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The Afghanistan Papers: un castello di menzogne che crolla

Il 9 dicembre 2019 veniva pubblicato da Craig Whitlock, sul Washington Post, il primo articolo di un corposo dossier che apriva uno squarcio impressionante sul velo di ipocrisie e menzogne che aveva caratterizzato fino a quel momento la narrazione dell’establishment statunitense su quella che era, già allora, la più lunga ed impegnativa guerra statunitense, e dell’Alleanza Atlantica.

Queste rivelazioni, nell’ambito dell’attività di inchiesta di una agenzia governativa (il cui acronimo è SIGAR), erano basate su una serie di interviste de-secretate, ad alti responsabili coinvolti nella guerra in Afghanistan, rese pubbliche grazie ad una coriacea battaglia di Craig e del Washington Post.

In queste interviste emergeva chiaramente, tra l’altro, la differenza abissale tra ciò che veniva dichiarato pubblicamente e ciò che questi funzionari di alto profilo pensavano di una avventura bellica iniziata da un presidente repubblicano – George W. Bush junior – nel 2001, continuata durante i due mandati di Barack Obama, di fatto terminata con gli Accordi di Doha – dopo tre anni di trattative – tra i Talebani e Donald Trump del febbraio dell’anno scorso, senza che il governo “fantoccio” avesse alcuna voce in capitolo.

Letteralmente i Talebani avevano dichiarato che non volevano parlare con i burattini, ma solo con il burattinaio. Non avevano poi tutti i torti, visto che Ashraf Ghani è fuggito in Oman con un carico di soldi quando i Talebani sono arrivati alle porte della città.

Lo scambio politico tra coloro che avevano governato l’Afghanistan dal settembre del 1996, fino all’invasione del 2001, e gli Stati Uniti si è concretizzato nella promessa di non tornare ad essere un hub del “terrorismo islamico”. Non altro. L’ammissione di una sconfitta di fatto, con fumosi giri di parole per definire i nuovi padroni del futuro Emirato a cui veniva consegnato, per la seconda volta, il Paese.

Joe Biden, in continuità con il suo predecessore aveva solo posticipato la fine del ritiro, iniziato a maggio e finito alcuni giorni fa, dopo la presa di Kabul da parte degli “studenti di teologia” il 15 agosto, contro le previsioni dell’intelligence statunitense che pensava che la capitale sarebbe caduta nelle mani degli insorti non prima di 60-90 giorni dalla conclusione del ritiro.

Dominic Raab, segretario agli Affari Esteri del Governo Britannico, nonostante un puntuale report del 22 luglio del Foreign Office prevedesse di fatto quello che poi è accaduto, in risposta a un’interrogazione parlamentare ha dichiarato che credeva che la capitale non sarebbe caduta entro l’anno!

Evidentemente anche gli altri ranghi avevano finito di credere alle bugie che loro stessi raccontavano sulle virtù del nation building occidentale e la consistenza del governo fantoccio.

Ciò che emergeva dal dossier non era solo la differenza tra narrazione ufficiale e realtà fattuale. Uno degli elementi più stupefacenti è il fatto che nessuno capiva il motivo del prolungarsi della guerra e nemmeno dla strategia adottata e persino – per quanto sembri assurdo – chi fosse il nemico.

Ma, nonostante l’impasse sul piano militare, alcuna decisione veniva presa per fermare la guerra afghana, considerato che il worst case scenario inizialmente ipotizzato dal Bush junior era “un anno, o due”.

Una conferma delle parole di Frank Zappa secondo cui: “la politica in USA è la sezione di intrattenimento dell’apparato militar-industriale”.

Un complesso che ha continuato a drenare risorse sottraendole alla popolazione nord-americana stessa; quel “furto”, di cui già parlava Eisenhower nell’ultimo anno della sua presidenza, ha assunto per ciò concerne l’Afghanistan una cifra superiore a 3 mila miliardi di dollari.

Quel prezioso lavoro di scavo, iniziato alcuni anni fa, ora è un libro uscito da pochissimi giorni dal titolo: “The Afghanistan Papers. A Secret History of the War”, di cui l’articolo che abbiamo tradotto è una recensione “in anteprima” pubblicata dalla testata di giornalismo investigativo, The Intercept.

Ma la storia “segreta” – si fa per dire – di questa guerra inizia molto prima, anche se abbiamo di rado sentito parlare di Charlie Wilson, Gust Avrakotos e Joanne Herring, figure chiave della decennale guerra statunitense all’Afghanistan svelata nel 2003 da George Crile in “Il Nemico del mio nemico”.

In realtà, infatti, la decisione dell’amministrazione Carter di intervenire nel Paese Asiatico contro la Rivoluzione Saur, dell’aprile del 1978, appoggiando la contro-rivoluzione (prima dell’intervento sovietico nel dicembre 1979) è il vero “spartiacque” nella politica statunitense nell’area e getta le premesse per ciò che è avvenuto da 40 anni a questa parte.

Uno dei pochi intellettuali italiani a ricordarlo è il professor Luciano Canfora in una intervista a Il Riformista: «Le lancette del tempo non vanno riportate indietro di vent’anni. Ma di altri venti ancora. Quando gli Stati Uniti, pur di eliminare un governo liberamente eletto dagli afghani ma che aveva la “colpa” di essere vicino all’Unione Sovietica, decisero di finanziare, addestrare, armare i miliziani di Osama Bin Laden. Quarant’anni dopo, l’America fa i conti con la rivincita della Storia».

Un giudizio netto, quello di Canfora, in sintonia con uno dei decani del giornalismo di guerra John Pilger che in un suo recente intervento sul Globetrotter scrive: «Nel 1978, un movimento di liberazione guidato dal Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan (PDPA) rovesciò la dittatura di Mohammad Daoud, cugino del re Zahir Shar. 

Fu una rivoluzione immensamente popolare che colse di sorpresa gli inglesi e gli americani. I giornalisti stranieri a Kabul, aveva riferito allora il New York Times, erano rimasti sorpresi nello scoprire che “quasi tutti gli afgani che avevano intervistato avevano dichiarato [di essere] felici del colpo di stato”.

Il Wall Street Journal aveva riportato che “150.000 persone… avevano marciato per onorare la nuova bandiera… i partecipanti erano apparsi sinceramente entusiasti”. Il Washington Post aveva riferito che “la lealtà afgana al governo non si poteva mettere in discussione”.

Laico, modernista e, in misura considerevole, socialista, il governo aveva dichiarato un programma di riforme visionarie che includeva la parità di diritti per le donne e le minoranze. I prigionieri politici erano stati liberati e gli archivi della polizia erano stati pubblicamente bruciati.

Sotto la monarchia, l’aspettativa di vita era di 35 anni; un bambino su tre moiva durante l’infanzia. Il novanta per cento della popolazione era analfabeta. Il nuovo governo aveva introdotto l’assistenza medica gratuita. Era stata lanciata una campagna di alfabetizzazione di massa.

Per le donne, i guadagni non avevano precedenti; alla fine degli anni ’80, metà degli studenti universitari erano donne, e le donne costituivano il 40% dei medici dell’Afghanistan, il 70% dei suoi insegnanti e il 30% dei suoi dipendenti pubblici.»

L’Occidente ha perso una guerra, dopo avere scoperchiato il vaso di Pandora già quarant’anni fa per far vincere la controrivoluzione, e su quel cumulo di menzogne si è costruita la narrazione dominante dalla fine della guerra fredda in poi.

Buona lettura

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Da chi è stato perso l’Afghanistan?

Nick Turse

Subito dopo l’11 settembre, gli americani erano favorevoli alla guerra. Un sondaggio della CNN/USA Today/Gallup ha rilevato che il 90% degli americani approvò l’attacco degli Stati Uniti contro l’Afghanistan, mentre il 65% del pubblico era a suo agio con la prospettiva che i civili afghani venissero uccisi. Solo il 22% pensava che la guerra sarebbe durata più di due anni. 

Gli americani volevano il sangue e l’hanno ottenuto. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Afghanistan e hanno trascorso i successivi 20 anni a fare la guerra lì e oltre: in Burkina Faso, in Camerun, in Iraq; in Libia, in Niger, nelle Filippine in Somalia in Siria, in Tunisia e in Yemen, tra gli altri luoghi.

Secondo il progetto Costs of War della Brown University, da allora più di 770.000 persone sono decedute di morte violenta nelle guerre e negli interventi americani, inclusi più di 312.000 civili . 

Del 10 per cento degli americani che pensavano che la guerra non fosse la risposta, un piccolo numero ha manifestato contro l’imminente conflitto. Hanno marciato ad Austin, in Texas, a New York, a San Francisco, a Washington DC e altrove.

Ci voleva coraggio per denunciare la “vendetta indiscriminata” , per affermare che era ridicolo attaccare un Paese per un crimine commesso da un piccolo gruppo di terroristi e per suggerire che le ripercussioni avrebbero potuto riecheggiare per decenni. Sono stati derisi, insultati, chiamati feccia e traditori, e anche peggio.

Coloro che avevano compreso già nel settembre 2001 sono stati da tempo dimenticati. La Casa Bianca, il Pentagono e i media non hanno mai cercato consigli, commenti o suggerimenti dai dissidenti, mentre la guerra in Afghanistan è uscita dai binari, finendo domenica con il caotico crollo del governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti.

Invece, coloro che hanno sbagliato hanno costantemente dominato nelle sale del potere. “E’ successo più rapidamente di quanto avessimo previsto”, ha ammesso il presidente Joe Biden, che aveva votato a favore dell’azione militare nel 2001.

[L’ex presidente afghano Ashraf] Ghani ha insistito sul fatto che le forze afghane avrebbero combattuto, ma ovviamente si sbagliava“. Ghani non era solo. Biden e innumerevoli altri americani hanno giocato un ruolo chiave in una strada ventennale verso la sconfitta iniziata con la caduta dal dei talebani nel 2001 e conclusa con l’insediamento dei talebani nel palazzo presidenziale della capitale dell’Afghanistan, Kabul, questa settimana.

Il nuovo libro del giornalista Craig Whitlock, “The Afghanistan Papers: A Secret History of the War”, aiuterà a garantire che nessuno dimentichi il danno che i leader civili e militari americani hanno fatto, le bugie che hanno raccontato e la guerra che hanno perso. 

Sintetizzando più di 1.000 interviste e 10.000 pagine di documenti, Whitlock fornisce uno stupefacente studio del fallimento e delle menzogne, un resoconto inconfutabile dell’ignobile sconfitta degli Stati Uniti nelle parole di coloro che – dal campo di battaglia al quartier generale della NATO a Kabul e dal Pentagono alla Casa Bianca – hanno sbagliato così tanto e per così tanto tempo, hanno coperto i propri fallimenti con falsità e hanno cercato di evitare anche un briciolo di responsabilità.

La gente spesso mi chiede: ‘Quanto durerà?’” disse il presidente George W. Bush l’11 ottobre 2001, pochi giorni dopo che gli Stati Uniti avevano iniziato a bombardare l’Afghanistan. “Questo particolare fronte di battaglia durerà tutto il tempo necessario per portare Al Qaeda davanti alla giustizia. Potrebbe succedere domani, potrebbe succedere tra un mese, potrebbero volerci un anno o due. Ma noi prevarremo».

Più di un decennio dopo, gli Stati Uniti non avevano ancora vinto la guerra, e un’oscura agenzia governativa, l’Ispettorato Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR, ha cercato di capirne il motivo.

Il risultato sono state più di 400 interviste “Lezioni apprese” condotte con funzionari per lo più americani (ma anche afgani e della NATO), nonché altri esperti, operatori umanitari e consulenti. Le loro valutazioni erano sincere, spesso schiaccianti, e il governo ha cercato di tenerle nascoste.

Ma l’instancabile Whitlock e il suo datore di lavoro, il Washington Post, attraverso due cause legali sul Freedom of Information Act, hanno costretto il governo a consegnare i file. Questi dischi sono diventati la base di una serie pluripremiata per il Post; ora, combinati con diverse raccolte di documenti provenienti da varie collezioni pubbliche, questi file sono diventati “The Afghanistan Papers” il resoconto americano più completo del conflitto e aiutano a spiegare, meglio di qualsiasi altro libro, perché così tanti di coloro che hanno pianificato, guidato e combattuto la guerra hanno fallito in modo così spettacolare.

Assemblando abilmente resoconti tematici e cronologici, Whitlock consente ai manager di guerra americani di impiccarsi con le proprie citazioni, offrendo un catalogo enciclopedico di bugie e inettitudine, delusione e negazione, incompetenza e corruzione e, soprattutto, codardia di rango.

Whitlock presenta ripetutamente le valutazioni pessimistiche e i severi giudizi di funzionari che credevano che le loro osservazioni non sarebbero mai diventate pubbliche: guerrafondai che avrebbero potuto parlare pubblicamente, ma troppo spesso hanno tenuto nascoste le loro valutazioni o le hanno espresse quando era troppo tardi per avere importanza. 

Non avevamo la più pallida idea di ciò che stavamo intraprendendo“, ha ricordato il tenente generale dell’esercito Douglas Lute, il signore della guerra della Casa Bianca sotto i presidenti George W. Bush e Barack Obama.

Non sapevamo cosa stavamo facendo“, ha detto Richard Boucher, il massimo diplomatico dell’amministrazione Bush per l’Asia meridionale e centrale.

C’era una tremenda… disfunzionalità nell’unità di comando all’interno dell’Afghanistan, all’interno dell’esercito“, ha ricordato il tenente generale dell’esercito David Barno , uno dei primi comandanti della guerra in Afghanistan.  

Non c’era alcun piano“, ha confessato il generale dell’esercito Dan McNeill, che per due volte è stato il comandante in capo in Afghanistan sotto Bush. “Ho cercato di convincere qualcuno a definire per me cosa significasse vincere, anche prima che andassi oltre, e nessuno riusciva.” 

Questi e centinaia di altri funzionari, ufficiali militari, diplomatici e analisti avrebbero potuto lavorare con il popolo americano immediatamente o in qualsiasi momento negli ultimi 20 anni.

Se lo avessero fatto, forse la guerra in Afghanistan avrebbe potuto essere accorciata di un decennio o più; forse seguire i conflitti non sarebbe stato così facile da iniziare o si sarebbe rivelato così difficile da terminare; forse più di 770.000 persone non sarebbero morte e fino a 59 milioni sarebbero state costrette a lasciare le loro case a causa delle guerre americane post-11 settembre .

Invece, gli americani erano confusi sul conflitto in Afghanistan, incerti su cosa fossero lì per realizzare, perché lo stessero facendo, contro chi stavano combattendo e per cosa stavano combattendo.

Cosa stavamo facendo in realtà in quel paese?“, ha chiesto un funzionario statunitense che ha prestato servizio con il rappresentante civile senior della NATO in Afghanistan. “Siamo entrati dopo l’11 settembre per sconfiggere Al Qaeda in Afghanistan, ma la missione è diventata confusa“.

Chiamarla confusione è la valutazione più gentile possibile. Un’altra cosa è che, come scrive Whitlock, il governo stava spacciando notizie false “così ingiustificate e infondate che le loro dichiarazioni equivalevano a una campagna di disinformazione“.

Whitlock fa un lavoro magistrale nell’estrarre le sinossi di SIGAR conquistate a fatica e le interviste archiviate per giustapporre giudizi privati ​​a commenti pubblici.

Il primo segretario alla Difesa di Bush, Donald Rumsfeld, morto di recente di mieloma multiplo, ma Whitlock dimostra abilmente che la vergogna avrebbe dovuto prenderlo anni prima. Di tutti i vili manager di guerra che prendono il loro turno da star in “The Afghanistan Papers“, Rumsfeld potrebbe risultare il peggiore.

Non ho idea di chi siano i cattivi“, ha scritto il defunto segretario alla Difesa in una nota interna a quasi due anni dall’inizio della guerra. “Siamo terribilmente carenti di intelligenza umana“.

Rumsfeld non ha mai condiviso il suo pessimismo con il pubblico americano. Invece, per anni, ha rimproverato la stampa, mentre si vantava pubblicamente di segnali di progresso e di svolta. Nel 2003, Rumsfeld annunciò che i talebani erano finiti.

Nella misura in cui si riuniscono in gruppi di più che uno o due… verranno uccisi o catturati“, si vantava. Se c’è giustizia, Rumsfeld è attualmente sotto torchio nell’aldilà per sapere se sono uno o due combattenti talebani che stanno invadendo città e distretti in tutto l’Afghanistan. 

Tanto in “The Afghanistan Papers” si legge come un’eco inquietante della guerra americana in Vietnam. Durante quel conflitto, l’esercito sudvietnamita che è stato costruito, addestrato, armato e finanziato dagli americani è stato regolarmente ( e non sempre ingiustamente) denigrato per la sua codardia e incompetenza. Alla fine, i funzionari statunitensi non riuscivano a capire come un esercito di 1 milione di persone con miliardi di dollari di armi e attrezzature americane sia crollato nel 1975.

In “The Afghanistan Papers“, gli americani denigrano allo stesso modo l’esercito afghano che hanno costruito o trovano scuse per la sua debolezza e inettitudine. Come potrebbero essere colpevoli gli Stati Uniti quando le truppe afghane non sono in grado di leggere, scrivere o identificare i colori; scambiano gli orinatoi per fontanelle; non riuscivano a imparare le tattiche di base o riuscire a tirare dritto; ed erano pigri e corrotti?

Non esaminato è proprio il motivo per cui un’insurrezione disordinata, senza armi e senza fondi attinta dalla stessa popolazione, senza il sostegno di un’aeronautica o di una superpotenza, è stata in grado di esistere, e ancor meno di compiere progressi consistenti, per oltre 20 anni, terminando con una guerra lampo che ha preso una grande città dopo l’altra, inclusa Kabul, nel giro di pochi giorni.

L’oppio è un’altra sovrapposizione chiave. Durante la guerra del Vietnam, mentre l’uso di eroina tra le truppe statunitensi aumentava vertiginosamente, Air America, una compagnia gestita dalla CIA, trasportava l’ oppio raccolto dai contadini del Laos che prestavano anche servizio come soldati nell’esercito segreto dell’agenzia.

Dopo la sconfitta nel sud-est asiatico, gli Stati Uniti cercarono di intrappolare l’Unione Sovietica nel proprio “Vietnam” in Afghanistan, dove, come riportò il New York Times , “fiorì la produzione di oppio…con il coinvolgimento di alcuni mujahidin, ribelli che sono stati supportati dalla CIA”.

Quando gli americani hanno combattuto contro alcuni di quegli stessi mujaheddin e i loro figli negli anni 2000, gli Stati Uniti erano contro la produzione di droga e avevano dedicato miliardi all’eliminazione dei papaveri, ma l’Afghanistan è diventato comunque il primo narco-stato del mondo

Whitlock offre l’Operazione River Dance, un’invasione congiunta USA-Afghanistan di due mesi nei campi di papaveri nel sud dell’Afghanistan, come lezione pratica. John Walters, il signore della droga dell’amministrazione Bush, ha detto ai giornalisti che lo sforzo stava “facendo enormi progressi”, ma in realtà tutto è andato storto.

I bulldozer si sono rotti; i trattori sono rimasti bloccati nei fossi; un aereo preso a noleggio dal Dipartimento di Stato pieno di funzionari delle forze dell’ordine statunitensi si è schiantato contro un gruppo di case, uccidendo civili. Gli afgani coinvolti nello sforzo sono diventati disertori; gli agricoltori locali erano arrabbiati e alienati. I mediatori del potere afghano hanno iniziato a usare l’operazione per colpire i rivali; e una regione precedentemente tranquilla è diventata un focolaio di militanti.

“Dicono che abbia avuto molto successo”, l’allora tenente colonnello Michael Slusher, un consigliere durante l’operazione, ha detto a un intervistatore dell’esercito. “Penso che sia semplicemente una stronzata

Semplicemente una stronzata” è un epitaffio appropriato, non solo per River Dance o la spinta americana per sradicare i papaveri da oppio, ma per gli tutti gli sforzi degli Stati Uniti in Afghanistan. Proprio come in Vietnam, i militari hanno falsificato i risultati ad ogni livello di comando , mentendo sulla guerra a se stessi, al Congresso e al popolo americano.

Ogni punto dei dati è stato modificato per presentare il miglior quadro possibile“, ha affermato il colonnello dell’esercito Bob Crowley, un consigliere senior nel 2013 e nel 2014.

Nelle interviste SIGAR, osserva Whitlock, “funzionari e consiglieri militari statunitensi hanno descritto sforzi espliciti e sostenuti per fuorviare deliberatamente il pubblico” dal campo di battaglia fino alla Casa Bianca, distorcendo i dati per far sembrare che gli Stati Uniti stessero vincendo la guerra.

Se una piccola biblioteca di libri sulla guerra del Vietnam è una guida, storici falchi, reprobi revisionisti e guerrafondai addolorati prenderanno questo mantello e cercheranno di rifondere la guerra in Afghanistan in termini favorevoli, scusando l’ennesima sconfitta militare americana e incolpando i soliti sospetti. 

Prima che Kabul cadesse nelle mani dei talebani, un gruppo di ambasciatori statunitensi ha emesso una richiesta: “Non perdere l’Afghanistan“. Questo post del 6 agosto sul blog dell’Atlantic Council di cinque uomini, che hanno giocato tutti un ruolo chiave nella lunga marcia verso la sconfitta dell’America, si è concluso con un appello per ancora più guerra, basandosi su una posizione di ripiego dei falchi della guerra intellettualmente e moralmente in bancarotta.

Gli Stati Uniti, hanno insistito, “possono e devono agire con forza in Afghanistan con il supporto aereo e della difesa insieme a una solida diplomazia. È in gioco il futuro del Paese, così come la credibilità globale di Washington».

Si rifà a una ripartizione degli obiettivi statunitensi in Vietnam del 1965 precedentemente secretata da parte dell’assistente del segretario alla Difesa John McNaughton: “70% – Per evitare un’umiliante sconfitta degli Stati Uniti“, rispetto al 10% per l’obiettivo pubblicamente dichiarato di consentire “al popolo di [ Vietnam del Sud] per godere di uno stile di vita migliore e più libero”.

La credibilità è stata la ragione schiacciante (e segreta) per prolungare la guerra di altri 10 anni al costo di milioni di vite nel sud-est asiatico .

Anche HR McMaster, tenente generale in pensione, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, storico della guerra del Vietnam e uno degli americani che hanno perso la guerra in Afghanistan, è entrato nella mischia.

Lo stesso uomo che ha scritto che “la guerra in Vietnam non è stata persa sulle prime pagine del New York Times, o nei campus universitari. È stato persa a Washington, DC“, ha recentemente twittato, prima della caduta di Kabul, “i media statunitensi stanno finalmente scrivendo della trasformazione dell’Afghanistan dopo che il loro disinteresse e disfattismo hanno contribuito a creare le condizioni per la capitolazione e una catastrofe umanitaria“.

Per fortuna, abbiamo “The Afghanistan Papers“. “Con il loro silenzio complice, i leader militari e politici hanno evitato la responsabilità e hanno evitato rivalutazioni che avrebbero potuto cambiare l’esito o abbreviare il conflitto“, scrive Whitlock. È un modo diplomatico per dire che di fronte all’opportunità di dire la verità e limitare la quantità di sangue sulle loro mani, i manager di guerra americani hanno costantemente raddoppiato la violenza.

The Afghanistan Papers” aiuta a fornire una piccola misura di giustizia, costringendo i leader a convivere con le loro bugie ora pubbliche e fornisce un elenco interessante di coloro che dovrebbero essere evitati dai produttori di notizie via cavo, dai comitati di assunzione della Casa Bianca e del Pentagono, dagli editori di libri, e redattori di pagine di opinione di giornali.

Sulla scia dell’acquisizione talebana di questa settimana, molti si pongono una domanda che verrà ripetuta dalle generazioni future: “Da chi è stato perso l’Afghanistan?” “The Afghanistan Papers” di Whitlock offre la risposta definitiva.

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