzava il rilascio anticipato dei prigionieri’, o anche solo l’esame di tale questione“.

La sentenza aggiungeva che “l’ufficio del procuratore generale Harris continuava a equivocare per quanto riguardava i fatti e la legge“, al punto che il collegio fu davvero vicino ad accusare lo stato di oltraggio alla corte.

Non optarono per quella scelta solo perché avrebbe ritardato ulteriormente il rilascio dei detenuti non violenti e avrebbe così aiutato la campagna di ostruzionismo dello stato. “Questa Corte sarebbe quindi nel suo diritto di emettere un ordine per stabilire un’ordinanza di giustificazione e avviare immediatamente un procedimento di oltraggio“, si legge nella sentenza.

La nostra prima priorità, tuttavia, è eliminare la privazione delle libertà costituzionali nel sistema carcerario della California. Per fare ciò, dobbiamo prima garantire una riduzione tempestiva della popolazione carceraria“.

Harris, ovviamente, agiva per conto del governatore dello stato, che l’aveva preceduta nel ruolo di procuratore generale ed era altrettanto noto anche per la sua posizione su questo tema. Ma avrebbe comunque potuto scegliere di non sfidare la Corte Suprema.

Il suo lavoro legale, in particolare, non solo attirò l’ira della corte, ma fece anche sollevare le ciglia agli osservatori. “La sfida all’ordinanza del tribunale federale che richiedeva la riduzione della popolazione dei prigionieri della California ricorda la vicenda dei governatori del Sud degli anni ’50 che dichiararono la loro sfida agli ordini di desegregazione della corte federale“, disse all’epoca all’emittente NPR Erwin Chemerinsky, preside della Facoltà di Legge della UC Berkeley.

Entrambi sono stati sforzi fuorvianti per minare l’applicazione della Costituzione“, aggiunse Barry Krisberg, presidente di lunga data del Consiglio nazionale su criminalità e delinquenza, “Gli argomenti legali che lo stato sta avanzando non hanno senso“.

Nel frattempo, il mensile The Atlantic fu ancora più spietato nel commentare il comportamento di Harris, scrivendo che “le sue dichiarazioni in tribunale sono in gran parte prive di fatti dispositivi e indegne addirittura di un avvocato di primo pelo, tanto meno del principale avvocato dello stato più popoloso della nostra nazione“.

Secondo lo scrittore Andrew Cohen, il comportamento di Harris potrebbe persino averla messa in violazione degli standard legali ed etici della California, che vietano di presentare una mozione “per uno scopo improprio, come procurare incidenti o causare ritardi inutili“.

In effetti, quel particolare comportamento viene condannato più volte nella sentenza della corte del giugno 2013: “gli imputati hanno ripetutamente trovato modi nuovi e inaspettati per impedire l’attuazione degli ordini di questa Corte“, ha denunciato il gruppo di tre giudici, e “hanno usato la pazienza e i tentativi in ​​buona fede di questa Corte per raggiungere una risoluzione come scusa per protrarre questi procedimenti legali con un ritardo che difficilmente avrebbe potuto essere immaginato“.

Il lavoro di Harris su quel caso probabilmente basterebbe da solo a escluderla da un salto a un incarico federale o a una nomina alla Corte Suprema, affermò Cohen.

L’utilizzo da parte di Harris dello stesso copione anti-desegregazione per prevenire il rilascio di autori di reati di basso livello alla fine fallì. Infine, nel 2014, lo stato si conformò e la popolazione carceraria venne ridotta.

Questa parentesi del mandato di Harris come procuratrice generale è sfuggita al recente riesame ravvicinato degli “highlights” lungo la sua carriera di pubblico ministero. Durante la sua breve corsa presidenziale, è riemerso un promemoria della fine di questa battaglia giudiziaria: come riportato da Jackie Kucinich del Daily Beast, alla fine del 2014 gli avvocati del suo ufficio affermarono che gli autori di reati non violenti dovevano rimanere in carcere, per non perdere manodopera per i campi dei vigili del fuoco nello stato infestato da incendi.

Harris si è affrettata a rinnegare il promemoria, sostenendo di non esserne a conoscenza e dicendo a BuzzFeed News di essere rimasta “scioccata” dall’argomento. Eppure esso è perfettamente in linea con il tipo di argomenti che il suo ufficio aveva precedentemente avanzato per molti anni.

Harris, tra l’altro, era nota per gestire il suo ufficio di procuratore generale in maniera estremamente centralizzata, con poche cose che entravano o uscivano senza il suo esplicito consenso. Con una sentenza emessa dalla più alta corte del paese, questo è stato uno dei casi di più alto profilo che ha gestito nel suo ruolo di procuratrice generale.

È improbabile che un caso estremamente alto che coinvolge un ordine di decarcerazione a cui ha resistito per anni sia sfuggito alla sua consapevolezza.

Data la posta in gioco delle elezioni di quest’anno e la volontà unica di Trump di ignorare i vincoli legali del suo mandato, appoggiare eccessivamente la Harris manderebbe un messaggio dubbio.

Naturalmente, Harris è stata criticata in più occasioni per essersi battuta affinché queste persone restassero prigione, inclusi innocenti.

Nel caso di Daniel Larsen, un ex criminale condannato all’età di 27 anni all’ergastolo, ai sensi della legge dei “tre colpi” della California (in alcuni Stati americani vige la norma per cui, in precise condizioni, dopo più di due condanne per reati gravi, può essere comminato il carcere a vita, ndt), Harris ha sostenuto “che anche se Danny fosse innocente, la sua condanna non dovrebbe essere revocata perché ha aspettato troppo a lungo per presentare una mozione”, stando a quanto riportato dal California Innocence Project, che aveva seguito il caso di Larsen.

E mentre la sua risoluta opposizione alla decarcerazione delle galere statali è in linea con quelle storie, il suo ruolo nel tentativo di sovvertire l’autorità del più alto organo legale del paese, al solo scopo di impedire il rilascio di un numero di prigionieri a basso rischio, non aveva incontrato praticamente particolari ostacoli.

Il suo ruolo nel bloccare l’ordine della Corte Suprema di riduzione della pena detentiva è profondamente preoccupante sotto molteplici aspetti. In primo luogo, con l’accresciuta importanza della riforma della giustizia penale nell’era di Black Lives Matter, un’energica opposizione alla decarcerazione sul biglietto da visita difficilmente comunica che il Partito Democratico è “dalla parte della giustizia razziale”.

In secondo luogo, mettere sul podio democratico qualcuno con una storia di sfida contro la Corte Suprema  minerebbe in modo significativo la promessa del candidato democratico Joe Biden di tornare all’era del governo pre-Trump, dove i tre rami del potere sono visti come coeguali e le corti sono rispettate.

Biden ha in programma di nominare il suo compagno di corsa la prossima settimana (l’articolo, come si vede, è largamente precedente la campagna elettorale e le elezioni presidencziali, NdR). L’importanza della scelta del vicepresidente è spesso esagerata. Ci sono poche ragioni per credere che in un modo o nell’altro possa influenzare l’esito di un’elezione presidenziale. Ma data la posta in gioco delle elezioni di quest’anno e la ferma volontà di Trump di ignorare i vincoli legali del suo mandato, sostenere Harris manderebbe un messaggio dubbio.

E dato l’impegno assunto da Biden di restare in carica per un solo mandato, Harris si inserirà immediatamente come il vicepresidente più potente della storia moderna, pronto per una corsa presidenziale come quasi titolare se Biden vincerà a novembre.

È anche probabile, data l’età dei giudici liberali della Corte Suprema Ruth Bader Ginsburg (poi effettivamente scomparsa e sostituita da Trump con l’ultraconservatrice Barrett, NdR) e Stephen Breyer, entrambi ottantenni, che un’amministrazione Biden e/o il suo successore saranno in grado di nominare più giudici (per i giudice della Corte Suprema è prevista la nomina da parte del Presidente, ndt).

Forse, se Harris avesse organizzato una campagna presidenziale più lunga, questi problemi sarebbero venuti a galla da soli. Ma data la sua partenza anticipata, il suo passato in un certo senso è sfuggito a un esame approfondito.

Nel tempo in cui è passata da promessa presidenziale a favorita vicepresidente, anche alcuni dei suoi critici più accaniti hanno cambiato il loro tono sul suo cursus honorum.

Il mese scorso, la professoressa di diritto dell’Università di San Francisco Lara Bazelon, che nel 2019 ha scritto un editoriale del New York Times molto discusso dal titolo “Kamala Harris non era un ‘procuratore progressista’“, è stata citata su NPR dicendo, invece, che Harris “Ha sostenuto le cause progressiste… la sua carriera è stata coerente, ed è stata brava.”

Ma, come mostra da solo il lavoro di Harris nel caso Plata, questa affermazione è lontana dalla verità. Non solo è stata una frequente nemica delle cause progressiste, ma si è opposta ad esse in modi così dubbi da minacciare di minare le stesse istituzioni in cui ha servito.

Se Harris deve essere scelta come il secondo funzionario esecutivo di più alto rango nel paese, è fondamentale avere un quadro completo della sua eredità tra aule giudiziarie e percorso politico. Joe Biden e il Partito Democratico dovrebbero essere lucidi riguardo al messaggio che la sua candidatura invierà all’elettorato sulle priorità del partito.

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