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Il pendolo Kazako nel rebus asiatico

Il Kazakistan ha mostrato a tutti, nell’esplicarsi delle fasi della sua rivolta/destabilizzazione, a che punto siamo arrivati per quanto riguarda le tensioni a livello internazionale.

Per capire come mai apriamo una disamina su ciò che è successo in questi giorni nella Repubblica centroasiatica con questa valutazione tranchant, dobbiamo sforzarci di immettere nell’analisi il più ampio spettro di fattori possibili e quindi di mostrare quali siano le direttrici di interesse principali in tutti i livelli interessati da questa questione.

Proveremo a farlo adottando, per semplicità e chiarezza, un approccio schematico, che dalle varie aree particolari dell’analisi sfoci nella contingenza raccontataci, in questi giorni, da più o meno strampalate e/o interessate cronache borghesi.

Poniamoci quindi qualche domanda chiave:

Perché il Kazakistan è importante?

Prendiamo in mano una cartina e posizioniamoci all’altezza dell’Asia continentale.

Diventa difficile non notare che tra i due mastodonti russo e cinese, si interpone una realtà di dimensioni significative: il Kazakistan.

L’importanza del paese è relativa sia a fattori energetico-minerari sia a fattori logistico-geografici.

Da un punto di vista energetico-minerario nel paese sono presenti in buona consistenza: petrolio, gas, uranio, zinco, tungsteno, bario, argento, piombo, cromo, rame, fluoriti, molibdeno e oro.

Cosa che ne fa il 6° paese più grande del mondo relativamente alle risorse minerarie.

Particolarmente ghiotta questa riserva di materie prime anche in funzione della riconversione green, visto la presenza nel sottosuolo kazako anche di tutti quegli elementi necessari per la produzione di batterie e semiconduttori.

Successivamente alla fine dell’Unione Sovietica e al processo di indipendenza, avvenuto contemporaneamente con una massiccia privatizzazione, molti siti estrattivi, soprattutto relativamente al petrolio e al gas, vengono concessi a società straniere, in particolar modo a quelle occidentali, tra cui spiccano, per fare qualche nome conosciuto, l’Eni, la Shell e la Chevron.

La situazione per cui il Kazakistan si ritrova un sottosuolo così ricco, in una posizione così interessante, fa sorgere immediatamente – da un lato – un consistente potere contrattuale per le amministrazioni kazake, dall’altro una ghiotta occasione  di sfruttare le sue risorse da parte di qualsiasi attore.

Un chance di non poco conto da parte degli occidentali, che da tempo desideravano mettere le mani su tutte quelle materie che prima erano di esclusivo appannaggio sovietico, e che si sono trovati ad operare vicinissimi alle arterie energetico-logistiche di Mosca e Pechino, proiettando questa penetrazione in Kazakistan, verso chiare ed importanti posizioni strategiche.

Infatti, proprio dal Kazakistan, passano tutte le principali arterie energetiche che inondano il continente asiatico, senza contare poi l’importanza logistica dei corridoi commerciali, in particolar modo cinesi (parte terrestre della Via della Seta e svincolo per quella marittima, che ricongiunge, in parte, lo Xinjiang ai porti pakistani) e turchi (il corridoio transcaspico che collega i terminal cinesi alle rotte occidentali, attraverso appunto il territorio kazako, e che tagliano il mar Caspio partendo dal porto di Aktau).

2) Il Kazakistan appartiene saldamente ad una alleanza precisa nella rimodulazione attuale dei rapporti di forza internazionali?

Assolutamente no.

Se guardiamo velocemente l’incedere di tutti i maggiori attori internazionali attuali, e lo poniamo in relazione all’incedere kazako, notiamo una certa equidistanza, o per meglio dire – usando una formula già adoperata per altri nostri contributi – una tattica di appoggio ora ad uno o ad un altro tra i pesi massimi che si affrontano nell’attuale quadro internazionale per accrescere ulteriormente la propria forza contrattuale e quindi il proprio peso regionale.

Con l’Occidente il Kazakistan, fin da principio, si concede attraverso le privatizzazioni prima menzionate e le partecipazioni a consorzi, come il Karachaganak Petroleum Organization (KPO), in cui le società di riferimento dell’amministrazione operano in tandem con le società energetiche straniere, in particolar modo occidentali e in misura minore russe e cinesi.

Da un altro lato, però, soprattutto negli ultimi decenni, la collaborazione coi partner cinesi è diventata sempre più stretta, sia nel comparto energetico sia in quello infrastrutturale, come prima accennato.

Degno di nota anche l’avvicinamento politico istituzionale nei riguardi della Turchia.

Il Kazakistan e la Turchia sono stati i protagonisti dal 2009 (anche se sarebbe bene porre la data di avvio di questi rapporti all’inizio degli anni ’90) della costituzione ed implementazione del Consiglio turco, organo decisionale che punta all’unificazione degli obbiettivi internazionali delle nazionalità turcofone e su cui rimandiamo ad un altro nostro lavoro pubblicato precedentemente dai compagni di Contropiano.

Il legame con la Russia, invece, ha sempre sofferto di questa ambiguità strategica, anche se da un punto di vista militare le amministrazioni kazake non hanno mai rinunciato alla collaborazione con Mosca, data dal chiaro peso nella zona da parte del Cremlino e da ovvii posizionamenti storici che, se venissero a mancare, pregiudicherebbero ogni conduzione autonoma.

Come si può notare facilmente, questa situazione pone il Kazakistan come player regionale relativamente equidistante.

Il fatto che, alle prime avvisaglie di ingerenze straniere, Tokayev abbia subito attivato il protocollo di intervento dei membri del C.S.T.O rientrando nell’alveo della sicurezza russa, è un qualcosa di normale nella gestione, in questa parte del mondo, di una situazione di potenziale crisi destabilizzante come quella a cui abbiamo assistito.

D’altronde, ci sia concesso evidenziare pure che per Putin un intervento diretto, teoricamente, non avrebbe giovato, in particolar modo proprio in questa situazione, in cui il Cremlino ha consegnato richieste specifiche riguardo gli armamenti atomici agli Statunitensi, e dove si dà un gran risalto alla questione della sovranità militare in relazione al posizionamento globale degli ordigni e delle infrastrutture adibite al lancio di vettori nucleari (documento che tra l’ altro non parla solo, come evidenziato dalle cronache occidentali, dell’Europa orientale, ma anche delle repubbliche centro asiatiche).

Perché quindi intervenire?

Se è vero che, teoricamente, Mosca avrebbe dovuto stare lontano da operazioni di questo tipo, è anche vero che in una situazione del genere era impossibile per il Cremlino non intervenire dopo una richiesta ufficiale, dimostrando così una sempre più spiccata propensione russa per la protezione militare di determinate zone e corridoi interessati dall’intensificarsi dello scontro internazionale, come sentito in particolar modo dalle parti di Pechino

Un qualcosa che tra l’altro è propedeutico alla Russia anche per tranquillizzare le altre repubbliche centroasiatiche, anche loro investite dagli interessamenti occidentali e turchi.

Abbiamo specificato, in questa piccola risposta, la posizione kazaka rispetto alla Russia, soprattutto per far sì che i compagni che leggano si impostino correttamente di fronte a letture dilettanti e borghesi, che volevano il Kazakistan come mero orpello della conduzione russa.

Nulla di più lontano da questo.

Anzi l’intervento russo si inserisce in un contesto in cui i player strategicamente avversi, Occidente in primis, tentano di favorire cerchie di potere più propense al loro operato.

3) In Kazakistan la protesta è caratterizzata da lotte sociali che hanno come protagoniste rivendicazioni popolari o si tratta solamente di operazioni di guerra ibrida?

Secondo noi impostare la questione in questa maniera è fuorviante e metodologicamente improprio.

La conduzione oligarchica delle cerchie di potere che – ora collaborando, ora scontrandosi – reggono il Kazakistan ha favorito un atteggiamento spregiudicato in tema di politica internazionale, che ha portato ad un’apertura nei confronti di gruppi facenti parte di complessi di potere appartenenti a potenze in diretta concorrenza con i vicini del Kazakistan e pervenendo, con ciò, ad un agganciamento al mercato mondiale monopolizzato ancora dai gruppi occidentali.

Questa conduzione ha generato, per una buona percentuale, una strutturazione della vita economica e del lavoro che sempre di più porta all’impoverimento delle classi subalterne, sia per quanto riguardo i salari diretti, sia per quanto riguarda quelli indiretti e le commodities, il cui rincaro ha generato l’attuale contingenza politica.

Sotto un punto di vista salariale molte lotte sono state condotte da parte degli operai industriali, in particolar modo da quelli del settore petrolifero che, come si può ben immaginare nel quadro di un paese ricchissimo di risorse, rappresenta un settore di principale importanza, sia per la vita complessiva del paese e della sua reggenza politica, sia per quanto riguarda le percentuali della composizione nella forza lavoro kazaka.

Gli scioperi a macchia di leopardo, ed altre forme di lotta operaia, che, soprattutto negli ultimi 10 anni hanno caratterizzato le lotte nel paese, hanno visto un percorso che ha portato da fasi di assoluta e durissima repressione – dove, in certi casi, le forze di sicurezza hanno risposto alle protesta aprendo il fuoco e uccidendo gli operai – a fasi successive dove, probabilmente in virtù di una sempre più calda situazione regionale, l’amministrazione kazaka ha preferito concedere agli operai aumenti salariali e riduzione parziale degli orari di lavoro.

Tattica che anche Tokayev ha adottato nelle prime battute di questa crisi, annunciando prima e operando poi un calmieramento del prezzo del gas.

Una misura di questo tipo evidenzia quindi problemi sociali che abbracciano settori ben più vasti della popolazione, cioè anche parti che non sono immediatamente riconducibili al settore petrolifero.

Molti kazaki, data la disponibilità di gas naturale, hanno convertito le loro auto in sistemi di propulsione a gas, il cui aumento dei prezzi ha decretato una certa insostenibilità generale che va a colpire anche e soprattutto le vaste aree di popolazione, generalmente giovane che, date le legature col mercato monopolizzato dai gruppi occidentali, sta soffrendo particolarmente di una disoccupazione consistente.

Detto questo, è indubbio quindi, che settori importanti della società kazaka, siano rimasti interessati dall’aumento del costo del gas e che la loro partecipazione alla prima fase delle proteste sia stata effettiva.

Ma come si può facilmente notare dalle letture di fonti appartenenti a gruppi di interesse divergenti fra loro (cioè sia da voci più vicine al fronte sino-russo, sia nel chiaroscuro delle cronache occidentali) la protesta ha vissuto fondamentalmente due fasi.

Nella prima le proteste, incentrate più sul rincaro energetico, si sono presentate come pacifiche. Fase che è durata fino alle misure prese dal governo Tokayev, volte al calmieramento e prima accennate.

Dopo questa decisione abbiamo assistito ad una accelerazione, dove si sono evidenziati assalti a strutture istituzionali e logistiche (come l’assalto all’aeroporto di Almaty) ed un numero significativo di vittime anche tra le forze dell’ordine dispiegate dal governo, cosa molto difficile senza l’impiego di armi da fuoco leggere e una buona preparazione in campo militare.

Cosa che fin da subito hanno fatto sorgere più di un dubbio relativamente alla bontà della protesta, visto anche lo stato politico delle rappresentanze operaie, obbiettivamente non in grado al momento di reggere determinati livelli di scontro.

Quasi contemporaneamente, infatti, i media occidentali non solo aumentavano la retorica sui diritti umani e la descrizione minuziosa dell’inumanità dell’attuale reggenza, ma davano ampio spazio a quegli oligarchi più connessi alle operazioni occidentali, come evidenziato dal caso Ablyazov.

Una fenomenologia non nuova rispetto ad altre situazioni che si sono dimostrate come operazioni di destabilizzazione operate dall’esterno.

A questo punto Tokayev, dopo aver estromesso Nazarbayev dalla guida del consiglio di sicurezza, ha attivato subito il protocollo di intervento del C.S.T.O.

Cosa “legittima”, da un punto di vista della politica internazionale.

Subito dopo l’ufficialità di tale notizia, inizia a verificarsi la prima presenza di richieste di condizioni politiche, che arrivano però da Francia (Ablyazov) e dal Belgio (Bota Jardemalie) e che  non sono relative al rincaro energetico, ma hanno a che fare con la sola strutturazione istituzionale (ritorno alla costituzione del ‘93, cambio del regime politico, nuove elezioni regionali, rilascio degli attivisti politici), fino a aggiungere richieste relative all’indipendenza del paese dai meccanismi di difesa russi.

La storia di questo oligarca (Ablyazov) non è estranea nemmeno alla cronaca del nostro paese.

Nel 2013 infatti, la moglie di Ablayzov, Alma Shalabayeva, come scrive Il Post in data 26 gennaio 2016:

“… e sua figlia Alua, che allora aveva 6 anni, furono arrestate dalla polizia in una villa a Casal Palocco, nella periferia di Roma: il 31 maggio furono imbarcate su un aereo noleggiato dal governo kazako e portate in Kazakistan, dove furono detenute agli arresti domiciliari nella città di Almaty.

Pochi giorni dopo il tribunale di Roma stabilì che il presupposto con cui era stata giustificata l’espulsione – cioè un passaporto diplomatico della Repubblica Centrafricana in possesso della donna e considerato falso – non sussisteva, e l’episodio divenne un caso politico trattato estesamente dai giornali italiani e internazionali.

I ministri dell’allora governo Letta, e soprattutto il ministro dell’Interno Angelino Alfano, furono accusati per come avevano gestito la vicenda: nel dicembre del 2013, soprattutto grazie al lavoro dell’allora ministro degli Esteri, Emma Bonino, Shalabayeva e sua figlia tornarono in Italia e fu loro concesso lo status di rifugiate da parte del ministero dell’Interno.

Ma chi è Ablyazov?

Ridiamo parola al Post per chiarire questa figura: “Mukhtar Ablyazov è nato in Kazakistan nel 1963. La sua carriera come imprenditore cominciò nel 1992, quando fondò una holding privata, per poi acquisire quote della Banca Turan Alem, nota ora come BTA.

Nel 1998 Ablyazov fu nominato da Nazarbayev ministro dell’Energia, dell’Industria e del Commercio. L’opposizione di Ablyazov al governo kazako è cominciata nel novembre 2001, quando insieme ad alcuni suoi colleghi Ablyazov fondò un partito politico di opposizione.

Dal 1990 il presidente del Kazakistan è Nursultan Nazarbayev, considerato un alleato del presidente russo Vladimir Putin, che nei suoi 26 anni di governo ha indebolito le opposizioni e si è attirato molte critiche da organizzazioni internazionali e per la difesa dei diritti umani di tutto il mondo.

Pochi mesi dopo aver fondato il suo partito, Ablyazov fu condannato a 6 anni di carcere per abuso di potere ed evasione fiscale. Sia il Parlamento Europeo che Amnesty International descrissero il processo come estremamente infondato, per quanto il governo kazako negasse la presenza di una motivazione politica nella condanna di Ablyazov.

Ablayzov quindi non è che un oligarca che, dopo essersi fatto strada nella cerchia Nazarbayev, se ne distacca ed inizia un suo personale pellegrinaggio in giro per il mondo.

Pellegrinaggio a dire la verità che, seguendone la cronaca, assomiglia più ad una scorreria di un pirata.

L’oligarca kazako infatti, se pur ha trovato, per ragioni diverse, sponde politiche all’interno dell’Unione, queste non sono arrivate dai paesi insulari, cioè Stati Uniti ed Inghilterra, che hanno avuto modo in più battute, di accertarne i crimini finanziari commessi non solo in madrepatria ma anche in Europa e nelle Americhe.

Data questa valutazione, e la relativa insignificanza politica attuale dell’oligarca in fuga, sembra difficile che questo possa avere contatti politici diretti in Kazakistan, come da lui recentemente dichiarato ai quattro venti.

Ablayzov però chiarisce quanto, nell’oligarchia kazaka sviluppatasi con e contro il clan Nazarbayev, le legature politiche occidentali siano presenti, interessate e operative su più livelli.

Se le uniamo infatti alla fenomenologia di ciò che sta accadendo in Kazakistan, cioè le immettiamo nella cronologia della crisi, diventa difficile non scorgere, anche in relazione alle contingenze degli ultimi anni, che hanno visto come protagonisti il Kazakistan in materia di politica internazionale, i veri desiderata che parte delle consorterie di potere occidentali proiettano sul Kazakistan, a differenza di ciò che si è letto a volte in questi giorni di febbrili analisi.

Diciamo che la sensazione principale, in mancanza di prove ulteriori e all’attuale stato delle cose, è che questa carta giocata da parte dell’Occidente, in questo caso, non sia particolarmente vincente, al netto di obbiettivi finanziamenti e pressioni che, come abbiamo avuto modo di vedere, sicuramente hanno un peso nelle influenze delle cerchie di potere kazake e nella loro relativa competizione.

4) Qual è l’attuale situazione all’interno delle cerchie di potere kazake?

Innanzitutto bisogna chiarire che ci troviamo di fronte ad un potere dove l’appartenenza familiare e clientelare in senso stretto, quasi noi potessimo immaginarcelo con forti connotazioni clanistiche (per questo parliamo di “cerchie”), è il fattore dominante rispetto la ripartizione del potere politico nei più alti livelli.

La cerchia della famiglia Nazarbayev è quella più influente, ovviamente.

Il ruolo non solo politico, ma anche da ciò che dall’egemonia politica nasce in questo genere di contesti, cioè anche “mitico” (ci si passi il termine seppur lievemente improprio), del presidente Nursultan Nazarbaev, quindi è di vitale importanza.

Il fatto che Nazarbayev sia ora in età avanzata e presenti una condizione di salute via via sempre più critica, ha avviato negli ultimi due anni varie riflessioni riguardo la successione, nonché ha prodotto varie preoccupazioni.

Una situazione che si è venuta a creare in quasi tutte le repubbliche centro asiatiche, che, a loro modo in maniera formalmente differente, stanno affrontando o hanno affrontato questa ineluttabile eventualità.

Come si può ben capire, la successione, in quello che di fatto si configura come un “regno”, seppur con le caratteristiche del XXI secolo, offre l’opportunità alle concorrenze interne per poter spuntare posizioni o, addirittura ribaltare il tavolo.

Pensiamo solamente che, durante l’insediamento di Tokayev, non tutti i piani di Nazarbayev sono andati in porto.

Quando Tokayev, dopo aver preso il posto indicatogli dall’ex presidente nomina Bakytzhan Sagintayev a capo della sua amministrazione presidenziale, Nazarbayev non si trova d’accordo, avendolo licenziato precedente dalla carica di primo ministro.

La preoccupazione del “vecchio regnante” deriva probabilmente dal fatto che, avendo pensato alla successione attraverso la nomina del nuovo presidente e la sua contemporanea presidenza del Consiglio di sicurezza, si rischia di formare una situazione in cui convivono due centri di potere.

Anche in questa situazione comunque Nazarbayev ha presidiato i rimanenti posti importanti delle istituzioni kazake, dando alla figlia Dariga la presidenza del senato (ruolo prima coperto da Tokayev), e promuovendo un uomo considerato da sempre fedelissimo della cerchia Nazarbayev, il generale maggiore Karim Massimov.

Arrivati a questo nome fermiamoci.

Si perché la cronaca del 5 gennaio ci riporta alla contingenza.

In questa data Tokayev fa arrestare Massimov, incolpandolo di favorire le operazioni che hanno portato all’assalto all’aeroporto di Almaty e di essere a conoscenza di campi di addestramento paramilitari dislocati sugli altipiani nel sud del paese.

Per ora la cronaca si ferma qui, e quindi non possiamo continuare se non ragionando per pure ipotesi.

Negli ambienti russi, e precisamente all’interno dell’agenzia stampa “Fergana”, si pensa che la rivolta armata sia partita da ordini che arrivano da personaggi imparentati con il presidente.

Infatti, come ha modo di dire il direttore dell’agenzia su una testata russa: “un esperto di paesi dell’Asia centrale ha pubblicato un articolo in cui sospettava che i nipoti del primo presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, fossero coinvolti nei pogrom di Almaty. In particolare si tratta di Kairat Satybaldy, noto leader dei salafiti kazaki.

Va notato che i media avevano in precedenza sospettato che quest’uomo avesse organizzato un’organizzazione clandestina radicale nel sud del Kazakistan, ma non c’erano prove dirette di ciò e gli stessi islamisti non hanno violato la legge. Ora, quando lo stesso presidente Tokayev parla di un attacco terroristico, Satybaldy, insieme ai suoi seguaci, è tra i primi sospettati.

Se vengo chiamato in tribunale, non sarò in alcun modo in grado di provare che i nipoti di Nursultan, in particolare Kairat Satybaldy, sono dietro i pogrom di Alma-Ata. Ma, se si pensa in modo logico, allora non c’è altra forza che possa organizzare tutto questo, né all’interno del paese, né al di fuori di esso.

Conclusioni

Alla luce di questi fatti possiamo abbozzare qualche ipotesi.

Probabilmente, data la situazione venutasi a creare con la successione di poteri e la contingenza internazionale (più la pandemia) intensificatasi negli ultimi anni, Nazarbayev ha inevitabilmente aperto l’opportunità per le forze interne all’oligarchia kazaka per un cambio di potere.

Secondo certi analisti russi e asiatici, in Kazakistan attualmente vi sarebbe una sorta di trattativa per la famiglia Nazarbayev, dove Tokayev starebbe giocando come difensore.

Questo non esclude affatto affiliazioni esterne, siano esse occidentali o basate sulla affinità etnico-religiosa.

Fa pensare, riguardo questo, l’atteggiamento russo riguardo l’intervento avvenuto dopo la attivazione del protocollo del C.S.T.O.

Il giorno prima dell’invio delle truppe (che ricordiamo essere impiegate solamente per il presidio delle infrastrutture strategiche) gli organi ufficiali della federazione russa erano molto restii all’intervento che, come prima accennato, non conveniva dato il timing degli impegni internazionali.

Ma il giorno dopo, la documentazione offerta da Astana (o Nur Sultan) deve aver fatto cambiare idea repentinamente ai russi, segno che qualcosa di effettivamente preoccupante stava prendendo piede.

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