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La tensione con Donbass e Russia diminuisce solo a parole

L’11 aprile il portavoce presidenziale russo, Dmitrij Peskov, ha dichiarato che la situazione venutasi a creare in Ucraina è molto pericolosa per la Russia e il Cremlino non esclude che Kiev possa tentare di risolvere con la forza i propri problemi interni, attaccando il Donbass. Mosca sta quindi adottando misure per la propria sicurezza, ha detto Peskov.

Da Kiev si spergiura che nessuno ha intenzione di risolvere il conflitto con la forza: dal comandante in capo Ruslan Khomčak, al vice Premier Aleksej Rznikov, alla portavoce presidenziale Julija Mendel’, è un coro di assicurazioni di voler seguire la via diplomatica. «Si tratta di ipocrisia o di paura della Russia?» si domanda Christelle Néant su donbass-insider.com, notando come tali dichiarazioni ufficiali siano in contraddizione con precedenti prese di posizione e, soprattutto, con la realtà sul campo di battaglia, aggravatasi estremamente a partire da febbraio, con quotidiana violazione del cessate il fuoco e degli accordi di Minsk sulle armi pesanti, e gli spari dei cecchini contro i civili di L-DNR, ecc.

Appena un paio di settimane fa, per dire, Khomčak diceva che «L’esercito ucraino si prepara a opzioni diverse e, di sicuro, ci prepariamo a un’offensiva»; curiose anche le recenti parole della Mendel’, secondo cui «l’Ucraina non può attaccare il proprio territorio e non può combattere la propria popolazione», quando questo è proprio ciò che la junta fa da sette anni.

E, nota ancora Christelle Néant, come si deve interpretare il concetto “risolvere pacificamente il conflitto in Donbass”, se un deputato del partito presidenziale, Jurij Misjagin, si entusiasma su feisbuc perché un drone turco Bayraktar TB2 ha sorvolato la zona di conflitto in Donbass e invita la Russia a «riportare a Mosca le armi che si trovano in L-DNR, prima che i droni turchi le distruggano come in Nagorno-Karabakh!».

La Turchia, appunto. Nell’incontro del 10 aprile scorso, Vladimir Zelenskij e Recep Erdogan hanno ribadito l’intesa per la collaborazione nell’area del mar Nero, con l’appoggio turco alla cosiddetta “piattaforma crimeana” di Kiev volta alla “riconquista della penisola” e la «decisione di principio turca a non riconoscere l’annessione della Crimea», elargendo fondi per i tatari di Crimea fedeli al sultano e ribadendo il sostegno di Ankara al piano di adesione dell’Ucraina alla NATO.

Col suo cercare di destreggiarsi tra Russia e Stati Uniti, Erdogan, alla vigilia dell’incontro del 10 aprile con Zelenskij, aveva avuto un colloquio telefonico con Vladimir Putin, proponendosi quale mediatore, i cui interessi, politici, geografici, economici, guardano per varie questioni anche a Mosca, passando però per Ucraina e Crimea, con occhi puntati sul Caucaso e oltre e giocando una “mano del diavolo” con Washington.

«Ankara si esprime per una quanto più rapida soluzione pacifica dei disaccordi tra Russia e Ucraina, in nome della pace e della sicurezza nella regione», ha dichiarato Erdogan all’agenzia Anadolu. Dunque Ankara compra missili da Mosca, mentre vende droni e altri armamenti a Kiev; taglia fuori l’Ucraina dagli introiti del gas russo con il “Turkish stream” e concede crediti a Kiev per alloggi e moschee, così da rafforzare «il coordinamento tra i nostri paesi… nell’industria militare» come hanno dichiarato Zelenskij e Erdogan.

È così che, dopo la conferma della vendita di droni d’attacco “Bayraktar TB2” a Kiev da parte turca, il Ministro degli esteri russo, Sergej Lavrov, dal Cairo, ha esortato tutti i «Paesi responsabili con cui abbiamo rapporti, e la Turchia è uno di essi, a analizzare la situazione, analizzare le continue dichiarazioni belliciste del regime di Kiev».

Rivolto a Washington, Lavrov ha poi detto: «Viene posta la domanda su cosa ci faccia la Russia ai confini con l’Ucraina… la risposta è molto semplice: noi lì ci viviamo, è il nostro paese. E invece, cosa ci facciano gli Stati Uniti, con le loro navi, soldati… in Ucraina, a migliaia di chilometri dal proprio territorio, tale domanda, per ora rimane senza risposta».

Ed ecco la risposta americana: il segretario di stato USA Antony Blinken, insieme al segretario alla difesa Lloyd Austin, è venuto a Bruxelles in questi giorni, «per consultarci con i nostri alleati e partner della NATO su una serie di priorità condivise»: prima fra tutte, ovviamente, “l’aggressione russa” all’Ucraina, cui Washington, a partire dal 2014, ha fornito 2 miliardi di dollari per “la difesa”.

Kiev infatti, mentre cerca appoggi concreti vicino casa, non demorde dai tentativi di ottenere qualcosa di più preciso dalla Casa Bianca, che non le sole dichiarazioni di circostanza di Biden. Ecco quindi un bel “video pubblicitario” indirizzato a Joe-Burisma-Biden, in cui Zelenskij fa intendere di non volersi accontentare delle sole promesse di appoggio yankee: «Se vedono l’Ucraina nella NATO, lo devono dire chiaramente, dopo di che devono farlo».

E il 12 aprile la CNN ha diffuso il reportage di Matthew Chance sulla sua visita al fronte al seguito di Vladimir Zelenskij: un video destinato più che altro alla Casa Bianca, nota Ivan Mezjukho su news-front.info (per inciso: canale da mesi bloccato da feisbuc) per chiedere «più soldi, più armi e più sostegno per l’ingresso nella NATO» e non certo indirizzato al pubblico interno e ancor meno alle truppe al fronte, col presidente golpista che, sul finale del video, pare proprio fuggire dalla linea del conflitto, facendo così «il possibile per demoralizzare le truppe», commenta Mezjukho.

In cambio, Kiev è disposta a mettere a disposizione il proprio territorio per i sistemi missilistici USA “Patriot”: lo ha dichiarato il 13 aprile aTime il capo dell’amministrazione presidenziale Andrej Ermak: «L’Ucraina appronta le difese contro la Russia: non solo per sé, ma per tutto l’Occidente».

Che le intenzioni di Kiev e dei suoi “curatori” occidentali siano abbastanza chiare, lo testimonia anche il tentativo di eliminare la Russia dal processo negoziale sul Donbass. Il piano è semplice, sostiene l’osservatore israeliano di origini russe Jakov Kedmi: l’Ucraina de jure non si ritira dagli accordi di Minsk, ma ne esce de facto, chiedendo di trasferire altrove i negoziati e lanciando la “Piattaforma crimeana” in sostituzione del “formato normanno”.

In questo modo, si cerca di dar vita a una coalizione internazionale contro Mosca, mentre la Russia cade in una trappola diplomatica: se i negoziati vengono spostati, in Svizzera o in Polonia, con ciò stesso vengono escluse LNR e DNR, i cui rappresentanti non sono ammessi in nessun paese europeo. E, poiché i negoziati saranno condotti direttamente con la Russia, questo la eleverà ufficialmente al rango di parte in conflitto.

Se Mosca rifiuterà tali negoziati, Kiev e l’Occidente l’accuseranno di ritirarsi dal processo negoziale. Occidente e Ucraina offrono alla Russia una scelta: negoziare alle loro condizioni, che inevitabilmente portano alla resa, o ritirarsi dal processo negoziale e, di conseguenza, arrivare alla guerra.

Un’autentica trappola politica, irrobustita dal ricatto militare.Tanto più, ora, con quasi quarantamila uomini e quindicimila mezzi militari USA e NATO schierati alle frontiere russe per “Defender Europe 21”, concentrati soprattutto su Baltico e mar Nero, con vascelli militari yankee che fanno la spola continua nel mar Nero (finché vige la Convenzione di Montreux, non vi possono rimanere più di 21 giorni), con i C-130 che portano “consiglieri” americani dalla Lettonia all’Ucraina, RC-135W “Rivet Joint” britannici, droni RQ-4A “Global Hawk” USA e ricognitori P-8A “Poseidon” che volano su Crimea, costa russa del mar Nero e Donbass; con le decine di laboratori biologici militari USA in Ucraina e Georgia, la cui esistenza è ora ufficialmente confermata; con l’addetto militare dell’ambasciata yankee a Kiev, colonnello Brittany Stewart, che nella visita alle linee ucraine, esplicita a modo suo la politica yankee, deponendo fiori alla tomba di un militare di “Pravyj sektor” e appuntandosi sulla mimetica l’emblema della 72° Brigata meccanizzata ucraina: un teschio con la scritta “Ucraina o morte”.

Così che Mosca appronta le proprie difese. Non solo esercitazioni praticamente su tutte le regioni militari del paese, anche in Estremo Oriente, ma soprattutto in quelle prossime ai confini sudoccidentali.

Ecco dunque che le motocannoniere (corvette) lanciamissili “Grajvoron” e “Vyšnij Voloček” conducono esercitazioni di tiro nel mar Nero: la prima, mettendo in azione il sistema lanciamissili antiaereo “Gibka”, la seconda, annientando bersagli aerei col sistema d’artiglieria AK-630M-2 “Duet”, che sputa 10.000 colpi al minuto.

Questo in mare. Sulla terraferma, la Russia si appresta a delineare una sorta di “no-fly zone” su Crimea, DNR e LNR. Dispone allo scopo di un campo radar ininterrotto, che copre l’intero territorio russo e si estende per 2-3.000 km oltre i suoi confini, composto di stazioni radar “Voronež”, con un raggio di rilevamento che raggiunge i 6.000 km e fino a 4.000 km di altitudine.

Per i bersagli a bassa quota, opera invece il radar “Container”, il cui raggio ha una portata di 3.000 km e un campo visivo di 240 gradi: riesce cioè a scansionare l’intera Ucraina o addirittura a rilevare monoposto in decollo o atterraggio da piccoli aeroporti norvegesi, inglesi o francesi. Gli “intrusi”, una volta individuati, vengono presi in carico da sistemi missilistici a lungo raggio S-400 “Triumf” dislocati in Crimea, con portata massima di 400 km.

Contro i droni, c’è il sistema “Pantsir-S1”, così che gli S-400 coprono la parte occidentale di L-DNR, mentre a est ci sono i “S-300”, ridistribuiti negli ultimi giorni nella regione di Rostov.

Le aree più lontane, poi, ai confini nordoccidentali dell’Ucraina, sono controllate dalla 27° divisione aerea di stanza in Crimea, che schiera “Su-27SM3” e “Su-30M2”, in grado di tenere a bada F-16, “Rafale”, “Tornado” e F-35 della NATO.

Da Kiev, nonostante tutto, c’è anche chi frena un po’ gli umori atlantici della junta: la giornalista ucraina Olesja Medvedeva, commentando frammenti dal servizio di Ted Carpenter su The National Interest dal titolo “La politica ucraina di Joe Biden: ripetizione di Bush in Georgia?”, constata come in USA venga da diverse parti criticato l’approccio della Casa Bianca al conflitto in Ucraina.

Carpenter giudica infatti «una cattiva idea quella di dare ai propri partner l’impressione di disporre di un assegno in bianco per muover guerra e aspettarsi che le forze americane vengano in soccorso se i combattimenti andranno male». Saakašvili, scrive Carpenter, aveva tutte le ragioni per contare sul sostegno di Washington.

Ma il sostegno non arrivò; e ora Biden «sembra intenzionato a ripetere l’errore e c’è il rischio di due esiti infausti: uno cattivo e uno pessimo. L’esito più probabile è una ripetizione dell’episodio della Georgia… Ma l’altro esito sarebbe anche peggiore. C’è il rischio che Biden voglia onorare l’impegno implicito… Sarebbe la follia terminale, che potrebbe culminare in una guerra nucleare; e dato l’alto livello di ostilità verso Mosca evidente nell’amministrazione e in gran parte dell’élite politica di Washington, è una possibilità che non può essere esclusa».

Un appello a Biden a non farsi coinvolgere in un conflitto per il Donbass e la Crimea è venuto anche dai Veteran Intelligence Professionals for Sanity (VIPS), che hanno redatto un memorandum firmato da decine di ex militari e analisti, in cui, tra l’altro, ricordano che «dato che l’Ucraina non è membro della NATO, l’articolo 5 del Trattato non è applicabile in caso di conflitto armato tra Ucraina e Russia. In secondo luogo, le attuali dimostrazioni di forza da parte ucraina, se dovessero trasformarsi in vere ostilità, potrebbero condurre ad azioni belliche con la Russia».

Dunque, è necessario «far comprendere al presidente ucraino Zelenskij che né gli Stati Uniti né la NATO forniranno assistenza militare, se non frenerà i “falchi” ucraini. È altrettanto importante che gli Stati Uniti si impegnino in negoziati diplomatici ad alto livello con la Russia per ridurre le tensioni nella regione e frenare l’attuale scivolata verso un conflitto militare».

Nella serata di martedì, il Cremlino ha dato notizia di un colloquio telefonico tra Vladimir Putin e Joe Biden. Nello scambio di opinioni sulla crisi interna ucraina, è detto nel comunicato della Tass, Vladimir Putin ha parlato di una soluzione politica sulla base degli accordi di Minsk, sono stati discussi in modo esauriente lo stato delle relazioni russo-americane e aspetti internazionali. Biden avrebbe proposto la possibilità di un incontro al vertice nel futuro prossimo.

Per ripetere la domanda iniziale di Christelle Néant: «Si tratta di ipocrisia o di paura della Russia?».

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