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L’Ucraina è solo carne da macello, per gli Usa

Per una volta bisogna quasi ringraziare il Segretario della Nato Jens Stoltenberg, marionetta in mano al Pentagono. In una intervista rilasciata ad un pool di giornali internazionali, tra cui i guerrafondai di Repubblica, ha chiarito definitivamente chi è che spinge perché la guerra diventi davvero mondiale.

Dobbiamo sempre prendere sul serio la minaccia di una guerra globale. Si tratta di minimizzare il più possibile il rischio. L’Ucraina deve vincere questa guerra perché sta difendendo il proprio paese”.

E in ogni caso “l’annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dai membri della Nato. Sosterremo l’Ucraina fino a quando il presidente Putin porterà avanti questa guerra. Saranno però il governo e il popolo ucraino a decidere in maniera sovrana su una possibile soluzione di pace”.

In tra sole frasi ha smontato tonnellate di propaganda sparata da due mesi e mezzo a reti unificate.

Primo punto: l’Ucraina non è considerata – dalla Nato e dunque dagli Usa – un paese “sovrano”, “libero di scegliere”.

La parola viene ancora usata, ma dentro un’affermazione completamente opposta. Se Zelenskij, due giorni fa, era sembrato aprire alla possibilità di trattare con Mosca sulla base della situazione sul terreno al 23 febbraio – con la Crimea federata alla Russia e gran parte del Donbass controllato dalle repubbliche di Lugansk e Donetsk – Stoltenberg ha escluso questa ipotesi.

Dunque Kiev non può affatto “decidere in maniera sovrana su una possibile soluzione di pace”, ma deve attenersi alle disposizioni emanate dal comando Nato. Ossia dagli interessi mutevoli di Washington.

Diventa così chiarissimo che questa è una guerra tra Nato e Russia, iniziata ben prima dell’attacco aperto all’Ucraina, e in cui il popolo ucraino è la carne da macello di cui si servono gli Usa per raggiungere i propri obiettivi.

Anche su questi obiettivi, con il passare dei giorni e l’aggravarsi dei segnali di crisi economica soprattutto in Europa, cominciano a trasparire analisi – o “confessioni” – da parte di osservatori che considerano non proprio una genialata il fatto di assecondare gli yankee in questa avventura. Anzi.

Vi avevamo proposto ieri un insospettabile – per la provenienza e per la data, un anno fa – articolo di Lucio Caracciolo, fondatore e direttore di Limes.

Oggi vi aggiungiamo l’illuminante articolo di Guido Salerno Aletta per Milano Finanza. Testata altrettanto insospettabile…

Anche qui, come nel caso di Caracciolo, si guarda alla guerra attuale come il prologo del vero confronto strategico dei prossimi anni: quello con la Cina. E per ragioni puramente economiche, senza fuorvianti travestimenti “ideali” (“libertà”, “difesa della democrazia”, ecc).

Gli Stati Uniti sono in condizioni praticamente disperate, con una economia ormai totalmente dipendete dalla “carta”, ossia dalla finanza speculativa. Quasi dieci anni di quantitative easing da parte delle banche centrali (Federal Reserve, Bce, Banca d’Inghilterra) hanno tenuto in piedi la finzione, il ruolo del dollaro e le quotazioni di borsa. Ma anche quel gioco è giunto alla fine.

Così il denaro in eccesso, in cerca di valorizzazione senza passare per la “noiosa e lenta” produzione di merci, si è scaricato sul mercato delle materie prime, soprattutto energetiche. L’inflazione ha preso il via molto prima della guerra in Ucraina, e non c’è un modo indolore di arrestarla (il rialzo dei tassi di interesse, se fatto secondo i manuali neoliberisti, trasformerà la stagnazione di questi anni in recessione conclamata).

Su MilanoFinanza non si può dire con la formula marxiana, ma la realtà è proprio questa. Per uscire dalla crisi sistemica il modo di produzione capitalistico (incarnato fin qui dall’imperialismo Usa) deve distruggere una massa gigantesca di capitale (quello di altri capitalisti) e “mettere a valore” risorse che sono attualmente a disposizione di altri.

Agli occhi di Washington la Russia appare come un nuovo West da conquistare (avevano cominciato a farlo con Eltsin, poi c’era stato un rinculo che ha portato al potere Putin), ricco di petrolio, gas, litio, uranio, minerali di ogni genere.

C’è solo il “problemino strategico” dell’armamento nucleare russo. E quindi l’offensiva della Nato si trova a dover cercare vie traverse, per “minimizzare il rischio. Per ora usa gli ucraini come carne da macello e l’Europa come “alleato-competitor” da ridimensionare.

La Cina è ancora lontana, ma lo sguardo è puntato lì…

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La guerra in Ucraina sarà il prologo dello scontro finale Usa-Cina?

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza *

È lotta per la sopravvivenza, dopo tanti anni di ininterrotta repressione finanziaria, con i tassi di interesse a zero e così tanta liquidità da non sapere più dove impiegarla mentre l’economia reale da ultimo cedeva per gli effetti della crisi sanitaria: i prezzi delle materie prime alle stelle e il cambio col dollaro che penalizza le altre valute, dall’euro allo yen fino alla sterlina britannica, sono segnali di tens ioni, di mutamenti, di scontro globale.

Sul mercato delle materie prime si è riversata l’eccezionale liquidità ancora una volta immessa sui mercati finanziari dalle banche centrali durante il biennio pandemico: dopo aver esaurito tutti i margini di crescita sui listini azionari ed essendo penalizzati da tassi negativi sui prestiti, bond e titoli di Stato, ora si escutono margini dalle aziende e dai consumatori, intermediando tra offerta e domanda di beni primari.

Non si attinge più ai dividendi o agli interessi sui debiti, finanziando lo stato patrimoniale delle imprese, ma se ne aumentano i costi di funzionamento spostando il prelievo sul loro conto economico.

I listini dei prezzi vengono cancellati, non si fanno budget annuali, si vive alla giornata.
Siamo passati così, improvvisamente, dalla tanto temuta deflazione secolare alla più forte fiammata dei prezzi mai registrata dagli anni Settanta.

A partire dal 2009, sono stati dodici anni di preoccupazione per la tendenza dei prezzi a flettere sotto lo zero, ripetendo il collasso che colpi l’economia mondiale nella seconda metà dell’Ottocento quando i prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime calavano per l’ingresso sul mercato di sempre nuovi paesi produttori e per la generalizzata illusione di mantenere invariati i proventi aumentando la produzione, sortendo l’effetto esattamente opposto.

E’ cambiato profondamente il funzionamento dei mercati e dei prezzi, principalmente, ma non solo nel campo energetico: uno scenario delineatosi ben prima della guerra in Ucraina, fattore che rende ancora più convulsa la situazione.

L’andamento dei prezzi alla produzione, che precede quello al consumo, si era andato completamente ribaltando già dall’inizio del 2021: a livello europeo, fatti pari a 100 i prezzi del 2010, ancora a fine 2020 si rilevavano valori compresi tra 102 e 104.

Alla fine del 2021, e quindi ancora due mesi prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina, l’indice dei prezzi per il complesso delle industrie europee era improvvisamente arrivato a 123,5. Una chiara speculazione sulla ripresa economica tanto attesa. A trainare tutto verso l’alto, in modo impressionante, erano stati i prezzi dei prodotti energetici, più che raddoppiati nel giro di diciotto mesi, passando da quota di 87 del maggio 2020 a 174,8 del dicembre 2021.

In Europa, la componente dei prezzi all’importazione è stata assai dinamica. In Italia, nell’anno compreso tra il febbraio 2021 e quello scorso, l’indice è passato da 96,1 a 126,5: +30,4%; in Germania, da 100,4 a 128,6: +28,2%. A marzo, l’indice tedesco ha avuto un’ulteriore impennata a 135,9: inarrestabile.

Negli Usa la variazione è stata praticamente la metà di quella tedesca e di quella italiana. La debolezza dell’euro nei confronti del dollaro ha inciso in modo decisivo sul differenziale dei prezzi all’importazione nelle due sponde dell’Atlantico: il rapporto di cambio, pari a 1,22 a febbraio 2021, era sceso a 1,13 a febbraio scorso, crollando a 1,05 in questi primi giorni di maggio.

La politica monetaria restrittiva americana sta spostando i capitali dall’area
dell’euro a quella del dollaro: rafforzandolo, ne peggiora la bilancia commerciale strutturalmente deficitaria nel settore delle merci, mai compensata dall’attivo nel comparto dei servizi.

A marzo, le esportazioni degli Usa sono ammontate nel complesso a 241,7 miliardi di dollari con un incremento di 12,9 miliardi rispetto a febbraio. Ma le importazioni sono arrivate a 351,5 miliardi, con un aumento di 32,9 miliardi rispetto a febbraio.

La scelta di deindustrializzare l’economia americana e di abbandonare completamente la manifattura, da demandare ai paesi cosiddetti arretrati come il Messico e la Cina, e che rimonta agli anni Ottanta, si è dimostrata perdente.

Nei confronti degli Usa, l’Europa assomiglia sempre più all’India dei tempi dell’Impero Britannico: con una moneta meno forte rispetto a quella aurea, tenuta ai margini dal punto di tecnologico, completamente dipendente dal punto di vista strategico e militare, fonda la propria economia sul mercantilismo e rifornisce di capitali il centro dell’Impero.

Questo determina costi economici, sociali e finanziari crescenti per l’Eurozona: per la maggiore inflazione delle merci comprate in dollari, per la caduta dei redditi reali e della maggiore disoccupazione, per i tassi di interesse asimmetrici sui titoli di Stato dei diversi Paesi.

Ma è la stessa forza del dollaro che aumenta lo squilibrio commerciale e finanziario degli Stati Uniti, divenuti in questi anni il più grande debitore del mondo. In tutto questo, la grande mutazione finanziaria intermedia sempre meno asset patrimoniali e sempre più merci.

Queste contraddizioni vanno proiettate all’esterno: la guerra in Ucraina anticipa il conflitto geopolitico più vasto, tra Usa e Cina, così come accadde per la Serbia e la Polonia che nelle due Guerre mondiali segnavano quello esistenziale tra Gran Bretagna e Germania.

La costituzione di un temibile blocco russo-cinese che dilaga in un Brics+, e prima ancora l’ambizione europea di emanciparsi dagli Stati Uniti, vanno scongiurate: nello scontro per il dominio continentale, e nonostante il collasso di tre Imperi Centrali nel 1918, la Gran Bretagna sempre più in affanno dovette cedere progressivamente le redini monetarie, economiche e militari agli Usa, anch’essi potenza marittima.

Ma adesso, dopo gli Usa, nessun’altra potenza marittima potrà prenderne l’eredità: la Storia si ripete, nello scontro finale tra il nomos del Mare e quello della Terra.

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