Una decina di ambasciatori stranieri in Turchia tra cui i rappresentanti di Usa, Francia e Germania, saranno dichiarati “persona non grata”. Ad annunciarlo è stato lo stesso il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan.
“Ho ordinato al nostro ministro degli Esteri di dichiarare al più presto questi 10 ambasciatori come persona non grata”, ha detto Erdogan senza però indicare una data precisa sulla possibile espulsione dei diplomatici.
Il pretesto il nuovo atto di forza di Erdogan verso le potenze occidentali è l’intervento di diversi governi europei e Usa che chiedeva la liberazione di Osman Kavala, detenuto nel carcere di Silivri, non lontano da Istanbul, da oltre 1.400 giorni con l’accusa di aver organizzato gli scontri avvenuti per il parco Gezi nel 2013 e di essere un uomo di fiducia del magnate George Soros in Turchia.
Gli ambasciatori di Stati Uniti, Francia, Germania, Olanda, Canada, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca e Nuova Zelanda (ma non l’Italia,ndr), avevano lanciato un appello congiunto per chiedere l’attuazione di una sentenza del 10 dicembre 2020 della Corte europea dei diritti umani, che aveva dichiarato illegittima la detenzione di Kavala, sottolineando le violazioni dei diritti del magnate turci e chiedendone la scarcerazione, mai avvenuta.
Ankara ha ritenuto e continua però a non ritenere vincolante per il proprio paese la decisione della Corte di Strasburgo, che aveva accolto le richieste degli avvocati di Kavala.
Lo scorso 18 ottobre il ministero degli Esteri della Turchia aveva convocato gli ambasciatori di dieci Paesi. Secondo quanto riferisce il quotidiano turco “Daily Sabah”, il rilascio di Kavala era stato richiesto dalle rappresentanze diplomatiche di Canada, Francia, Finlandia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Norvegia, Svezia e Stati Uniti. “È un obbligo che tutte le entità diplomatiche rispettino la sovranità del nostro Paese e l’indipendenza della magistratura turca e che si astengano dall’intervenire nei nostri affari interni”, ha affermato in una nota su Twitter il portavoce del partito per la Giustizia e lo sviluppo (Akp) Omer Celik.
Kavala è un magnate fondatore dell’organizzazione Anadolu Kultur, impegnata nella promozione di arte, cultura e dei diritti dell’uomo. È stato, inoltre, per anni un interlocutore di molte istituzioni europee.
Kavala è stato rinviato a giudizio con una richiesta di ergastolo per le proteste del 2013 per il parco Gezi, che secondo il pubblico ministero puntavano a rovesciare il governo. Kavala ha già annunciato che non prenderà parte alle udienze del processo, ritendolo non equo.
Commenta giustamente Alberto Negri che questi fatti rivelano che “stanno esplodendo enormi contraddizioni di quel mondo atlantista occidentale che in questi anni ha fatto guerre ovunque pensando di usare gli attori regionali a suo vantaggio. E ora si paga il prezzo”.
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andrea’65
Erdogan ha gia’ richiamato i 10 non graditi e si appresta a richiedere la liberazione di Assange, poi vediamo chi è il regime autoritario
Gianni Sartori
COME PROCEDE L’INCHIESTA SULL’ASSASSINIO DI DENIZ POYRAZ?
Come forse ci si doveva aspettare l’inchiesta sull’uccisione della ventiduenne Deniz Poyraz, militante di HDP, non solo procede a rilento, ma con estrema negligenza (eufemismo).
La giovane curda era stata assassinata a Izmir il 17 giugno mentre si trovava nella sede provinciale del Partito democratico dei popoli (HDP).
L’edificio era stato oggetto di un attacco armato da parte di Onur Gencer, un uomo di 27 anni dai probabili legami con gruppi armati anti-curdi attivi nel nord della Siria (o almeno questo si intuisce dalle foto da lui stesso pubblicate dove appare in mimetica, pesantemente armato e mentre fa il gesto dei Lupi Grigi) dove potrebbe aver avuto addestramento militare. L’autore dell’aggressione armata (quantomeno una “provocazione”, stile da strategia della tensione) aveva anche tentato di incendiare la sede di HDP dichiarando di “aver agito da solo per odio nei confronti del PKK e di aver sparato a caso”.
L’attacco, appare evidente, si sarebbe potuto mutare in una vera e propria strage se Deniz, sequestrata e freddata con tre colpi, non fosse stata l’unica persona presente in quel momento all’interno dei locali. In realtà – e presumibilmente Gencer ne era stato informato (vien da chiedersi “da chi?”) – quel giorno avrebbe dovuto svolgersi una riunione, poi spostata per ragioni organizzative, con la presenza di una quarantina di esponenti del partito.
In questi giorni la Commissione per i diritti umani di HDP, attraverso il portavoce Turkan Aslan Agac e l’Associazione degli avvocati per la libertà, rappresentata da Imdat Atas, nel corso di una conferenza stampa, hanno denunciato il modo in cui (non) procede l’inchiesta.
Secondo i due portavoce “sia gli attuali detentori del potere, sia le forze dell’ordine hanno agito con il tacito consenso reciproco in modo da non essere indagati”.
Sottolineando come “sia prima che dopo il fatto, la presenza delle forze di polizia davanti alla sede di HDP era più scarsa di quanto avviene normalmente”. Nonostante, particolare non secondario, proprio di fronte vi sia una stazione di polizia. Inoltre, il ritardo con cui le forze dell’ordine hanno reagito (ad un attacco, va spiegato, contro il terzo grande partito della Turchia e nella terza grande città del paese), la mancanza di intervento durante l’attacco stesso e la negligenza mostrata nel raccogliere prove, viene definita come una “catena di carenze”. Forse previste, calcolate.
Un metodo già intravisto in analoghe circostanze, quando cioè a subire aggressioni armate sono le organizzazioni per i diritti umani o appunto le sedi di HDP.
Imdat Atas non ha esitato nel definirlo “un crimine politico premeditato e preannunciato” in quanto il responsabile (che tra l’altro non era nemmeno stato arrestato, ma si è consegnato spontaneamente) aveva già pubblicato esplicite minacce contro il partito HDP nelle reti sociali.
Gianni Sartori
CRIMINI CONTRO LE DONNE NELLA REGIONE DI AFRIN OCCUPATA DALLA TURCHIA
Mentre giungono ulteriori conferme dell’utilizzo di gas asfissianti da parte dell’esercito turco nelle zone frontaliere con l’Iraq e mentre la repressione nelle carceri si va intensificando, in particolar modo nei confronti delle prigioniere curde, la Turchia – sia direttamente che indirettamente attraverso i suoi mercenari jihadisti – si rende responsabile di altri crimini contro all’umanità anche nel nord della Siria sotto occupazione.
Nella regione di Afrin in particolare.
Qui, come hanno denunciato varie organizzazioni non governative della società civile in una conferenza stampa a Shehba, dal 18 marzo 2018 almeno 84 donne sono state assassinate e un migliaio rapite.
Come è noto risale appunto al marzo 2018 l’invasione della regione di Afrin da parte delle truppe di Ankara e dei suoi ascari jihadisti.
Il macabro bilancio è stato annunciato, sia in arabo che in curdo, davanti a un’assemblea di decine e decine di donne.
”Quello che sta avvenendo ad Afrin – hanno spiegato – va ben oltre i crimini di guerra”. Infatti lo Stato turco “si sta vendicando contro le donne che lottando avevano sconfitto il terrorismo in Afrin, Serekaniye (Ras al-Ain) e Gire Sei (Tall Abyad)” .
Tra le donne che hanno perso la vita a causa dell’invasione, sei si sono tolte la vita a causa delle violenze subite. Oltre un migliaio sono state rapite e di molte di loro non si conosce la sorte. Calcolando solo quelli denunciati, i casi di stupore sono più di una settantina.
Da parte delle donne di Afrin si è levata una pressante richiesta all’ONU affinché prenda posizione e intervenga in maniera appropriata per impedire questi crimini
Quasi in contemporaneità con la conferenza stampa di Shehba, il 24 ottobre un comunicato delle Forze democratiche siriane (FDS) ha confermato che le tre persone uccise il giorno prima a Kobane erano sue militanti, integrate nel battaglione di Sirrin.
L’auto dove viaggiavano era stata colpita da un drone turco mentre usciva da kobane dove le tre donne si erano recate per cure mediche. La portavoce delle Unità di protezione del popolo (YPG) lo ha definito “l’ennesimo massacro perpetrato dallo Stato turco invasore contro il nostro popolo”.
Non è certo casuale che la violenza della Turchia colpisca in maniera quasi preferenziale le donne che stanno dando un contributo formidabile a quella che genericamente possiamo definire la grande esperienza comunalista in atto nel nord della Siria almeno dal 2012. Un’alternativa radicale alla Stato-nazione, frutto del cambio di paradigma politico avviato da Abdullah Ocalan. Il “Confederalismo democratico” cammina fondamentalmente sulle gambe della partecipazione democratica popolare e su quelle del femminismo libertario ed ecologista.
Un incubo – evidentemente – per l’autoritarismo patriarcale di Erdogan e jihadisti.
Gianni Sartori