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Il Montenegro cambierà pagina dopo il terremoto elettorale?

Lo scenario politico dei Balcani occidentali sta in parte mutando.

Ai tradizionali attori dell’area, come Unione Europea e Russia, si sono aggiunti in tempi relativamente recenti la Cina, con i suoi ambiziosi progetti legati alla “Nuova Via della Sera”, e la Turchia con la poltica neo-ottomana del “Sultano” Erdogan.

I due principali processi che hanno riguardato i Balcani, dopo la disgregazione della ex Jugoslavia e l’agressione della Nato alla Serbia, a fine Anni Novanta, sono stati l’allargamento ad Est dell’Alleanza Atlantica e l’integrazione nell’Unione Europea.

Questi due dinamiche si sono svolte in in un contesto di “conflitti etnici” irrisolti ed una instabilità che sta riguardando sempre più la rappresentanza politica regionale, su forte spinta di emergenti contraddizioni sociali.

Il Montenegro, che si è “staccato” dalla Serbia nel 2006 ed ha ricosciuto il Kossovo nel 2008, è un crocevia delle contraddizioni che investono l’intera area.

Ha aderito alla NATO nel 2017 – nonostante anche la stampa mainstream riportasse che su questa scelta il Paese era spaccato a “metà”, con l’opposizione che chiedeva a gran voce un referendum – e sta negoziando con Bruxelles da otto anni la sua entrata nell’Unione, insieme alla Serbia.

Al meeting di Berlino della UE della primavera 2018, i toni di Francia e Germania erano stati piuttosto tiepidi nei confronti dei 6 Paesi che potrebbero integrare l’Unione. Insieme a Serbia e Montenegro, erano presenti i leader di Albania e Macedonia del Nord, che hanno poi avviato i colloqui nonostante il veto di Macron l’autunno successivo, oltre a quelli Bosnia Erzegovina e Kossovo, paese che non è formalmente riconosciuto da tutti i Paesi della UE.

L’espansione a est della UE, che dopo la Brexit perderà la Gran Bretagna, si era fermata nel 2013 con la Croazia, ma l’attuale fase di accesa competizione tra differenti attori politici nell’area, con il nuovo protagonismo degli USA nei Balcani, la penetrazione economica cinese e le aspirazioni turche, fanno supporre che l’Unione sarà costretta a fare dei balzi in avanti, se non vuole che i Balcani si trasformino nel proprio “ventre molle”.

Bruxelles ha recentemente varato un “pacchetto allargamento 2020”, accompagnato da un nuovo piano di investimenti infrastrutturali e strategici per la regione, presentato il 6 ottobre dal Commissario per l’Allargamento – l’ungherese Olivér Várhlyi – nel rapporto annuale della commissione.

Dopo il pacchetto da tre miliardi del giugno scorso per aiutare i Balcani occidentali a superare la crisi da Covid-19, si tratta di una manovra di medio periodo da 9 miliardi (non è specificato se si tratta di prestiti o contributi a fondo perduto), oltre ad un meccanismo di garanzia che dovrebbe attirare altri venti miliardi di investimenti pubblici e privati.

Al centro del pacchetto i lavori infrastrutturali (strade e ferrovie) e la transizione al gas come principale forma di energia, sullo sfondo di una guerra regionale del gas in cui le oligarchie europee intendono giocarsi le loro carte.

Una iniziativa alla cui base  è  palese una logica di scambio che lega in modo sempre più stretto l’effettiva distribuzione dei fondi a risultati visibili nel campo delle “riforme”, risorse che possono essere bloccate a proprio piacimento da Bruxelles.

Un meccanismo ricattatorio, e squisitamente neo-coloniale, che rischia di essere un boomerang per l’Unione e di avvantaggiare gli altri attori politici nel “grande gioco” dei Balcani.

Il Montenegro ha conosciuto una forte crisi economica e prevede una forte contrazione per l’anno appena concluso – -14,2% – come afferma il neoministro Milojko Spajic. Una recessione dovuta al contesto pandemico che ha limitato il flusso turistico, in particolar modo russo, che assicurava 200 mila visitatori l’anno (in un Paese di appena 650 mila abitanti) e con 80 mila russi che possiedono delle proprietà in loco.

La Russia era la maggiore investitrice nel paese, seguita dalla Serbia e dall’Italia, prima dell’adesione del Montenegro alla NATO.

Il Montenegro ha un debito pari all’88% del PIL anche a causa del prestito di 944 milioni di dollari concesso dalla Cina per la costruzione di un’autostrada, in corso di realizzazione, ad opera della China Road and Bridge Corporation, il cui completamento è stato posticipato di due anni, e del costo stimato di 1 miliardo e 300 milioni di euro.

Il governo appena insediatosi ha emesso un “eurobond” di 750 milioni per rifinanziare il debito, e ha ricevuto offerte per tre miliardi, a conferma della fiducia nel nuovo esecutivo.

L’imponente opera dovrebbe collegare Belgrado con Podgorica – la capitale montenegrina – passando per Matesevo, arrivando infine al porto adriatico di Bar, offrendo di nuovo alla Serbia uno sbocco al mare, perso nel 2006, e permettendo una maggiore integrazione regionale lungo la dorsale balcanica della Nuova Via della Seta.

L’opera è stata una dei “fiori all’occchiello” degli investimenti cinesi nell’area, con Pechino che – con l’incontro della primavera 2019 in Croazia del formato “16+1”, insieme ai leader dell’est europeo, aveva impensierito non poco Bruxelles.

Dal 2012, quasi il 70% dei 15,4 miliardi di investimento nei Paesi del “16+1”, sono andati a 5 Paesi non-UE, segno della capacità di Pechino di penetrarne il “ventre molle”.

Le recente elezioni in Montenegro e la formazione del nuovo esecutivo – che si basa su una maggioranza risicata e piuttosto eterogenea – sono un elemento di “novità” nella regione, frutto della profonda delegittimazione dell’establishment politico che lo ha storicamente governato.

I mesi che seguiranno ci diranno se l’attuale governo si inserirà con le sue scelte nel solco della continuità o della parziale rottura, con quelli precedenti.

Questa è la dettagliata analisi di Kevin Paja.

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Montenegro: battuta d’arresto per la «daytonizzazione»?

Kevin Paja

La storica sconfitta elettorale elettorale di Milo Djukanovic riapre la scommesse su un possibile cambio di rotta del Montenegro in materia di politica estera e rilancia il dado sui rapporti di vicinato con la Serbia ; portando con se un altro importante questito: il modello di governance “alla Dayton” è fallito?

Lo scorso 4 dicembre è entrato in carica il nuovo esecutivo del Montenegro, dopo quasi trent’anni il primo senza alla guida Milo Djukanovic, il fautore dell’indipendenza del Paese dalla Serbia nel 2006. Le elezioni si sono svolte lo scorso settembre, in un clima di forte incertezza, all’inizio della seconda ondata di Covid e sono state precedute da più di un anno da fortissime manifestazioni di dissenso nei confronti della burocrazia del DPS (Il Partito Democratico dei Socialisti, di cui Djukanovic è alla guida).

Il DPS è stato il bersaglio delle manifestazioni di protesta contro una legge che avrebbe comportato la revisione del contratto di proprietà degli immobili della Chiesa Ortodossa Serba e l’obiettivo dell’insofferenza con cui larghi settori della società, in particolare i giovani e i lavoratori emigrati vedono il suo apparato, che dal 2006 in poi si è avvicinato gradualmente al modello di governance etno-clientelare instauratosi in Bosnia e Erzegovina dagli accordi di Dayton nel 1995.

È stato proprio il timore di ripercorrere la strada della Bosnia, e di introdurre tutte le sue dinsfunzionalità ad aver allontanato anche quella parte di elettorato che tradizionalmente si sarebbe schierata dalla parte di Djukanovic, ma che in questa occasione ha deciso di appoggiare la coalizione di Zdravko Krivokapić, che ha infatti ottenuto la maggioranza grazie a due liste politicamente indifferenti agli obbiettivi a lungo teremine del ZBCN (il partito moderatamente filo-serbo a guida della coalizione, che punta ad un riavvicinamento graduale alla Serbia), vale a dire il Blocco Civico “La Pace è La Nostra Nazione” e la lista verde “URA” guidata dall’albanese Dritan Abazovic, il quale ha assunto la carica di vice primo ministro.

Sicuramente la controversa adesione alla NATO del 2017 è stata parte fondamentale di quel processo di «Daytonizzazione» che è cominciato nel 2006, grazie al referendum che ha portato alla dichiarazione d’indipendenza bilaterale di Serbia e Montenegro, nel quale il voto delle minoranze etniche in montenegro (bosgnacche, albanesi e croate) è stato deciviso nell’affermarzione delle istanze indipendentiste.

Ci sono dei buoni motivi per pensare che la tenuta di questa maggioranza (in vantaggio di un solo seggio) sia molto incerta e che le componenti al suo interno piene di contraddizioni, molte delle quali difficilmente sanabili.

Tuttavia la sconfitta di Milo Djukanovic – soprannominato ironicamente dalla stampa locale il “Lukashenko Europeo” per via della longevità del mandato – e che ha avuto l’endorsment costante ricevuto dal blocco euroatlantico e per, scoraggia le prospettive di un eventuale allargamento indolore dell’Unione Europea verso Sud-Est e forse rischia di mettere in discussione anche le prerogative delle NATO sulla regione.

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