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Albania: l’anno zero della rivolta contro il neo-liberismo

I Balcani sono ridivenuti uno dei campi di battaglia politici nella contesa politica “a tre” tra USA, UE e Cina.

A marzo, nonostante l’opposizione di alcuni Paesi – tra cui la Francia, che aveva posto il suo veto l’autunno precedente – sono stati avviati i colloqui per l’allargamento dell’Unione Europea ad Albania e Montenegro, che dovrebbero andare a raggiungere  i 27 Paesi membri (dopo la Brexit).

Sempre a marzo, in piena epidemia, grazie ad una manovra organizzata da Washington, era caduto il governo di Albin Kurti in Kosovo.

Il processo di allargamento della UE potrebbe avere accelerazioni o “rotture”, visto che gli Stati Uniti hanno assunto nuovamente un alto profilo di intervento nell’area – vogliono sostituirsi all’Unione Europea nel ruolo di mediatore tra Serbia e Kosovo – e che Pechino sta aumentando l’influenza grazie allo sviluppo della Nuova Via della Seta, agli investimenti diretti e, non ultimo, l’aiuto medico-sanitario per sconfiggere il Covid-19.

La Repubblica Popolare ha la sua testa di ponte “logistica” in Grecia (il porto del Pireo ha avuto un impulso gigantesco dopo l’acquisizione), nella Serbia uno dei maggiori partner economici e punta ora sull’Est Europa, tradizionale bastione della politica atlantica dopo l’89.

Un altro tradizionale attore dell’area, come la Russia, sta consolidando la propria partenership strategica con la Cina e rimane comunque il principale antagonista della NATO.

L’accordo provvisorio che ha dato inizio ai colloqui per l’allargamento implica il tentativo di rinverdire il processo di integrazione europea, con la candidatura di quattro paesi dei balcani occidentali (su  sei), dopo quelli avviati con il Montenegro nel 2012 e con la Serbia due anni dopo.

Colloqui che non hanno assolutamente una garanzia di successo, considerando l’esempio della Turchia che li aveva iniziati nel 2005, ma che ora sembra essere “ai ferri corti” con l’Unione a causa della sua aggressiva politica nel Meditteraneo Orientale – per la quale è stata timidamente sanzionata dalla UE, il 10 divcembre scorso in sede di Consiglio Europeo  -, così come per il suo deciso coinvolgimento in Libia e, non ultimo, il suo ruolo avuto nel conflitto armeno-azero.

Proprio Ankara è l’altro soggetto che aspira ad avere un ruolo nella regione, complicando il risiko delle influenze “esterne”.

In questo contesto non si può fare un accenno alla Grecia, che ha raddoppiato il volume delle spese militari per il prossimo anno, insieme a Cipro il Paese che più spinge per l’estensione delle sanzioni alla Turchia, oltre ad essere sempre più una pedina fondamentale della NATO e della cooperazione tra USA ed Israele nel Mediterraneo Orientale.

Mentre i radar dell’informazione dovrebbero essere puntati su questa regione, con molti vecchi conflitti e altri in gestazione, e dove gli equilibri di potere sembrano in parte vacillare, ha avuto pochissimo risalto – diciamo quasi nulla – quello che è accaduto in Albania la scorsa settimana,

L’informazione mainstream non ha dato spazio ai problemi che stanno agitando le piazze del Paese e che si inseriscono in una ciclo più ampio di conflitto di classe.

Questi avvenimenti muovono da un profondo ed antico scontento sociale, inasprito dalla diffusione della pandemia Covid-19 che ha allargato le disuguaglianze, scoperchiato le gravissime lacune del sistema sanitario e ampliato il malcontento popolare.

Lo Stato ha risposto con l’inasprimento del controllo sociale e della repressione, tendenza culminata nell’omicidio per mano poliziesca del venticinquenne Klodjan Rasha a Tirana, diventato il detonatore di una rivolta contro lo status quo. Ossia proprio contro quell’establishment politico che dovrebbe guidare il processo di integrazione del Paese verso la UE e assicurare la propria lealtà alla NATO.

Qui di seguito un preciso inquadramento storico ed il quadro del contesto, oltre alla particolareggiata descrizione degli avvenimenti.

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Albania: l’anno zero della rivolta?

«Chi chiama colpo di stato una simile insurrezione o è uno dei peggiori reazionari oppure è un dottrinario irrimediabilmente incapace d’immaginare la rivoluzione sociale come un fenomeno reale. Poiché credere che la rivoluzione sociale sia immaginabile senza l’insurrezione delle piccole nazioni e, in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari terrieri, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale ecc, significa rinnegare la rivoluzione sociale…

Colui che attende una rivoluzione “pura” non la vedrà mai. Egli è un rivoluzionario a parole, che non capisce la vera rivoluzione»

(Lenin, L’insurrezione irlandese, in “Risultati della discussione sull’autodecisione”, luglio 1916)

UN INDISPENSABILE SGUARDO AL PASSATO.

Come in buona parte del mondo, anche in Albania le conseguenze delle norme di contenimento del contagio hanno avuto una direzione politica a forte impronta neo-liberista, così che la gestione del Covid-19 è stata di fatto regalata ad un settore completamente dipendente dai gruppi di interesse e di pressione stranieri (in primo luogo europei e turchi).

La conseguente crisi economica, in questo senso, è stata, come quasi ovunque, agganciata ad un appello all’unità nazionale, che mirava alla responsabilizazione dei comportamenti individuali senza chiamare in causa le responsabilità della classe dirigente o citare le differenze di classe.

In altre parole si ripeteva il famigerato ritornello che ha accompagnato tutte le scelte in materia di sanità che hanno interessato i governi occidentali, cioè che “il covid colpisce sia chi è ricco che chi è povero e dopo tutto siamo sulla stessa barca“, così che “tutti devono contribuire con il medesimo sacrificio“.

Nonostante la realtà sia molto distante da quella immaginata dal ceto politico, come anche suggerisce l’amara ironia degli slogan che vengono scanditi sui muri della capitale: “I ricchi vanno a curarsi in Turchia, i poveri crepino pure in Albania“.

Niente di diverso dalla retorica tipica dei governi di centrosinistra occidentali, con l’unica differenza che in questo caso si parla di Paese con un lungo, e partecipato, passato socialista, in cui oggi al governo c’è un partito politico di area “socialdemocratica” (uno dei pochi nell’Est Europa).

Passato socialista di cui l’Albania conserva la marginalità all’interno delle varie alleanze, prima durante la Guerra Fredda e oggi alla periferia dell’Occidentei.

Il paese, dalla guerra in Jugoslavia in poi – alla stregua di altri della regione,  coinvolti però direttamente nel processo di smembramento e della Jugoslavia – è diventato un avamposto della NATO, in cui ogni rivendicazione politica (anche dal basso) non poteva disgiungersi dal carattere sciovinista di certe rivendicazioni territoriali, che occupavano buona parte della discussione politica pubblica. É stato così a lungo, ma qualcosa nel frattempo è cambiato.

La terra promessa dal neo-liberismo è rimasta un monito demagogico e molti albanesi si sono resi conto che le promesse provenienti dal blocco occidentale erano in realtà più funzionali alle necessità di riassetto dell’ordine geopolitico, in un processo di espansione della NATO e di una sua configurazione in senso sempre più aggressivo, che non mirate alla creazione di un benessere diffuso o di una classe media, come dimostra la scarsissima rilevanza di investimenti da parte dei grandi monopoli occidentali.

Gli oligopoli occidentali hanno mostrato interesse esclusivamente per le materie prime (cromo) e per la forza lavoro a basso costo, ma nessuno per la reindustrializzazione del paese, accordandosi con una “borghesia compradoara” locale corrotta, dalla mentalità fortemente “ottomana”.

Una politica di gestione territoriale delle risorse e della forza lavoro dal carattere profondamente neo-coloniale nei fatti, tutt’altro che le favole sul «51esimo Stato d’America».

Contraddizioni che emersero violentemente già nel 1997, a seguito dell’esplosione di una bolla speculativa e del conseguente deafult che portò l’Albania ad un tentato colpo di stato da parte di Sali Berisha e ad una guerra civile che causò seimila morti e l’inasprimento dell’esodo di massa.

Avvenimenti che alcuni hanno giudicato come propedeutico allo smantellamento dell’arsenale d’epoca comunista e all’esclusione dell’Albania da una futuribile aggressione NATO nei confronti della Jugoslavia; il che sarebbe servito agli americani per gestire l’aggressione imperialista esclusivamente contro la Serbia e di scongiurare una crisi regionale in altri territori abitati da albanesi, ma già avviati al processo di avvicinamento all’orbita euro-atlantica (come l’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia), al contrario della Serbia di Milošević.

I FRUTTI AVVELENATI DEL NEOLIBERISMO: LA GESTIONE DEL COVID-19

Ecco come la gestione del COVID19 e delle insorgenze sociali, andrebbe inserita in questo quadro storico  di instabilità in cui, a monte, c’è la transizione dall’economia socialista passata attraverso la scellerata privatizzazione di quasi tutto il settore pubblico e, informalmente, anche della sanità; finita nelle mani di funzionari corrotti e di primari incompetenti, che chiedono il pizzo anche per la prescrizione del paracetomolo.

È in questo quadro che il governo di Edi Rama ha promesso, con toni pinochettiani – di gran lunga più arroganti di quelli del nostrano De Luca – di gestire la pandemia. Anche le misure eccezionali di prevenzione in realtà sono tra le più scarse dell’intera regione: a fronte di una delle  ondate più forti.

L’Albania è l’ultimo paese in classifica per la distribuzione di test (solo 29.779 per milione di abitanti), diversamente della Serbia dove sono stati 129.194 per milione e persino del piccolo Montenegro in cui, a fronte di una popolazione di poco più di 600.000 abitanti sono stati effettuati 108.000 tamponi (vale a dire più di un abitante su sei). Anche in Macedonia del Nord i tamponi sono stati quasi 40.000 per milione di abitanti.

La capienza delle terapie intensiva,  su tutto il territorio nazionale, può arrivare ad un massimo di 500 posti letto, per un paese di circa quattro milioni di abitanti.

Per non parlare degli aiuti economici per operai e famiglie; nella stragrande maggioranza dei casi ci sono stati licenziamenti senza alcuna copertura, nonostante le promesse del governo di dispiegare un aiuto di 40.000 leke (circa 330 euro) per chiunque non fosse stato nelle condizioni di lavorare per via del pericolo di contagio.

Aiuti che spesso arrivano nelle tasche di pochi e fortunati parenti di chi già lavora per l’amministrazione pubblica, come denuncia Organizata Politike, un’organizzazione di sinistra operante nel contesto universitario, ma anche politicamente attiva nei fatti che hanno interessato le agitazioni e gli scioperi dei minatori di Bulqiza dell’anno scorso.

Alle politiche di vera e propria assistenza/prevenzione, il governo ha preferito l’inasprimento delle misure di controllo per colpevolizzare i singoli cittadini per “comportamenti irresponsabili”, invece di disporre di misure efficaci per arginare la diffusione del virus.

Già nel marzo scorso Edi Rama, per chiarire il suo atteggiamento in materia di policy di contenimento, si prodigò nella condivisione di un video in cui veniva mostrata un’azione repressiva riguardante una manifestazione di protesta algerina del 2019. Peccato, però, che quelle immagini vennissero spacciate all’opinione pubblica come avvenute in Spagna come risposta alle infrazione delle misure anticovid e dunque costruite apposta per legittimare la repressione, perché avvenute “in un contesto Europeo” e quindi “legittimabile”.

Era solo questione di tempo che dalle parole si passasse ai fatti.

L’OMICIDIO DI KLODJAN RASHA

Infatti, la sera di martedì scorso, un ragazzo – Klodjan Rasha – stava uscendo a comprare le sigarette; viene fermato ad un tratto da una pattuglia che gli intima di fermarsi, a quel punto la polizia spara mossa dal sospetto che Klodjan fosse armato. Il sospetto poi non troverà alcun riscontro.

Immediatamente centinaia di giovani provenienti dai quartieri popolari di Tirana hanno cominciato a radunarsi pacificamente attorno all’edificio del ministero degli interni; dopo una serie di provocazioni sono cominciati gli scontri e la risposta da parte dei manifestanti, che hanno cercato di appiccare il fuoco alla sede del ministero e di colpire diversi commissariati.

Nelle ore successive la protesta ha cominciato a dilagare in tutto il territorio nazionale. A Durazzo, Alessio ed a Scutari, dove i manifestanti hanno tentato di distruggere la federazione locale del Partito Socialista.

Due giorni dopo, a causa delle pressioni insostenibili e nel tentativo di fare appello alla calma, il ministro degli interni Sander Lleshaj ha rassegnato le dimissioni. Ma agli occhi di molti questo resta un gesto insufficiente e di facciata, perché in realtà lo stesso apparato repressivo e giudiziario prosegue nella criminilizzazione e nella persecuzione del dissenso. i dimostranti vengono accusati da buona parte della stampa essere hooligans e teppisti pagati dal partito democratico o manipolati da potenze straniere che voglioni allontare l’Albania dal processo di integrazione euroatlantico.

Esemplare il caso del Ministro dell’Istruzione, che invece di accogliere le istanze dei manifestanti o di ammettere le responsabilità politiche del governo, ha dichiarato che avrebbe potuto mettere a disposizione degli adolescenti uno sportello di sostegno psichiatrico nelle scuole! Umiliando così un intero popolo e relegando la problematica ad una questione di disagio psichico individuale o di “squilibrio ormonale”.

Da notare l’atteggiamento dell’opinione pubblica occidentale su questi fatti, passati quasi in sordina, al contrario delle manifestazioni in Bielorussia contro Lukashenko, pubblicate e rilanciate da tutti i più grandi gruppi mediatici occidentale.

A conferma del cinico atteggiamento di buona parte della classe dirigente occidentale (inclusa quella “di sinistra”) che sposa totalmente la massima giolittiana per cui: “per i nemici la legge si applica, per gli amici si interpreta“.

CONCLUSIONI

Certamente non siamo alle porte di una processo “rivoluzionionario”. Il sistema di potere creato da Edi Rama è forte, come è anche profonda la presenza del suo partito all’interno dell’amministrazione pubblica. Ed è anche vero che la destra del Partito Democratico è sicuramente coinvolta nella direzione di alcune piazze.

Tuttavia, ricordano sempre i militanti di Organizata Politike, il PD si è dissociato fin da subito da ogni piega violenta della protesta invocando una distinzione netta tra “manifestanti buoni” e “cattivi”, il solito vecchio ritornello al quale in Italia siamo abituati da tempo…

Com’è anche vero che questa protesta, fattasi violenta negli ultimi giorni, è nel segno della continuità rispetto ad un ciclo di lotte che è cominciato due anni fa: prima con le proteste universitarie contro la riforma dell’istruzione, a fine 2018, poi con gli scioperi continui nelle miniere di cromo di Bulqiza e negli impianti petroliferi di Ballsh, contro la multinazionale canadese Bankers Petrolum ltd, multata nel 2019 per aver evaso 30 milioni di euro.

Sono proteste che hanno coinvolto un settore di società molto ampio, a direzione non sempre operaia, ma che per certi versi ricordano da vicino le proteste dei Gilet Gialli in Francia per via della loro eterongenea composizione di classe.

Proteste pacifiche, che non avevano visto il coinvolgimento violento della polizia, fino a qualche giorno fa… Ma che hanno riacceso e portato all’attenzione dell’opinione pubblica la questione della transizione al neoliberismo e messo seriamente in crisi il modello di espansione neocoloniale dei gruppi di interesse monopolistici occidentali e turchi, facendo emergere un problema di cui si evidenzia finalmente la sua natura politica, cosa che prima sarebbe stata impensabile per un paese dell’ex blocco comunista, e per lo più ai margini.

Sono proteste che, per la natura delle rivendicazioni politiche, molto difficilmente potranno essere egemonizzate dalla destra, sopratutto quella di Sali Berisha e Lulzim Basha, che hanno perso ormai ogni appeal nei confronti di settori più popolari della società civile.

La sfida che si pone la sinistra è molto simile a quella cui è stata sottoposta quella europea di fronte alle mobilitazioni sociali con un carattere spurio, come a Napoli, e ci sono buone speranze che contribuendo attivamente alla costruzione di un movimento si possa finalmente anche incidere in maniera significativa sulla ri-composizone di classe in senso politico e sulla rappresentanza politica in generale.

Che l’output politico possa insomma andare oltre la semplice rivendicazione riformistica o alla jacquerie. Ma in questo come in altri casi c’è sempre un anno zero, e da qualche parte bisognerà pur cominciare.

i L’Albania di Enver Hoxha uscì dal Patto di Varsavia per protesta contro l’intervento in Cecoslovacchia e per il timore di una eventuale replica; per supplire alla mancanza di grandi alleati l’Albania si avvicinò gradualmente alla Cina di Mao e in seguito alla rottura con quest’ultima il paese sprofondò in un periodo di significativa stagnazione e isolamento.

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