Le strade tra le due Gerusalemme, ebraica e araba, ieri si sono svegliate nel fetore. Non quello generato dallo sterco rilasciato dai cavalli della polizia o dal liquido puzzolente che qualche ora prima avevano sparato in abbondanza i cannoni ad acqua dei reparti antisommossa.
Piuttosto quello del razzismo che centinaia di militanti del gruppo israeliano di estrema destra Lehava e kahanisti hanno sparso nella notte di giovedì tra Piazza Zion e la Porta di Damasco, scandendo senza sosta «Mavet la Arabim», «Morte agli arabi».
Una notte che non può essere spiegata come un episodio, la conseguenza della tensione tra due popolazioni in una città che Israele ha proclamato unilateralmente la sua capitale unita e che invece resta sempre divisa in una zona ebraica e in un’altra palestinese occupata nel 1967.
Quanto si è visto l’altra sera è la conferma della forte crescita della destra estrema israeliana e di quanto sia radicata a Gerusalemme. E non è passata inosservata la partecipazione agli scontri con i palestinesi anche di giovani haredi, religiosi ultraortodossi, sempre più attratti dal nazionalismo più acceso e violento.
«Il silenzio del premier Netanyahu e del sindaco di Gerusalemme (Moshe Lion, Likud) sull’accaduto è eloquente. Nessuno è intervenuto concretamente per proteggere in anticipo i residenti palestinesi della città. I rappresentanti dell’estrema destra hanno istigato liberamente alla violenza», spiegava ieri al manifesto Nir Hasson, giornalista di Haaretz.
«Diversi fattori sono dietro gli scontri di giovedì notte», ha aggiunto «uno è l’ingresso (un mese fa) alla Knesset di Itamar Ben Gvir e del partito Sionismo Religioso (di cui fa parte ‘Potere ebraico’, erede del movimento razzista Kach del rabbino Meir Kahane, ndr). Gli estremisti si sentono legittimati ad attaccare gli arabi».
A favorire l’escalation hanno contribuito anche i filmati messi su Tik Tok dagli aggressori di un giovane religioso ebreo preso a schiaffi su un tram.
E giovedì sera i palestinesi non sono rimasti a guardare. Hanno affrontato la polizia, lanciando pietre e bottiglie che hanno ferito alcuni agenti, e pestato un ultraortodosso che si accingeva ad entrare nella città vecchia. Se l’è vista brutta un automobilista israeliano circondato da una decina di giovani: ha poi raccontato di aver temuto un linciaggio. Ma i numeri parlano chiaro
Giovedì notte 105 palestinesi sono stati feriti dai militanti di destra e dalla polizia che ha sparato proiettili di gomma e lanciato dozzine di granate assordanti tra via Sultano Solimano e Musrara, di fronte alla Porta di Damasco. Per 22 di loro è stato necessario il ricovero in ospedale.
Tra le decine di arrestati ci sono anche alcuni israeliani, ma quelli portati via dalla polizia erano quasi tutti palestinesi. Si sono aggiunti ai tanti finiti in manette nelle sere precedenti, durante le proteste per la chiusura, dettata in apparenza dalle misure anti-Covid contro gli assembramenti, della Porta di Damasco l’accesso principale per raggiungere la moschea di Al Aqsa durante le preghiere del Ramadan.
Giovedì sera nel mercato ebraico di Mahane Yehuda, Nadim T., 26 anni, di Abu Tor, era nel ristorante dove lavora da tre anni quando sono arrivati i kahanisti. «Erano a caccia di arabi», ci ha raccontato «urlavano e chiedevano al proprietario di cacciarmi via. Sono andati via solo quando è arrivata la polizia. Tanti palestinesi come me lavorano a Mahane Yehuda e potrebbero raccontarti la stessa storia».
Imprecazioni, minacce e insulti hanno coperto anche gli israeliani che protestavano contro i raid antiarabi. Una notte di violenza di cui Benzi Gopstein, il leader di Lehava, non si sente responsabile. «Non ho alcun potere su questi giovani, agiscono per conto loro», ha detto con candore ai giornali in lingua ebraica.
Ciò che si è visto nelle strade di Gerusalemme giovedì notte è solo l’inizio, si teme. Un nuovo atto grave di violenza, anche individuale, potrebbe scatenare una nuova escalation. «Sono abituato a essere guardato con diffidenza e sospetto solo perché sono un palestinese», ci diceva ancora Nadim «ma dopo l’altra sera per la prima volta ho paura di tornare a Mahane Yehuda».
* da il manifesto
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