È cominciato ieri il ritiro graduale delle truppe del ODKB (Organizatsija Dogovora o Kollektivnoj Bezopasnosti-Organizzazione dell’accordo sulla sicurezza collettiva: Russia, Bielorussia, Armenia, Kirgizija e Tadžikistan) dal Kazakhstan, dove erano affluite su richiesta del Presidente kazakho Kasym-Žomart Tokaev.
Nel video-incontro del 10 gennaio tra i capi di stato del ODKB, Vladimir Putin aveva detto che i soldati (il contingente più numeroso era quello russo e un generale russo ne è a capo) sarebbero rimasti nel Paese solo finché Tokaev lo avesse ritenuto necessario.
Già l’11 gennaio il Presidente kazakho annunciava che la missione del ODKB era terminata e il contingente di 2.030 uomini avrebbe gradualmente lasciato il Kazakhstan, dove rimane in vigore lo stato d’emergenza fino al 19 gennaio.
Lo stesso 11 gennaio, Tokaev ha reso nota la nuova formazione governativa, dopo che il 5 gennaio aveva sciolto la vecchia compagine, guidata da Askar Mamin.
La novità più “curiosa”, oltre quella deipresunti stretti legami del facente funzioni di Primo ministro, Alikhan Smailov, con i più alti circoli finanziari britannici e con la stessa famiglia reale, riguarda però il Ministro dell’informazione, Askar Umarov. Senza mezze parole, Bogdan Bezpal’ko, del Consiglio presidenziale russo per i rapporti internazionali, ha definito la nomina di Umarov da parte di Tokaev «uno schiaffo alla Russia», espressione di «un alto grado di ingratitudine».
Come segno di “riconoscenza” per aver «salvato il regime di Nazarbaev-Tokaev da nazionalisti e islamisti», ecco che si nomina a una delle cariche più importanti una persona che è «un aperto nemico della Russia», un panturanico, protagonista in varie occasioni di esternazioni offensive contro la popolazione russa del Kazakhstan. Dal 2018 gli è addirittura negato l’ingresso in Russia.
Il responsabile del Rossotrudničestvo, l’Agenzia del Ministero degli esteri russo per i rapporti coi Paesi della CSI, Evgenij Primakov, ha detto che l’Agenzia rifiuta di collaborare con le «carogne russofobe». I media russi riportano alcune frasi che Umarov avrebbe pubblicato una decina di anni fa, quando era vice-presidente dell’Accademia turca in Kazakhstan.
Ad esempio: «Quando tutti si ubriacheranno di vodka, celebrando un astruso giorno della vittoria, ricordate con una preghiera i nostri infelici nonni, che non tornarono da una guerra non nostra. Chi fu sconfitto, cosa fu vinto?».
Oppure, rivolto ai russi che vivono nel paese: «Non dimenticate che qui siete una diaspora impostaci, non siete autoctoni, e ringraziate che i vostri diritti sono rispettati e che nessuno vi cacci quali colonialisti». Allorché era stato nominato direttore di Kazinform, era stata pubblicata la carta del “suo” Kazakhstan, comprendente territori russi, cinesi e uzbeki.
Il politologo russo Konstantin Kalačev ritiene che Tokaev, con la nomina di Umarov, tenti di rintuzzare le critiche dei nazionalisti per aver ricevuto «legittimazione non dalla popolazione del Kazakhstan, ma “dal ODKB e da Putin”».
jAlmeno nell’immediato, Tokaev ha necessità di tenersi i nazionalisti, se non come alleati, quantomeno come compagni di viaggio. D’altronde, nessuno a Mosca crede che, ora che è stato “legittimato” da ODKB e Russia, Tokaev inverta la politica “multi-vettoriale” e si orienti prevalentemente su Mosca, invece che sull’Occidente.
Secondo un altro politologo russo, Jurij Barančik, Tokaev sarebbe stato alquanto precipitoso nell’annunciare il ritiro delle forze ODKB. Egli non capisce, sostiene Barančik, che la situazione nel Paese non è affatto tornata alla normalità e, una volta ritirate le forze ODKB, potrebbe verificarsi immediatamente un nuovo tentativo di colpo di stato.
Può ritenersi però plausibile che, dietro l’annuncio di Tokaev, ci siano state anche alcune preoccupazioni di Mosca, alla vigilia degli incontri russo-americani a Ginevra e del Consiglio NATO-Russia a Bruxelles.
D’altra parte, gli analisti del Russtrat (Istituto di strategie economiche e politiche internazionali) ritengono che definizioni quali “rivoluzione colorata”, “colpo di palazzo”, “aggressione esterna”, per definire gli eventi kazakhi, siano di per sé contraddittorie, dato che gli avvenimenti si sono sviluppati non secondo gli scenari attesi e i diversi attori in gioco puntavano ognuno ai propri obiettivi, finendo con l’intralciarsi a vicenda.
Ancora una volta, però, si sorvola sulla vera e propria rivolta degli operai e dei disoccupati kazakhi, ignorati dall’analisi del Russtrat, che parla di “rivoluzione colorata” nell’ovest del paese, vale a dire proprio là dove lo strapotere delle compagnie energetiche occidentali e delle oligarchie compradore locali hanno creato da decenni una situazione insostenibile per i lavoratori.
Russtrat parla dell’oligarca Mukhtar Abljazov che avrebbe tentato di organizzare una personale “rivoluzione di strada”, come da lui stesso proclamato, senza che vi fosse connessione alcuna con le manifestazioni dei lavoratori.
Elemento sicuramente presente, anche se non nelle dimensioni annunciate da Tokaev, quello di formazioni Isis o comunque di bande islamiste provenienti da regioni confinanti; mentre qualche dubbio pare legittimo a proposito di un “personale colpo di palazzo” da parte del capo del Consiglio di sicurezza Karim Masimov, come se davvero avesse fatto tutto di propria iniziativa e non agisse per conto terzi.
Terzi che, come riportato anche su Contropiano, possono spaziare dall’interno del Kazakhstan, ai numerosi soggetti stranieri portatori di interessi economici e strategici.
Per dire, allo stato attuale, considerata una presenza relativamente limitata del capitale russo, oltre i 2/3 dell’economia kazakha parlano di imprese straniere.
L’economista Valentin Katasonov scrive che, a ottobre scorso, le attività straniere ammontavano a 166 miliardi di dollari, mentre le passività verso investitori stranieri a 245. Tra gli investimenti diretti esteri, la parte del leone va ovviamente all’industria estrattiva: 9,08 miliardi di dollari su un totale di 18,75 mld nei primi nove mesi del 2021; 6,47 mld solo per l’industria petrolifera e del e gas.
Al secondo posto, l’industria manifatturiera (3,58 mmld $), per lo più metallurgica. E questa situazione è stata la norma in quasi tutti i 30 anni dalla fine dell’URSS. Nei primi tre trimestri del 2021, scrive Katasonov, il 29% degli investimenti proveniva dai Paesi Bassi (evidentemente, quale sede fiscale delle più diverse compagnie mondiali) con 5,44 mld $; il 17% da USA (3,17 mld); seguite da Svizzera (1,92 mld), Cina (1,50 mld), Russia (1,36), Gran Bretagna (0,78), Belgio (0,78), Francia (0,46).
Per importo degli investimenti diretti accumulati, il quadro era: Paesi Bassi (60,08 mld $), USA (39.49), Francia (13.39), Giappone (5,91), Cina (5,25), Russia (4,83), Hong Kong (4.05), Gran Bretagna (2,99), Isole Vergini britanniche (2,56), Germania (1).
Tra il 2009 e il 2020, 206,29 mld $ di introiti da investimenti diretti esteri hanno lasciato il Kazakhstan diretti in USA (66,9 mld), Paesi Bassi (64,51), Gran Bretagna (13,94), Russia (8,77), Svizzera (5,09 miliardi).
Da parte russa, gli investimenti più significativi sono stati quelli nell’estrazione di uranio (“Rosatom”), petrolio e gasdotti (“Rosneft” e “Lukoil”) nei giacimenti del Caspio, carbone (“Rusal”), in particolare nella miniera “Bogatyr Komir”.
In termini monetari, il bilancio del Kazakhstan ammonta a 6,4 trilioni di tenge (1 euro= circa 500 tenge) di cui 1/3 costituito dal gettito fiscale delle 30 maggiori società estere, tra le quali nel settore gas-petrolifero dominano giganti quali Shell, BP, Chevron; seguite nell’industria del tabacco da JTI Kazakhstan, Philip Morris Kazakhstan, British American Tobacco Kazakhstan Trading.
Tra le imprese miste, il primo posto è occupato dalla joint venture gas-petrolifera “Tengizchevroil”, che opera nei giacimenti di Tengis, nel mar Caspio, costituita da Chevron (50% delle azioni), ExxonMobil (25%), KazMunayGaz (20%) e LukArco (Russia-USA, 5%).
Segue il consorzio “Karačaganak Petroleum Operating BV”, con il 29,25% della quota detenuto da Royal Dutch Shell plc (Paesi Bassi e Gran Bretagna), il 29,25% da ENI, il 18% da Chevron, il 13,5% da Lukoil e il 10% da KazMunayGas.
Nel giacimento di Kašagan, nel Caspio, l’operatore nazionale KazMunayGas detiene il 16,88% del consorzio “North Caspian Operating Company NV” (NCOC), al pari di ENI, ExxonMobil, Shell, Total (tutti col 16,81%), insieme alla cinese CNPC (8,33%) e alla giapponese Inpex (7,56%).
Nella classifica dei 30 maggiori soggetti che contribuiscono al gettito fiscale del bilancio kazakho, ci sono compagnie miste che operano nella metallurgia, nell’industria del tabacco, nel settore agroalimentare, ecc.
A buona parte di questi “enti di beneficienza” (ma non solo a loro) si deve il licenziamento nei mesi scorsi di 40.000 operai delle industrie petrolifere e minerarie; al governo kazakho si deve se quei lavoratori non hanno più propri sindacati e partiti di classe e subiscono invece gli effetti delle privatizzazioni e delle “ottimizzazioni”.
Negli eventi kazakhi delle ultime settimane si inseriscono i più svariati soggetti, locali e non, con interessi che, dal “puro business”, si allargano a strategie geopolitiche di portata mondiale e pongono il paese al centro di contese inter-imperialiste.
C’è tutto questo. Ma provate un po’ a ignorare ancora la situazione di quei lavoratori, occupati e no, sottopagati e con lavoretti precari, in un paese dalle ricchezze naturali trai primi posti al mondo.
Kasym-Žomart Tokaev parla ora di obiettivi quali benessere dei cittadini, stabilità della moneta, superamento delle disuguaglianze regionali, un fondo “di misericordia” per i bisognosi, quasi un’elemosina da parte degli oligarchi… ma si è ben guardato dal dire qualcosa sulle condizioni di servaggio imposte ai lavoratori, soprattutto proprio in quelle grandi imprese di gas, petrolio, minerarie, ecc.
Forse ha davvero ragione Jurij Barančik, riguardo al troppo precipitoso ritiro delle forze ODKB; ma, certamente, non solo perché si temano nuovi tentativi di colpo di stato.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa