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“L’incidente” di Mian Channu tra India e Pakistan. Il controllo sulle armi nucleari diventa decisivo

Il mondo ha rischiato un altro cigno nero e questa volta sul terreno delicatissimo e inquietante dell’uso delle armi nucleari. Mai come in queste settimane si è tornati a parlare di armamenti nucleari e del loro possibile – e devastante – utilizzo.

La newsletter Affari Internazionali riporta che il 9 marzo scorso l’India, a causa di quello che le autorità liquidato come un “malfunzionamento tecnico”, ha lanciato accidentalmente un missile supersonico, caduto vicino a Mian Channu nel Punjab, nel distretto di Khanewal, in Pakistan.

Inutile dire che l’incidente ha allarmato il Pakistan (e non solo) sollevando serie preoccupazioni per il controllo dei missili nucleari e per un aumento del rischio di errori o incidenti che potrebbero portare a ad un attacco nucleare.

Occorre rammentare che India e Pakistan hanno una lunga storia di scontri militari, controversie territoriali e continua espansione dei rispettivi arsenali nucleari.

Nel maggio 1998, entrambi i paesi hanno effettuato test sulle armi nucleari (la Francia faceva altrettanto nel Pacifico, ndr) e negli anni le relazioni tra India e Pakistan si sono visibilmente deteriorati. Entrambi i paesi fanno affidamento sulla loro deterrenza nucleare, evitando così un conflitto su vasta scala.

E’ accaduto così che il 9 marzo, l’esercito pakistano ha riferito che un missile supersonico indiano (non armato) ha violato il suo spazio aereo nel Punjab. Il missile indiano ha viaggiato a un’altitudine di 12.200 metri e ha volato per 124 km nello spazio aereo pakistano prima di schiantarsi a Mian Channu, a circa 500 km da Islamabad.

Dovrebbe trattarsi di un missile BrahMos, un missile supersonico da attacco al suolo con capacità nucleare, con una portata di 300-500 km, che lo rende in grado di raggiungere Islamabad dal nord dell’India.

Secondo Affari InternazionaliIn larga misura, la politica nucleare indiana è motivata da minacce regionali in relazione all’obiettivo a lungo termine dell’India di stabilire un deterrente credibile contro la Cina. Pertanto, l’India ha fatto grandi passi avanti nello sviluppo di un programma di missili balistici a lungo raggio, più per scoraggiare Pechino che Islamabad”.

Uno scenario di relazioni tra tre potenze asiatiche – India, Cina, Pakistan, che per Affari Internazionali “crea una complessa geometria nucleare in Asia, in cui gli sviluppi volti a fornire stabilità hanno spesso avuto l’effetto opposto”, scrive la newsletter.

Con l’uscita degli Stati Uniti e della Nato dall’Afghanistan, l’evoluzione di un sistema di quasi-alleanza che contrappone l’India e gli Stati Uniti contro il Pakistan e la Cina, e una nuova corsa agli armamenti regionale che potrebbe intensificarsi al livello nucleare, la rivalità India-Pakistan acquisisce una sempre più grande importanza nel contesto della sicurezza sia regionale che globale”.

Alle molte domande sulla pericolosità degli arsenali nucleari esistenti e di quelli potenziali, vorremmo aggiungerne solo un’altra: perché dell’incidente di Mian Channu in Italia non si è saputo nulla tranne che tra gli “addetti ai lavori”?

Oltre che a raccontarci  con che cosa ha fatto merenda Zelenski, le redazioni estere di Tg e giornali di cosa si occupano?

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2 Commenti


  • Gianni Sartori

    LA MONTAGNA-SPETTACOLO E’ UNA MERCE, L’ALPINISMO SEMPRE PIU’ UNA FORMA DI SFRUTTAMENTO E COLONIZZAZIONE

    Gianni sartori

    L’inquietante domanda, su “L’alpinismo come forma di colonialismo?” ormai non va nemmeno posta. Se pur scritto con il punto interrogativo (nel titolo) il mio intervento di un paio di anni fa aveva scatenato le ire della lobby di coloro che vivono di “Montagna”. O meglio: sfruttandone l’immagine spettacolare e mercificata.
    Eventi successivi come la pandemia l’hanno resa superflua.
    Perfino tra gli addetti ai lavori qualche mese fa si potevano cogliere  commenti critici – ma forse sarebbe il caso di passare decisamente al disgusto – per le vere e proprie cataste di bombole d’ossigeno abbandonate intorno ai campi base in Nepal (Everest, Dhaulagiri…). Almeno quattro a testa per centinaia di turisti-alpinisti e portatori (non chiamiamoli sempre sherpa per favore, è una etnia e non tutti si prestano a portare il fardello dell’uomo bianco) mentre a causa della pandemia gli ospedali erano saturi, nemmeno lontanamente in grado di gestire non dico le terapie intensive, ma perfino l’ordinaria amministrazione.
    E intanto gli alpinisti infettati dal Covid-19, o temendo di esserlo, pretendevano e ottenevano di farsi evacuare con gli elicotteri delle agenzie private (anche grazie a false dichiarazioni o diagnosi di “edema polmonare da aria sottile” per usufruire delle assicurazioni).
    Ma d’altra parte stupirsene sarebbe da ingenui. Questo è il mondo che anche la lobby dell’alpinismo variamente inteso, dai produttori di materiali tecnici alle agenzie commerciali (ma comprendente scrittori di montagna, promotori turistici, elicotteristi, eccetera) contribuisce a costruire e alimentare. Un bel giro d’affari, sia chiaro. Chiamiamolo businnes, capitalismo, società dello spettacolo o come vi pare, ma ormai (e non solo sul “tetto del mondo”) assume tutti i tratti di un moderno colonialismo. Per quanto riciclato e – malamente – camuffato.
    Non che sull’altro versante le cose vadano meglio. La Cina soidisant comunista starebbe pianificando un inedito sfruttamento turistico-alpinistico delle montagne e l’estensione della rete 5G fino alle alte quote. Così in futuro anche gli alpinisti più social, occidentali e non, potranno restare collegati permanentemente e trasmettere in diretta i loro autoscatti (forma italica per selfie). Per poi magari, è accaduto di recente, vedere uno di questi personaggi sentenziare in televisione sulla necessità di lavarsi meno per non sprecare energia (invece di rinunciare all’elicottero per raggiungere più vette in minor tempo).

    E il Pakistan (di cui mi occupavo in buona parte dell’intervento ricordando alcuni recuperi di alpinisti che evidentemente si erano spinti ben oltre le loro possibilità o semplicemente non avevano tenuto conto dei rischi di crolli nell’epoca del riscaldamento globale)?
    E sarebbe interessante sapere cosa sta accadendo ora, sempre in Pakistan, dopo le devastanti alluvioni derivate dallo scioglimento dei ghiacciai.
    Qui, notoriamente, l’utilizzo degli elicotteri appare più complicato in quanto sostanzialmente in mano all’esercito pakistano, che eventualmente (pagando in anticipo, sappiatevi regolare) li mette a disposizione tramite l’agenzia Askari (?!?) gestita comunque da ex militari di alto grado (quando non li stanno utilizzando per scaricare in mare dissidenti e oppositori, preferibilmente beluci, in puro stile argentino). Tra l’altro, gli elicotteri sarebbero autorizzati a volare non oltre i 6500 metri. Poi è il pilota a prendersi eventualmente la responsabilità.
    Insomma, ripeto, restarsene a casa sarebbe il minimo.

    Gianni Sartori


  • Gianni Sartori

    “C’è chi in Montagna ci va per noia, chi se lo sceglie per professione…

    Per tanti diseredati né l’uno né l’altro, loro lo fanno per disperazione…”

    PER QUALCUNOUN “ALTRO ALPINISMO” (DI LACRIME E SANGUE) E’ DRAMMATICAMENTE NECESSARIO, SENZA ALTERNATIVE….

    Gianni Sartori

    Anche recentemente percorrendo qualche “stroso” berico- euganeo o prealpino mi è capitato di incrociare persone che hanno partecipato in varia forma a progetti tra le montagne pakistane. Con lo scopo ufficialmente dichiarato di“aiutarli a casa loro”.

    Sorvolo sul fatto che tra i miei pur numerosi allievi di origine pakistana (corsi di alfabetizzazione per adulti qualche non fa) non ho mai incontrato montanari hunza o balti. Provenivano invece da aree metropolitane veramente degradate, oppure da campagne devastate periodicamente da siccità e alluvioni, (stando ai loro racconti). Altre fonti mi riferivano di conflitti e persecuzioni ai danni minoranze oppresse (beluci, azara, cristiani..) e non mancava nemmeno qualcuno che aveva fatto in tempo a farsi le ossa in Afghanistan, a fianco delle guerriglia anti-russa.

    Non discuto la buona fede, le buone intenzioni. D’altra parte si può essere, magari involontariamente, anche “portatori sani” di consumismo, capitalismo, mercificazione etc (ossia di una forma subdola di colonialismo).

    Pensiamo ai frichettoni degli anni settanta (quelli che viaggiavano con l’autostop, non certo con l’aereo) che pur contribuirono, per quanto si sentissero alternativi al sistema, a degradare, impestare di consumismo il Nepal.

    Ma vorrei ricordare a questi questi turisti d’alta quota (tali sono comunque la si giri), per esempio, quanto denunciava in anni non sospetti il movimento “Society for the Protection of the Rights of the Child”, ossia che “in Pakistan è prassi comune utilizzare il lavoro minorile in diversi settori, dall’impiego leggero alle mansioni più pesanti e pericolose”. Dai tappeti – servono manine piccole per i nodi – ai mattoni (ricorderete senz’altro Iqbal Masih). Stando ai dati forniti da Sparc “fra gli 11 e i 12 milioni di bambini, la metà dei quali al di sotto dei 10 anni, sono sfruttati per lavoro” su tutto il territorio pakistano.

    Inoltre sarebbero circa otto milioni i minori che non frequentano la scuola, in gran parte “bambini di strada” esposti a ogni genere di violenza e sfruttamento.

    Oppure pensiamo alla difficile situazione delle minoranze religiose non musulmane.

    Fermo restando che non se la passano troppo bene neanche una parte dei musulmani, perlomeno quelli di fede sciita. Anche loro, come i cristiani, sono esposti a discriminazioni, attacchi e attentati.

    Se poi appartieni oltre che a una minoranza religiosa (per es. sciita) anche a un gruppo etnico discriminato (per es. Azara) allora le cose si complicano ulteriormente. Se poi magari sei anche donna…

    Resto insomma del parere che costruire strade, ponti in ferro (magari dove c’era già in stile tradizionale, in legno) o rifugi in quello che talvolta viene definito il Terzo Polo (per la ricchezza di ghiacciai e nevai) sia – più che carità cristiana – un modo come un altro per farsi qualche vacanza esotica. Tutti più o meno, se non qualche prima ascensione su vette rimaste fortunosamente illibate (loro dicono “inviolate”, un lapsus?), si son fatti per lo meno dei trekking (a scopo umanitario?).

    Il discorso sarebbe lungo, ma comunque mi chiedo come mai non abbiano pensato di “aiutare a casa loro” operando in qualche periferia urbana degradata invece che in località amene, salubri, paesaggisticamente e naturalisticamente ancora integre.

    Addestrare future guide per incentivare il turismo, sempre a mio parere, in futuro alimenterà solo il degrado ambientale e comunque fornirà infrastrutture di intrattenimento consumista per le borghesie locali. Oltre che per gliesponenti delle forze armate, quelle che forniscono gli elicotteri agli avventurosi alpinisti spesso bisognosi di soccorso in quota.

    O comunque vie di comunicazione e rifugi (strutture alberghiere ?) a uso e consumo dei benestanti di varia provenienza. Sia Occidentali che dagli Emirati.

    Per cui insisto. Per quanto mi riguarda la considero una forma di neocolonialismo (soprattutto culturale, ma non solo). Nonostante qualche scatola di medicinali data in beneficenza.

    Per antitesi, ricordo che un mio cugino medico, volontario conMedici per l’Africa (di Padova) in oltre tre anni continuati di permanenza in un ospedale tra le savane del Kenya, si concesse soltanto due ascensioni, frettolose e autogestite, sui Monti Kenya e Kilimangiaro. Due in tutto. A cui in anni successivi ne aggiunse una terza durante un altro periodo di volontariato.

    Questo si chiama “aiutare a casa loro”, non certo qualche piccolo rattoppo umanitario tra un’escursione e una scalata.

    Ripensandoci, mi son ricordato anche di due miei interventi, uno recente, l’altro di un anno fa.

    Dove l’andar per monti si rivestiva di ben altre atmosfere e suggestioni rispetto a quelle dei conquistatori di vette esotiche.

    Nel gennaio del 2022 avevo approfondito la tragica vicenda di una madre in fuga dall’Afghanistan morta congelata sulla frontiera turco-iraniana. Come altri avevano riportato la donnaaveva dato i suoi calzini ai figli affinché li usassero come guanti per proteggere le mani dal gelo.

    In realtà, scopri in seguito, la donna si era tolta, dandole ai bambini, anche le scarpe e procedeva nella neve con i piedi nudi avvolti in sacchetti di plastica.

    Se l’unanime commozione suscitata dal tragico evento era stata di breve durata, non sembrava invece rallentare il flusso dei rifugiati (in gran parte afgani) che su quella stessa frontiera rischiano quotidianamente la vita.Ma, come viene denunciato sia da qualche Ong che da avvocati di Van, ai rischi connessi con i rigori invernali bisogna aggiungere quello di venir intercettati dai soldati turchi e di subire maltrattamenti e torture.

    E’ cosa nota che i rifugiati vengono utilizzati come “moneta di scambio” dal regime di Erdogan per condizionare la politica dell’Unione europea. Soprattutto per ottenere finanziamenti in cambio del controllo esercitato da Ankara sui flussi migratori.

    Solo in quelle prime settimane del 2022 almeno altre tre persone erano morte per il freddo, tra la neve e le rocce. Dopo essere state fermate (catturate) e rispedite brutalmente oltre frontiera dai militari turchi.

    Altre invece venivano ormai date per disperse e “forse solo in primavera – scrivevo – con il disgelo, i loro corpi potranno essere rinvenuti”.

    Anche la donna, all’epoca ancora non identificata, morta dopo aver dato ai suoi bambini le calze e le scarpe, sarebbe stata prima fermata dai soldati turchi. Abbandonata poi sulla frontiera dove i militari iraniani si eranoa loro volta rifiutati di soccorrerla con le tragiche conseguenze. Solo i bambini, con le estremità ormai congelate, venivano infine soccorsi dagli abitanti di un villaggio.

    Un avvocato di Van, Mahmut Kaçan, ha raccolto le testimonianze di numerosi rifugiati. Stando alle loro dichiarazioni “la maggior parte dei migranti catturati vengono riportati, senza procedure legali, sulla frontiera iraniana e qui semplicemente abbandonati”. Una persona in particolare ha raccontato di essere riuscita ad “attraversare più volte la frontiera, venendo ogni volta respinta e maltrattata”. E mostrava le dita, sia delle mani che dei piedi, completamente ricoperte di ferite.

    Quasi tutti i rifugiati raccontavano non solo di aver subito maltrattamenti e talvolta torture, ma di essere stati regolarmente derubati. Sia del denaro che degli oggetti (vedi i telefoni) in loro possesso.

    A un anno di distanza (gennaio 2023) verificavo che la situazione sembra rimasta tale e quale, se non addirittura peggiorata.

    Molti rifugiati – oltre ad aver subito maltrattamenti e anche torture – denunciano di essere stati regolarmente derubati. Sia del denaro che degli oggetti (vedi i telefoni) in loro possesso.

    Non conoscendo quei territori montuosi, impervi “finiscono per smarrirsi in piccoli villaggi dove, già stanchi e affamati per il lungo peregrinare, diventano facile preda di qualche banda armata”.

    Criminali che in genere sequestrano qualche membro della famiglia per poi estorcere un riscatto.

    In un video diffuso recentemente si vedono alcuni profughi afghani con le mani legate dietro la schiena (alcuni anche imbavagliati), in ginocchio e col viso appoggiato a una parete. In un altro video a un profugo viene troncato di netto un orecchio (a scopo intimidatorio, forse per prevenire tentativi di ribellione) mentre altri, incatenati, vengono frustati.

    Del resto la frontiera turco-iraniana è da tempo un luogo di repressione e sofferenza. Non solo per i migranti, ma anche – da anni e anni – per i kolbar (gli “spalloni” curdi ) che cercano di guadagnarsi da vivere contrabbandando merci da un parte all’altra della frontiera. Quella che divide del tutto artificialmente il Bakur dal Rojhilat (rispettivamente, il Kurdistan sotto occupazione turca e quello sotto occupazione iraniana). I kolbar feriti o uccisi dalle guardie di frontiera ormai si contano a decine.

    E per tornare ai nostrani “samaritani” delle Vette: mai pensato di andar a dare il cambio – almeno per un breve tratto – a qualche kolbar curdo? O di portarsi in spalla qualche piccolo profugo, regalando magari anche scarpe adeguate? Come allenamento sarebbe ottimo. Attenti alle guardie di frontiera turche però.

    Gianni Sartori

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