In Libano la storia si replica in tragedia, anche nelle apparenze. Le raffiche di kalashnikov, la gente nelle strade che corre al riparo, le barricate incendiate, i morti: questo è quello che si è visto giovedì scorso nella strade di Beirut, scene da guerra civile caratterizzate da un incomprimibile settarismo.
Ma non è soltanto così: il Paese dei cedri è al collasso economico e allo stesso tempo al centro di una battaglia internazionale. Non da oggi, ma da quando è cominciata la guerra la guerra in Siria nel 2011 – con il coinvolgimento degli Hezbollah libanesi e l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi – e ancora prima nello scontro sempre presente con Israele.
Un fronte perennemente caldo, come testimonia la guerra del 2006 e la presenza del contingente Unifil nel Sud, un contingente Onu di 10mila soldati sotto comando italiano con la partecipazione di 1500 militari italiani. Una missione per stabilizzare la Linea Blu tra Libano e Israele dove la tensione è sempre presente.
Non a caso Israele chiede lo scioglimento della missione Onu perché non lavora per il disarmo di Hezbollah mentre secondo Tel Aviv l’Iran continua a trasferire missili alle milizie sciite.
È questo il «casus belli» che Israele si tiene sempre pronto a sfoderare per giustificare eventuali azioni militari e aeree in Libano, come testimoniano i fragorosi voli quotidiani di avvertimento dei caccia israeliani sul Paese dei Cedri.
La guerra siriana, con l’asse della Mezzaluna sciita – Assad-Teheran-Hezbollah libanesi e la retrovia irachena – è stato il vero spartiacque regionale che poi ha condotto al formarsi, con l’appoggio decisivo degli Usa, del Patto di Abramo tra Israele e le monarchie del Golfo.
Il Patto è la bussola americana e israeliana per tutta la regione e un pezzo consistente del mondo arabo: ha un nemico primario, l’Iran, uno secondario, la Siria di Assad, e nel mirino tutti gli altri alleati sciiti della regione, dagli Hezbollah agli Houthi in Yemen, alle milizie sciite sia in Siria che in Iraq.
Una volta il Patto di Abramo colpisce direttamente, come nel caso degli attentati contro generali e scienziati iraniani, un’altra indirettamente prendendo di mira gli alleati della repubblica islamica.
La cosa è evidente in Siria dove Israele colpisce – quando decide – le milizie filo-sciite senza che per altro nessuno protesti, neppure Mosca schierata sul campo a fianco di Assad dal 2015.
Per questo, come scriveva Michele Giorgio sul manifesto, non sono casuali gli scontri divampati in seguito alle proteste di Hezbollah e Amal contro il giudice che si occupa delle indagini sulla devastante esplosione del 4 agosto 2020 al porto della città, una verità che probabilmente non sapremo mai.
Chi ha sparato stavolta sui manifestanti? Le raffiche sarebbero partite dal quartiere di Ain el-Remmaneh, roccaforte del partito cristiano delle Forze libanesi di Samir Geagea, rivale dei due movimenti sciiti – per altro, non dimentichiamolo, anche forze parlamentari e di governo – che controllano invece i confinante quartiere di Shiyah.
Samir Geagea contro Hassan Nasrallah: è la sindrome del Libano, in cui la vita politica gira sempre intorno agli stessi personaggi.
Sembra la solita intricata vicenda sullo sfondo di un Paese al collasso economico e sociale, oltre che diviso dalle storiche contrapposizioni settarie. Mancano l’elettricità, il carburante, la valuta locale è quasi carta straccia e un terzo della popolazione vive sotto la soglia della povertà. Ma la crisi libanese, dopo i morti di giovedì, potrebbe diventare qualche cosa di più ampio e pericoloso di una faida settaria.
Gli sponsor esterni fanno parte della scenografia degli eventi libanesi, un dato scontato ma sempre presente. Se l’Iran è con la Siria l’alleato degli sciiti, Emirati e Arabia saudita lo sono dei sunniti. Mentre americani e israeliani lo sono dei falangisti cristiani, come dimostrano anche le tragedie del passato.
Insomma si soffia sul fuoco di un nuovo incendio libanese. Con due obiettivi: indebolire la Mezzaluna sciita e allontanare una soluzione diplomatica al tavolo del negoziato con l’Iran, uno dei mantra di questo governo israeliano così come lo era di quello di Netanyahu.
Anche se non c’è più Trump alla Casa Bianca, con Biden il trumpismo non è finito. Questa amministrazione dice di volere incoraggiare il multilateralismo, ma lo fa soltanto quando gli fa comodo: per esempio il G-20 romano sull’Afghanistan è stato utile per scaricare ulteriormente il peso del fallimento Usa sulle Nazioni Unite.
Ma quando c’è da cogliere altri risultati, come far fuori qualcuno, oppure scatenare un certo caos organizzato per indebolire i nemici, Washington punta sempre su Israele e il Mossad.
Biden ha dichiarato di volere tornare all’accordo sul nucleare cancellato da Trump nel 2018, ma non appare scontato. «Il tempo stringe», ha detto qualche giorno fa il segretario di Stato Antony Blinken riguardo al rilancio dell’accordo (Jcpoa) sul programma nucleare civile di Teheran, al termine di un incontro a Washington con il ministro degli esteri israeliano Yair Lapid e il capo della diplomazia degli Emirati Abdullah Bin Zayed Al Nahyan.
«Siamo pronti ad altre opzioni se l’Iran non cambia rotta», ha aggiunto. E qual è l’opzione? Forse non una guerra diretta all’Iran, ma sicuramente mettere sotto pressione la Mezzaluna sciita, a partire magari proprio dal Libano.
Ed ecco che Beirut in questo scenario è ridiventato il punto di convergenza internazionale di un conflitto più ampio, come è sempre tragicamente avvenuto in passato.
* da il manifesto
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