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Il colpo di Stato in Sudan e il mutamento degli equilibri in Africa

Il colpo di Stato in Sudan è l’ennesima tappa di un incerto processo di transizione del Paese dopo il defenestramento di Omar Al-Bashir l’11 aprile di due anni fa.

L’ex Primo ministro del governo di transizione, Abdalla Hamkok, rifiutatosi di appoggiare il golpe, è detenuto in una località sconosciuta da questo lunedì.

Il tecnocrate, ex economista di formazione britannica e ufficiale dell’ONU, nominato nel 2019, ha di fatto fallito nella stabilizzazione del Paese.

Il Consiglio Centrale della Forze della Libertà e del Cambiamento (FDC), la coalizione di differenti soggetti che aveva guidato le mobilitazioni contro il regime islamico di Al Bashir, chiama alla “disobbedienza civile” e afferma: «prendendo il potere, arrestando il Primo Ministro e i membri del suo Gabinetto ed i membri del Consiglio Sovrano, e abolendo le sezioni della Dichiarazione Costituzionale, Al-Burhan ha effettivamente spinto il Paese indietro all’era del Consiglio Militare di transizione, prima della formazione del governo di transizione» che avrebbe dovuto essere formato nei prossimi mesi.

La firma della Costituzione Provvisoria, approvata il 4 agosto di 2 anni fa sembrava – in un quadro comunque di grande incertezza – avere sventato temporaneamente lo spettro della guerra civile e iniziato a far cambiare pagina al Paese .

Il Sudan aveva conosciuto dal dicembre del 2018 una stagione di intense mobilitazioni contro il dittatore che governava il Paese da trent’anni, non senza le complicità occidentali, da cui era visto come una pedina importante nel controllo dei flussi migratori e nell’appoggio delle petro-monarchie del Golfo, con propri progetti espansionistici nell’area.

Le mobilitazioni erano proseguite anche dopo la sua deposizione giungendo ad una rottura con i militari, dopo una situazione di stallo, dovuta allo sgombero violento del presidio (il 3 giugno) di fronte al Quartier Generale dell’Esercito, iniziato il 6 aprile 2019. Cioè prima della cacciata del dittatore.

L’allora fragile accordo raggiunto, il 5 luglio, tra il Consiglio Militare Transitorio (TMC), che aveva preso il potere dopo avere deposto Al-Bashir, e le forze della Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento (DFC) – il raggruppamento delle forze dell’opposizione al regime che aveva guidato le mobilitazioni -, coronato da quello raggiunto il mese successivo, anche se aveva “congelato” le ostilità, non aveva aperto una vera fase di stabilità.

Già allora erano molte le incognite dovute alla situazione oggettiva in cui versava il Paese (tra cui l’esistenza di gruppi armati di opposizione, radicati in alcune regioni), la sua possibile collocazione internazionale in un momento di veloce cambio di equilibri geopolitici dell’area, e la difficile coabitazione tra i militari che avevano preso in un primo momento i pieni poteri – e che erano parte integrante del vecchio regime – e le eterogenee forze della “società civile” all’interno delle quali emergeva la SPA, che associa differenti componenti professionali dei ceti maggiormente istruiti.

Proprio la Sudanese Professional Association (SPA) ha chiamato questo lunedì a mobilitarsi contro il golpe: «Chiamiamo le masse a scendere per le strade e ad occuparle, chiuderle con le barricate, intraprendere uno sciopero generale, e non cooperare con i golpisti e far ricorso alla disobbedienza civile per contrastarli», scrive su Facebook con la stessa animosità con cui aveva chiamato alle mobilitazioni contro Al-Bashir prima e poi contro il tentativi di monopolizzare il potere da parte dei militari da aprile in poi.

La prima pietra d’inciampo nella cornice di organismi che avrebbero dovuto guidare la transizione era stata proprio l’incertezza nella composizione del “Consiglio di Transizione” ed il suo bilanciamento tra la componente militare e quella civile, con un difficile compromesso raggiunto appunto dopo mesi dal defenestramento del dittatore. Un conflitto che è riesploso nelle scorse settimane.

Tre anni e tre mesi, avrebbe dovuto durare la transizione nell’accordo raggiunto con la mediazione dell’Etiopia e dell’Unione Africana. Ma l’arresto della maggioranza dei membri della cabinet, questo lunedì, e la dissoluzione manu militari del governo di transizione, l’escalation di violenza e l’annuncio dello stato d’emergenza da parte del generale Abdel Fattah al-Burhan – alla guida del Sovereign Council – cambiano radicalmente la situazione e rendono difficile prevederne gli sviluppi.

Il militare, nel suo annuncio citato dalla Reuters, ha ribadito infatti il ruolo dell’Esercito nel processo di transizione assicurando la tenuta di elezioni – nel luglio 2023 – che dovrebbero portare ad un governo “civile”.

Il colpo di Stato attuale è un grande smacco per gli Stati Uniti, che del processo di transizione erano i maggiori protagonisti e che hanno tentato di far tornare il Paese – già durante l’amministrazione Trump – nella propria sfera di influenza a suon di dollari: 377 milioni di aiuti umanitari per quest’anno, secondo ciò che riporta il New York Times.

Dopo avere cancellato il Sudan, a fine anno scorso,  dalla “lista nera” dei Paesi che “sostengono il terrorismo”, gli USA gli avevano fatto firmare gli “Accordi di Abramo” per arrivare alla normalizzazione dei rapporti diplomatici con Israele; di fatto, in cambio del finanziamento di un miliardo di dollari da parte della Banca Mondiale, facendone così – insieme al Marocco – l’unico Stato “arabo-mussulmano” africano ad avere sottoscritto l’accordo.

L’inviato speciale degli Stati Uniti, Jeffrey Feltman, che aveva visitato il Paese sabato e domenica, aveva spronato la leadership a continuare nel processo di transizione, affermando che una svolta militare avrebbe messo in discussione l’aiuto statunitense.

Un chiaro messaggio ai militari, che sembra però essere stato ignorato.

ONU, Lega Araba e Unione Africana hanno espresso forti preoccupazioni per gli sviluppi, anche perché la partita che si gioca in Sudan ha ripercussioni in tutta l’Area.

Ma la situazione in quel quadrante sta mutando in fretta, basti pensare all’instabilità attuale dell’Etiopia impegnata in un conflitto armato con i “ribelli” del Tigray, ed il peso crescente di Cina e Russia, anche in Sudan.

La prima, aveva raggiunto un accordo per avere una base navale a Port Sudan, nel Mar Rosso, facendone un importante hub. La seconda aveva notevolmente implementato la collaborazione economica con Khartoum (agro-alimentare, infrastrutture, minerali), ottenendo di fatto il suo appoggio su una serie di dossier internazionali che premevano a Pechino.

Ma Xinmin, ambasciatore cinese nel Paese, in un articolo pubblicato sul Global Times il 16 settembre fa il quadro di questa fruttuosa cooperazione – rafforzata dall’aiuto sanitario di Pechino riguardo all’affrontare l’emergenza Covid-19 – e ricorda la configurazione dei rapporti inaugurata con le “Otto Principali Iniziative” del Summit FOCAC (il Forum della Cooperazione sino-africana) del 2018 e le opportunità del Secondo CAETE, l’expo economico e commerciale sino-africano che si terrà a breve.

Tornando alla situazione attuale in Sudan.

Le comunicazioni telefoniche e la rete internet sono interrotte da lunedì mattina, mentre barricate da parte degli oppositori al colpo di Stato militare sono state erette in differenti punti della Capitale.

Per tre volte nella storia del Paese africano, dalla sua indipendenza dalla Gran Bretagna e dall’Egitto (dal 1956) le mobilitazioni popolari hanno impedito un golpe. L’ultima appunto dopo la caduta di Al-Bashir, che ha raggiunto il suo picco il 30 giugno del 2019, costringendo i militari della TMC – sostenuti solo da Egitto, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti, oltre al Ciad – a “scendere a patti” con l’opposizione, temendo le defezioni all’interno dell’esercito, tranne che nelle RSF.

Questa sorta di “milizia” è composta dagli ex-janjaweed, gestori dei flussi migratori per conto della UE e poi incorporati nella macchina da guerra della coalizione a guida saudita che ha combattuto in Yemen.

Impossibile dire quale saranno gli sviluppi, perché se da un lato si scontrano le forze create per la repressione in Darfur (janjaweed appunto) e un movimento di massa cresciuto grazie all’opposizione clandestina al regime, in una fase di scontro più acuto i maggiori attori geo-politici nell’area giocheranno un ruolo fondamentale.

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