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India: il movimento contadino sta scrivendo la Storia

Il 18 febbraio gli agricoltori di tutta l’India hanno risposto in massa all’appello rail roko (blocco dei treni), promosso da Samyukta Kisan Morcha – la coalizione unitaria dei sindacati contadini – che chiede l’abolizione delle tre leggi fatte passare senza discussione dal Governo Modi in Parlamento a settembre.

Questo pacchetto legislativo – la cui applicazione è stata sospesa per 18 mesi grazie alle mobilitazioni – comporterebbe un salto di qualità nelle politiche di privatizzazione dell’agricoltura, un settore da cui dipende direttamente più del 40% degli abiatanti del paese asiatico.

Il governo indiano, al suo secondo mandato, si sta caratterizzando per la coniugazione di tre elementi: l’applicazione di politiche neo-liberiste, la torsione autoritaria dello Stato e un “nazionalismo indù” che ha le sue radici politico-culturali anche nei movimenti nazi-fascisti europei tra le due Guerre Mondiali.

Gli agricoltori si sono sdraiati sui binari dei treni per quattro ore in differenti distretti degli Stati che compongono l’Unione, fornendo cibo e acqua ai passeggeri.

É la seconda iniziativa di blocco dopo il Chakka jam di sabato 6 febbraio in cui gli agricoltori bloccarono per alcune ore le maggiori arterie stradali

Alcuni giorni dopo nel Punjab – che insieme all’Haryana e all’Uttar Pradesh – è uno dei bastioni della lotta si è svolto un raduno di ben oltre 100 mila persone (tra le 120 e le 130 mila), il “Kisan Mazdoor Rally” organizzato dal Bharatiya Kisan Union e il Punjab Khet Mazdoor Union domenica 21 febbraio.

A Barnala, luogo dell’incontro, di fronte ad una folla oceanica i leader sindacali hanno tra l’altro ricordato l’agenda di lotta che prevede il concentramento nei dintorni di Nuova Delhi il 27 febbraio prossimo per dare man forte ai più di 200 mila agricoltori che sono accampati fuori dalla capitale dal 26 novembre, giorno dello sciopero generale più grande della storia dell’umanità promosso contro le riforme del lavoro, in cui il movimento contadino l’indicazione Chalo Delhi (andare a Nuova Delhi), spostando l’asse della protesta nella capitale.

La mobilitazione ha avuto un salto di qualità durante il Republic day del 26 gennaio quando gli agricoltori hanno invaso il centro cittadino, e per cui un centinaio di contadini sono stati arrestati ed altri risultano dispersi.

Al raduno di Barnala nel Punjab, Joginder Ugrahn – leader del BKU- ha ribadito la sfida al “governo fascista di Modi”, la necessità di stare uniti di fronte all’interferenza dei partiti politici opportunistici, e ha chiesto una inchiesta giudiziaria per la morte di Navreet Singh, l’agricoltore morto in seguito alla repressione poliziesca il 26 gennaio.

Balbir Singh Rajewal, leader del Sayukta Kissan Morcha, ha ribadito il carattere storico della mobilitazione e ha messo l’accento sull’unità dei contadini “oltrepassando le differenze di casta, religione e regione”.

Anche la leader Harinder Bindu del BKU è intervenuta affermando: “le donne hanno contribuito enormemente alla protesta fino ad ora. Le agricoltrici e le contadine sono una porzione determinante della lotta” ed ha chiesto il rilascio di Disha Davi e di Nodeep Kaur.

La prima è una attivista ecologista di poco più di vent’anni che sostine attivamente la lotta – arrestata a Bangalore il 13 febbario e rilasciata su cauzione questo martedì – “colpevole” di avere condiviso un toolkit per sostenere la protesta elaborato da Greta Thumberg.

Un semplice strumento di lotta “digitale” che viene trattato alla pari di un insurrezione.

Da anni, questa attivista proveniente da una famiglia di agricoltori, conduce lotte ecologiste ed ha abbracciato da subito la lotta dei contadini.

Le sue parole di fronte alla corte sono state un pugno nello stomaco alla feroce repressione orchestrata dal governo Modi: “se mettere in luce la protesta degli agricoltori è sedizione. Sto meglio in carcere”. Rivolgendosi alla Corte ha affermato anche, parlando degli agricoltori: “Sono coloro che ci forniscono il nostro cibo, e tutti abbiamo bisogno di mangiare”, ribadendo di fatto quello che è uno degli slognan della rivolta “no farmers, no food”.

L’altra è una attivista Dalit, membro del Mazoor Adhikar Sanghtan un gruppo attivo nella zona industriale di Kundii, arrestata e ancora in prigione, anche lei ventenne, il 12 gennaio con il solito castello di montature giudiziare (tentato omicidio ed estorsione!) che caratterizza la “giustizia” indiana.

I casi di queste due giovani compagne danno la cifra del clima sociale complessivo in India e di come – citando l’articolo che abbiamo qui tradotto – il governo era pronto a scendere in guerra contro i propri cittadini in difesa della legge del mercato.

La contrapposizione non potrebbe essere più netta e rimanda alla profonda spaccatura di classe che sta attaversando l’India e lo scontro tra due visioni antagoniste di questo Paese che la studiosa Ravinder Kaur – autrice di Brand New Nation. Capitalist dreams and nationalist designs in Twenty-First Century India – articola in maniera brillante.

La forza di questa lotta ha attraversato i confini del Paese asiatico grazie alla diaspora presente in Gran Bretagna, Canada e Stati Uniti in particolare. Anche in Italia, grazie all’Unione Sindacale Italiana si sono svolte due riuscite iniziative di sostegno a Milano e Roma, mentre le varie comunità indiane si stanno mobilitando per dare visibilità a quella che è la lotta più importante dell’India indipendente e uno dei maggiori conflitti sociali del XXI Secolo.

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Come la protesta dei contadini è divenuta un movimento di massa che rifiuta di scomparire

Ravinder Kaur

Il mercato finanziario indiano è decollato ad inizio febbraio. Il salto è stato una standing ovation, secondo i media, al piano di budget che il governo ha proposto al Parlamento il primo febbraio. Le proposte della “profonda riforma” che gli investitori hanno applaudito vigorosamente includono la vendita di aziende pubbliche in settori chiave, alzare i limiti degli investimenti di capitale straniero, e spendere copiosamente in infrastrutture.

Emanato durante una delle peggiori recessioni della storia dell’India, il budget è stata la prova che il governo di Narendra Modi non ha sprecato l’opportunità che la pandemia ha offerto di accelerare la deregolamentazione dell’economia. Chiamato dal governo “One Nation, One Market”, il budget prevede di rendere l’India – una paese federale formato da Stati – in un’unica singola entità economica controllata da un governo forte e centralizzato, nel tentativo di scalzare la Cina dal primato di fabbrica del mondo.

L’ottimismo ufficiale e l’euforia dei mercati accadono durante una rapida escalation di quella che è stata descritta come “la più grande protesta dei contadini d’India”, la lotta che dura da mesi che ha portato decine di migliaia di contadini alle porte di Delhi. Il forte contrasto tra l’euforia dei mercati finanziari e le ansie dei contadini in sciopero è stato stridente quanto rivelatore delle linee di conflitto che hanno rapidamente ristrutturato la politica indiana. Così mentre il governo proponeva più liberalizzazioni per il mercato per rafforzare le riforme neoliberiste degli anni 90, stava innalzando un recinto per contenere i siti della protesta – barriere fatte di filo spinato e mattoni di cemento pesanti, con chiodi spessi nel terreno – con lo scopo di respingere l’avanzamento dei manifestanti nella città.

Lo stato non stava semplicemente impedendo il movimento dei manifestanti ma anche la loro connettività digitale. Ci sono stati diversi shutdown di internet nei siti delle proteste e richieste che i social sospendessero account critici del governo. In alcuni campi, acqua ed elettricità sono state tagliate e servizi minimi rimossi per spingere i manifestanti ad andarsene. La pesante presenza di squadre di polizia antisommossa in questo confine interno ha appesantito ancora di più l’atmosfera. Stava accadendo qualcosa di strano: il governo era pronto a scendere in guerra contro i propri cittadini in difesa della legge del mercato.

Le proteste sono iniziate la scorsa estate nello stato settentrionale del Punjab, in risposta all’accelerazione della discussione sulle tre leggi che potrebbero aprire il settore agricolo al mercato. Sostenuto e una volta in parte protetto dallo stato, il settore, secondo la Banca Mondiale, impiega più del 40% della forza lavoro indiana. Le proteste sono diventate visibili a livello nazionale solo alla fine di novembre – la copertura internazionale delle mobilitazione, anche se tuttora poca, è stata ritardata di molto – quando i sindacati contadini hanno dato l’ordine di marciare sulla capitale: “Chalo Delhi” (“andiamo a Delhi”)

Quel che ha reso le immagini di caravane quasi infinite di persone che viaggiavano per Delhi su trattori, pulmini, macchine e a volte a piedi così spettacolari non era solo la marcia stessa ma il tentativo del governo di fermarla prima che arrivasse in città. Decine di migliaia di manifestanti hanno sfidato barricate, idranti e lacrimogeni. Presto, tendopoli sono cominciate ad apparire nel perimetro esterno alla città mentre il governo si rifiutava di permettere l’ingresso dei manifestanti in città. Le tendopoli di Singhu, Tikri, Shahjahanpur Kheda, Gazipur, una volta semplici nomi di paesini alle porte della capitale, sono ora entrate nel vocabolario come sinonimo di resistenza democratica e solidarietà.

Le tre leggi alla base della disputa – su prezzi, vendita dei prodotti e conservazione – rimuovono le salvaguardie che avevano parzialmente isolato l’agricoltura dai capricci del mercato. Mentre il governo afferma che la deregolamentazione del settore farà raddoppiare il guadagno dei contadini ed aumenterà la produttività, i piccoli contadini marginali che rappresentano l’85% della categoria hanno paura di perdere contro gli investitori privati. Le nuove leggi rimuovono le protezioni di garanzia di un prezzo minimo e il sistema mandi (mercati regolati della vendita all’ingrosso), lasciando i contadini esposti ad un mercato senza regole in cui hanno pochissimi margini di trattativa con le corporazioni.

L’ansie dei contadini provengono inoltre da precedenti manovre atte a deregolamentare l’agricoltura, che hanno causato tanta angoscia tra questi. L’esempio più raccontato è quello dello stato del Bihar, nell’est del paese, dove le riforme di liberalizzazione del settore nel 2005 hanno stravolto i prezzi, costringendo i piccoli contadini a lavorare per cifre minime. Per affrontare i debiti e la confisca delle terre, questi si sono convertiti in salariati agricolo in altri stati dove i mercati agricoli regolamentati furono lasciati intatti. La paura dell’espropriazione sta fomentando le proteste, anche se l’espansione di queste ad altri settori della società, come giornalisti, attivisti e altri lavoratori, riflette un più ampio e crescente disincanto con la “New India” di Modi: uno stato illiberale rinchiuso in un’immagine di un capitalismo “liberale”.

L’erezione di un confine pesantemente sorvegliato dalla polizia nella periferia della capitale mostra la logica conflittuale della grande trasformazione dell’India in un recinto del capitale. Proprio l’idea del recinto ha qui un doppio significato: il recinto reale – il confino fisico e la soppressione digitale dei manifestanti – è studiata per calmare ogni opposizione al recinto economico – il ritiro dello stato regolare da sempre più settori dell’economia. La logica di questa trasformazione trova spunto nell’affermazione dell’India come “destinazione di investimenti” nell’economia globale, un ampio spettro di risorse mai sfruttate, una zona di scambio e crescita illimitati.

Qui è dove l’attuale iterazione della liberalizzazione economica in India si stacca dai passati tre decenni. La fortificazione in stile bellico fuori da Delhi rivela quanto cruciali siano gli interessi del capitale, assieme all’imperturbabile nazionalismo indù, per l’impalcatura su cui è eretta l’amministrazione Modi. La sua base di potere richiede che la crescita capitalista del paese sia continuamente alimentata dalla fornitura di settori economici precedentemente emarginati.

In termini di legislazione, questo determina un ciclo infinito di aggiustamenti strutturali, privatizzazioni e disinvestimento dal settore pubblico, un processo complesso facilitato da uno stato forte che “significa business” in più modi e maniere. Per questo spesso le classi capitaliste tifano per un “leader forte” che “fa le cose che vanno fatte” – se non tramite l’arte politica della persuasione, sicuramente tramite misure coercitive per “liberalizzare” risorse.

Questa linea autoritaria ha formato le politiche del governo indiano durante la pandemia, che non solo ha accelerato sulle riforme agricole ma ha ceduto prontamente alle richieste degli industriali di ridurre i diritti dei lavoratori nei settori formale e informale. I cambiamenti includono libertà di licenziamento, ore di lavoro più lunghe, protezione sociale ridotta e restrizioni sul diritto di sciopero.

Questa potente alleanza tra lo stato e il capitale spiega perché l’amministrazione Modi non accetta né dissenso né esita a prendere misure contro i critici, tra cui attivisti e giornalisti. La brutalità della risposta del governo nonostante la sua forza politica – ha pieno controllo dell’apparato dello Stato e non affronta alcun tipo di competizione in ambito elettorale – è l’evidenza che le mobilitazioni contro le farm laws sono la sfida più diretta e concreta contro questa alleanza. Che il movimento emerga e continui ad espandersi durante una pandemia senza fine mostra tutta la disperazione dei manifestanti.

Al suono dei tamburi dell’iper-nazionalismo, il partito al governo e i suoi sostenitori hanno provato a delegittimare le proteste in vari modi, accusando i manifestanti Sikh di essere sostenitori del Khalistan, fingendo di essere gente del luogo per chiedere la rimozione dei campi e adducendo continuamente che i manifestanti siano “contadini ricchi”, cosa smentita dai fatti.

Ma questi attacchi hanno fallito nello scoraggiare il movimento. Lontano dallo svanire, continua a crescere, costruendo nuova solidarietà tra le caste, classi, religioni e regioni. Una probabile ragione per il suo così ampio supporto potrebbe essere il disincanto verso la formula del libero mercato; invece di distribuire ricchezza, le liberalizzazioni hanno portato ad un alto tasso di disoccupazione e maggiori ineguaglianze sociali. Ugualmente allarmante è l’impulso maggioritario del nazionalismo indù e la marginalizzazione aggressiva delle minoranze.

Non è una sorpresa quindi che il linguaggio dell’amore e della solidarietà è alla base del vocabolario delle proteste, l’esatto opposto della retorica nazionalista che strumentalizza l’esclusione sociale e la divisione. La vita quotidiana nelle tendopoli fuori Delhi offre la visione di una comunità costruita sul lavoro volontario che s’impegna ad includere tutti. Queste città nate nella protesta non sono state costruite da una solidarietà pre-esistenze, ma hanno creato, attraverso il processo delle mobulitazioni, l’opportunità di costruire nuove solidarietà.

A sei mesi di distanza, ciò che era la protesta originale dei contadini si è trasformata in quella che potremmo definire la più ampia mobilitazione della storia post-coloniale d’India, che si espande tra aree urbane e rurale, che si uniscono per combattere contro il capitalismo sregolato e per le libertà civili. L’ampio senso di vulnerabilità, la paura dello sfruttamento per mano di uno stato arrogante e di grandi corporation sono le esperienze più comuni che continuano a guidare le mobilitazioni. Come ha detto un contadino delle nuove riforme, “non sarà un mercato per contadini, ma per le azioni”.

(Traduzione dell’artico originale https://www.newstatesman.com/international/2021/02/how-farmers-protest-india-evolved-mass-movement-refuses-fade a cura di Tiziano Giuseppe)

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