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Ambasciatori e droni italiani in Congo

Una delle scadenze più significative della società “occidentale” è il cosiddetto “dibattito”, a cui ognuno a modo suo sente di dover partecipare; finché forse un giorno non gli si svela l’orribile segreto, e cioè che di quello che dice, o non dice, non gliene frega niente a nessuno.

Il “dibattito” è infatti un rituale che ha una sua viziosa circolarità: sembra partire da determinate premesse, procedere e acquisire nuove posizioni, salvo poi ritrovarsi puntualmente di nuovo al punto di partenza. In “democrazia” il finto ascolto e la fittizia apertura alle critiche sono cerimoniali che servono a ribadire le gerarchie comunicative tra i “superiori” e gli “inferiori”.

Attraverso un contorto sentiero dialettico, si arriva persino a denunciare le malefatte dei ricchi e dei potenti, per poi alla fine concludere che è sempre colpa dei poveri e dei deboli. Questo inesorabile paradigma comunicativo può essere verificato anche tutte le volte che si parla di Africa.

L’assassinio dell’ambasciatore italiano, del suo carabiniere di scorta e del suo autista nella Repubblica Democratica del Congo, ha riportato all’evidenza il paradosso dell’ex Congo belga, uno dei Paesi più ricchi di materie prime al mondo, ma anche uno di quelli economicamente più poveri.

Sulla rivista online dell’Aspen Institute italiano, fondata da Giuliano Amato, si trova un articolo che, in alcuni punti, risulta sorprendente, se si considera che l’Aspen è una filiazione del Dipartimento di Stato USA. Si delinea il percorso del saccheggio delle risorse minerarie del Congo Kinshasa, constatando le responsabilità di compagnie come Volkswagen, Apple, Microsoft e Huawei.

Non si risparmiano i dettagli crudi, specialmente per ciò che riguarda l’estrazione della materia prima fondamentale per la tecnologia degli ultimi decenni: il cobalto. L’elenco dei crimini comprende lo sfruttamento della manodopera minorile, i numerosi incidenti sul lavoro e le morti bianche.

Nell’articolo si osserva anche che il saccheggio è stato favorito dal Fondo Monetario Internazionale, il quale ha imposto per decenni al governo congolese di applicare una tassa di solo il 2% sul minerale estratto, una quota troppo piccola per favorire una redistribuzione del reddito alla popolazione.

Ma ora che l’aliquota della tassa è stata portata al 10%, la mancata redistribuzione andrebbe addebitata alla corruzione locale. Quindi, se le cose continuano ad andare male, è dovuto al fatto che i Congolesi sono corrotti.

Che i Congolesi siano corrotti è indicato anche dal fatto che pare siano riusciti a corrompere persino l’integerrimo FMI. Per rientrare nelle grazie del FMI, il governo di Kinshasa ha dovuto infatti accordare un ricco contratto alla Baker McKenzie, la società privata di consulenza finanziaria in cui lavorava (guarda la combinazione) Christine Lagarde prima di andare a dirigere il FMI, ed ora la BCE.

L’intreccio della gestione pubblica con gli affari privati, se riguarda i poveri, si chiama corruzione, ma se riguarda i ricchi si chiama “competenza”. Uno degli elementi ideologici più importanti delle attuali gerarchie imperialistiche è proprio l’etichetta di “corrotto” riservata ai Paesi inferiori. La superiorità in termini di potenza materiale si mistifica come gerarchia morale e antropologica: la super-razza dei “competenti” e la sotto-razza dei “corrotti”.

Ora è diventato frequente mettere in dubbio l’idea che i fallimenti economici dell’Africa siano colpa del colonialismo. Già l’uso della parola “colpa” risulta abbastanza subdolo, dato che spostando la questione sul piano morale, si può dimostrare qualsiasi cosa.

La domanda seria sarebbe invece chiedersi se il colonialismo ci sia ancora. In effetti vige tuttora in Africa un dominio coloniale, mediato però da istituzioni sovranazionali ufficialmente “imparziali”. Non c’è solo il FMI, che è già di per sé un’agenzia ONU, ma anche la stessa ONU in prima persona, impegnata in operazioni di “peace keeping”, cioè di occupazione militare del territorio congolese. In questa opera di “pace”, le truppe ONU si servono di aerei droni “Falco”, prodotti dalla ex Finmeccanica, che ora si fa chiamare Leonardo.

Il quotidiano La Stampa nel 2015 diede anche una rappresentazione entusiasticamente truculenta sull’uso di questi droni italiani in Congo, narrando di guerriglieri che, pur ammoniti, non si erano lasciati intimidire dalla sorveglianza h24 da parte dei droni “Falco”, pagando così un duro prezzo di sangue. In Congo quindi l’Italia non è solo presente con operazioni umanitarie, ma anche come fornitrice di armi per la repressione interna.

Finmeccanica è organica ai servizi segreti italiani, e la commistione è evidenziata da un sistema di porta girevole, che ha visto avvicendarsi al vertice dell’azienda prima Gianni De Gennaro e poi l’ex direttore dell’AISE, Luciano Carta, tuttora in carica. Persino l’ex ministro Marco Minniti, anche lui proveniente dai servizi, è andato ad occupare una poltrona dirigenziale in una società del gruppo Finmeccanica.

La porta girevole non è corruzione, è “competenza”. Non si tratta di un comportamento esclusivamente italiano, poiché la osmosi tra aziende produttrici di armi (e non solo di armi) con i servizi segreti e con gli alti gradi militari, riguarda tutto il sistema internazionale.

Ora, possibile che Finmeccanica ed i servizi non si siano resi conto del pericolo a cui esponevano l’ambasciatore italiano? In effetti era logico pensare che il ruolo dell’Italia nella vendita di armi all’ONU, rendesse Luca Attanasio un bersaglio per ritorsioni, sia da parte della guerriglia, sia da parte di eventuali concorrenti nel business degli armamenti.

In questa vicenda le responsabilità di Finmeccanica e dei servizi segreti nostrani sono abbastanza evidenti. I media però preferiscono non toccare gli interessi del grande business e mettono invece sotto accusa il ministero degli Esteri ed il suo attuale occupante, lo zimbello di professione Luigi Di Maio, messo lì apposta per fare da parafulmine in situazioni del genere.

* da Sinistra in Rete

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