Si avvicina il 9 maggio: 76° anniversario della vittoria sovietica sul nazismo. In Donbass, però, continuano a piovere i colpi delle artiglierie ucraine, come ripetutosi in questi giorni a Sakhanka, nella DNR, colpita con mortai da 120 e 82 mm, lungo la direttrice di Mariupol; come a Logvinovo, Kalinovka, Smeloe, Donetskij, nella LNR. Colpi, ieri, anche sulla immediata periferia di Donetsk.
Intanto, in quella che la junta golpista definisce «la frontiera orientale della democrazia», Anthony Blinken si è incontrato a Kiev col Ministro degli esteri Dmitrij Kuleba, il Primo ministro Denis Šmygal’ e, alla fine, col Presidente Vladimir Zelenskij, tirando loro le orecchie soprattutto per la questione di “Naftogaz”, che Biden-Burisma considera proprio feudo.
In compenso, si sono contrattate forniture di armi per l’aggressione al Donbass, mentre sembra che la delegazione yankee abbia raffreddato un po’ gli ardori ucraini di pronta adesione alla NATO. A proposito dell’arrivo a Kiev del “revisore” d’oltreoceano che, forse gogolianamente, “non è un bugiardo per mestiere, ma lo è per natura e ispirazione“, il leader della DNR, Denis Pušilin ha affermato che esso non è di buon auspicio.
Così, il capo della delegazione ucraina al Gruppo di contatto, Leonid Kravčuk, vuol proporre di abbandonare il formato di Minsk, ritenendo «necessario cercare nuovi formati»: giro di parole con cui Kiev mira a includere nel “formato normanno” (Francia, Germania, Russia e Ucraina) anche USA, Gran Bretagna e Canada, come affermato più volte da Vladimir Zelenskij. Quel Zelenskij che, secondo Pušilin, non essendo in grado di controllare le azioni delle forze ucraine in Donbass e ignorando le iniziative di pace delle Repubbliche popolari, dimostra la propria «incapacità di risolvere pacificamente il conflitto» e rifiuta colloqui diretti con le Repubbliche popolari, nonostante i sondaggi indichino che vi sia favorevole il 53% degli ucraini.
Quel Zelenskij che si sente le spalle ben coperte, come dimostrato anche all’ONU, allorché il vice rappresentante russo, Dmitrij Poljanskij, nel corso di una riunione informale sulla situazione ucraina, presenti testimoni della strage del 2 maggio 2014 a Odessa, ha constatato come in «risposta ai racconti sinceri e circostanziati di testimoni oculari di quei terribili eventi… abbiamo udito il solito mantra occidentale sulle nostre azioni distruttive contro l’Ucraina».
In questa situazione, di sette anni di aggressione golpista, la giovanissima scrittrice di Lugansk, Faina Savenkova, che i lettori di Contropiano già conoscono, ci trasmette lo spirito del 9 Maggio: suo e di tutto il Donbass, attaccato dagli eredi di quei banderisti, a proposito dei quali la nonna di Faina si chiedeva come mai non fossero stati «finiti tutti nel quarantacinque?».
Una domanda la cui risposta sta in gran parte nei piani dei servizi segreti americani di attacco all’URSS, e anche, purtroppo, negli intrighi di potere khruščëviani dopo la morte di Stalin.
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Destini dimenticati
Sfogliando vecchi album di famiglia, fisso lo sguardo sulle figure impresse nelle fotografie ingiallite dal tempo
Persone comuni; che non si distinguono in nulla. Addirittura, molti di coloro la cui vita è immortalata in quelle pellicole impassibili, non li conosco nemmeno. Come pure non so, per quale ragione fosseroo venuti a trovarsi, in quel momento fissato nell’immagine, accanto ai miei cari; quali strade li avessero portati a incontrarsi.
Destini diversi, quasi dimenticati e perduti da qualche parte nelle pagine della storia. Di una storia che essi hanno costruito insieme, a volte portandole in sacrificio non soltanto i propri nomi, ma anche le proprie vite.
La mia bisnonna era nata e aveva trascorso l’infanzia molto a occidente di Lugansk. Tre sorelle, cresciute troppo in fretta per la guerra. Bambini, rimasti orfani e costretti a sopravvivere in condizioni disumane: crudele prosaicità.
Sono già due anni che la bisnonna non è più con noi. Eppure, nell’ormai lontano 2014, mentre si guardava il notiziario sulla fiaccolata banderista a Kiev, lei disse soltanto «Perché non li finirono tutti nel quarantacinque?». Perché? Eppure, solo grazie alla nebbia, quelli che oggi vengono chiamati eroi, non arrivarono fino al villaggio in cui viveva la bisnonna. Proprio per questo, lei e le sue sorelle si salvarono. E io sono venuta al mondo.
Mi è difficile capire come sia potuto accadere che i sacrifici di molti testimoni della Grande guerra patriottica, per restituire la pace alla terra natale, e anche la loro stessa vita, siano svaniti e si siano perduti in appena pochi anni.
Davvero si riesce a rimanere impassibili, tenendo tra le mani le vecchie foto dei propri bisnonni? Davvero non sorge il desiderio di capire come essi potessero essere diventati tali, quali noi li ricordiamo: forti, amorosi, felici per le cose più semplici? Non è forse vero che, negando o riscrivendo il loro passato a nostro intendimento, noi tradiamo non soltanto i nostri cari, ma anche noi stessi?
Non trovo risposte a queste domande. Credo che pochi riescano a trovarle. Ma, quello che trovo, quello che ho, è la fede che gli errori di oggi verranno corretti, prima che sia troppo tardi. E allora, anche a Kiev si tornerà a onorare la memoria di coloro che liberarono la città, e non di quelli che uccisero i suoi abitanti.
Il filo che unisce le generazioni è nell’aspirazione alla pace e nel raggiungerla, per la felicità dei figli, e non nella brama di distruggere tutto. Credo che questa sia la cosa più importante da ricordare alla vigilia della festa della Vittoria. Senza dimenticarlo mai più.
(premessa e traduzione di Fabrizio Poggi)
https://news-front.info/2021/05/05/zabytye-sudby/
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