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Il Cop27 in Egitto: greenwashing e Stato di polizia

A partire dal 6 novembre, la località egiziana di Sharm el-Sheikh ospiterà il vertice delle Nazioni Unite sul clima di quest’anno, la Cop27. Decine di migliaia di delegati – leader mondiali, ministri, inviati, burocrati nominati, ma anche attivisti per il clima, osservatori di ONG e giornalisti – si riverseranno nella città egiziana.

Come ha scritto Naomi Klein nell’articolo che abbiamo qui tradotto, pubblicato da The Intercept e ripreso da The Guardian, «Questo vertice va ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia».

La situazione in cui si svolgerà il meeting è quella in cui il diritto di critica e l’attivismo climatico nel Paese sono ridotti a zero, con l’establishment mondiale che si incontrerà nel Paese africano che non sembra affatto dispiaciuto di questo tipo d’approccio e che ha già mostrato la complicità con il regime di Al Sisi, compresi i “verdi” tedeschi.

Scrive infatti la Klein:

«Le comunità e le organizzazioni egiziane più colpite dall’inquinamento ambientale e dall’aumento delle temperature non saranno presenti a Sharm el-Sheikh. Non ci saranno tour tossici, né vivaci contro-summit, in cui la gente del posto potrà insegnare ai delegati internazionali la verità che si cela dietro le pubbliche relazioni del loro governo. Organizzare eventi di questo tipo farebbe finire gli egiziani in prigione per aver diffuso “notizie false” o per aver violato il divieto di protesta.

I delegati internazionali non possono nemmeno informarsi sull’attuale inquinamento e sulla spoliazione ambientale in Egitto nei rapporti accademici o delle ONG a causa di una legge draconiana del 2019 che impone ai ricercatori di ottenere il permesso del governo prima di pubblicare informazioni considerate “politiche”.

L’intero paese è imbavagliato e centinaia di siti web sono bloccati, compreso l’indispensabile e perennemente vessato Mada Masr. Human Rights Watch riferisce che i gruppi sono stati costretti a limitare e ridimensionare le loro ricerche a causa di questi nuovi vincoli e “un importante gruppo ambientalista egiziano ha sciolto la sua unità di ricerca perché era diventato impossibile lavorare sul campo”.

È interessante notare che nessuno degli ambientalisti che hanno parlato con Human Rights Watch della censura e della repressione è stato disposto a usare il proprio nome reale perché le rappresaglie sono così pesanti.»

Quello egiziano, fatto di una repressione feroce dell’opposizione reale e di costruzione in vitro di una antagonismo fittizio e compatibile di una “società civile” addomesticata, spiegato bene dall’autrice, sembra quasi un modello replicabile altrove attraverso il quale l’establishment anche occidentale potrebbe approcciarsi all’infarto ecologico del pianeta.

Autoritarismo politico, una finta opposizione, una narrazione accattivante e tanto, ma tanto business che non risolve certo i problemi delle prime vittime del disastro ecologico.

In Egitto, come altrove, la corsa all’oro verde è il tentativo di risolvere la crisi del modo di produzione capitalista con massicci finanziamenti green senza intaccare le gerarchie dell’attuale assetto mondiale – in specie i rapporti con il Sud del mondo del blocco euro-atlantico – senza attaccare minimamente le cause del cambiamento climatico, e proseguendo tranquillamente con l’uso di fonti inquinanti e lo sviluppo del nucleare.

Questo è il punto: non vi è soluzione della questione ecologica senza una rottura politica in grado di pianificare la transizione dall’attuale modo di produzione e che coniughi i bisogni sociali con il salvataggio del Pianeta.

Fine del mese, fine del Pianeta: stessa lotta”, era uno degli slogan dei gilets jaunes.

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Il greenwashing di uno stato di polizia: la verità dietro la mascherata Cop27 dell’Egitto

L’Egitto di Sisi fa bella mostra di pannelli solari e cannucce biodegradabili in vista del vertice sul clima del mese prossimo, ma in realtà il regime imprigiona gli attivisti e vieta la ricerca. Il movimento per il clima non dovrebbe stare al gioco.

Come ha scritto Naomi Klein nell’articolo che abbiamo qui tradotto, pubblicato da “The Intercept” e ripreso da “The Guardian”: «Questo vertice va ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia».

di Naomi Klein

Prima apparizione dell’articolo su The Intercept, il 7 ottobre 2022

Nessuno sa che fine abbia fatto la lettera sul clima perduta. Tutto ciò che si sa è questo: Alaa Abd El-Fattah, uno dei prigionieri politici più importanti dell’Egitto, l’ha scritta durante uno sciopero della fame nella sua cella al Cairo il mese scorso.

Come ha spiegato in seguito, “parlava del riscaldamento globale a causa delle notizie provenienti dal Pakistan”. Era preoccupato per le inondazioni che hanno causato lo sfollamento di 33 milioni di persone e per ciò che quel cataclisma lasciava presagire sulle difficoltà climatiche e sulle misere risposte statali a venire.

Tecnologo e intellettuale visionario, il nome di Abd El-Fattah e l’hashtag #FreeAlaa sono diventati sinonimi della rivoluzione pro-democrazia del 2011, che ha trasformato Piazza Tahrir al Cairo in un mare di giovani che hanno messo fine a tre decenni di governo del dittatore egiziano Hosni Mubarak.

Dietro le sbarre quasi ininterrottamente da dieci anni, Abd El-Fattah è in grado di inviare e ricevere lettere una volta alla settimana. All’inizio di quest’anno, una raccolta dei suoi scritti in carcere è stata pubblicata nel celebre libro You Have Not Yet Been Defeated.

La famiglia e gli amici di Abd El-Fattah vivono per quelle lettere settimanali. Soprattutto dal 2 aprile, quando ha iniziato uno sciopero della fame, ingerendo inizialmente solo acqua e sale e poi solo 100 calorie al giorno (il corpo ne ha bisogno di più di 2.000).

Lo sciopero di Abd El-Fattah è una protesta contro la sua detenzione per il reato di “diffusione di notizie false” – apparentemente perché ha condiviso un post su Facebook sulla tortura di un altro prigioniero. Tutti sanno, però, che la sua incarcerazione ha lo scopo di inviare un messaggio a tutti i futuri giovani rivoluzionari che sognano la democrazia.

Con il suo sciopero, Abd El-Fattah sta cercando di fare pressione sui suoi carcerieri affinché gli diano importanti concessioni, tra cui l’accesso al consolato britannico (la madre di Abd El-Fattah è nata in Inghilterra, quindi lui ha potuto ottenere la cittadinanza britannica). I suoi carcerieri si sono finora rifiutati e lui continua a deperire. “È diventato uno scheletro con la mente lucida”, ha detto di recente sua sorella Mona Seif.

Più lo sciopero della fame si protrae, più quelle lettere settimanali diventano preziose. Per la sua famiglia, non sono altro che una prova di vita. Eppure, la settimana in cui scrisse del crollo climatico, la lettera non arrivò mai alla madre di Abd El-Fattah, Laila Soueif, difensore dei diritti umani e intellettuale a tutti gli effetti.

Forse, ipotizzò Abd El-Fattah nella successiva corrispondenza con lei, il suo carceriere aveva “versato il caffè sulla lettera”. Più probabilmente, si è ritenuto che la lettera toccasse argomenti proibiti di “alta politica”, anche se Abd El-Fattah afferma di essere stato attento a non menzionare il governo egiziano e nemmeno “l’imminente conferenza”.

Quest’ultima parte è importante. Si riferisce al fatto che il mese prossimo, a partire dal 6 novembre, la località egiziana di Sharm el-Sheikh ospiterà il vertice delle Nazioni Unite sul clima di quest’anno, la Cop27.

Decine di migliaia di delegati – leader mondiali, ministri, inviati, burocrati nominati, ma anche attivisti per il clima, osservatori di ONG e giornalisti – si riverseranno nella città, con i loro petti addobbati con cordicelle e badge colorati.

Ecco perché la lettera perduta è significativa. C’è qualcosa di insopportabilmente commovente nel pensare che Abd El-Fattah – nonostante il decennio di indignazioni che lui e la sua famiglia hanno subito – sia seduto nella sua cella a pensare al nostro mondo che si sta riscaldando.

Eccolo lì, lentamente affamato, ma ancora preoccupato per le inondazioni in Pakistan, l’estremismo in India, il crollo della valuta nel Regno Unito e la candidatura presidenziale di Lula in Brasile, tutti temi che vengono citati nelle sue recenti lettere, condivise con me dalla sua famiglia.

C’è anche, francamente, qualcosa che fa vergognare. Perché se Abd El-Fattah pensa al mondo, non è affatto chiaro che il mondo che si sta recando in Egitto per il vertice sul clima stia pensando molto a lui. O agli altri 60.000 prigionieri politici stimati dietro le sbarre in Egitto, dove, a quanto pare, vengono praticate barbare forme di tortura in una “catena di montaggio”.

O agli attivisti egiziani per i diritti umani e l’ambiente, ai giornalisti critici e agli accademici, che sono stati molestati, spiati e a cui è stato impedito di viaggiare nell’ambito di quella che Human Rights Watch definisce la “generale atmosfera di paura” e “l’implacabile repressione della società civile” dell’Egitto.

Il regime egiziano è ansioso di celebrare i suoi “leader giovanili” ufficiali del clima, additandoli come simboli di speranza nella battaglia contro il riscaldamento.

Ma è difficile non pensare ai coraggiosi leader giovanili della primavera araba, molti dei quali sono ormai prematuramente invecchiati da oltre un decennio di violenze di Stato e vessazioni da parte di sistemi riccamente finanziati dagli aiuti militari delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti.

È quasi come se quegli attivisti fossero stati sostituiti da modelli più recenti e meno problematici.

Sono il fantasma della primavera passata“, ha scritto Abd El-Fattah di sé stesso nel 2019. Questo fantasma perseguiterà il prossimo vertice, facendo rabbrividire ogni sua parola altisonante. La domanda silenziosa che pone è cruda: se la solidarietà internazionale è troppo debole per salvare Abd El-Fattah – il simbolo dei sogni di una generazione – che speranza abbiamo di salvare una casa abitabile?

Mohammed Rafi Arefin, professore assistente di geografia presso l’Università della British Columbia, che ha condotto ricerche sulle politiche ambientali urbane in Egitto, sottolinea che “ogni vertice delle Nazioni Unite sul clima presenta un complesso calcolo di costi e benefici”.

C’è l’emissione di anidride carbonica nell’atmosfera durante il viaggio dei delegati, il prezzo di due settimane in hotel (molto alto per le organizzazioni di base) e la bonanza delle relazioni pubbliche di cui gode il governo ospitante, che invariabilmente si posiziona come un campione dell’ecologia, nonostante le prove del contrario.

Ma ci sono anche dei vantaggi: il fatto che, per quelle due settimane, la crisi climatica faccia notizia a livello globale, fornendo spesso piattaforme mediatiche a voci potenti in prima linea, dall’Amazzonia brasiliana a Tuvalu.

C’è poi la rete e la solidarietà internazionale che si crea quando gli organizzatori locali del paese ospitante organizzano contro-summit e “tour tossici” per svelare la realtà che si cela dietro le dichiarazioni ecologiche dei loro governi. E, naturalmente, ci sono gli accordi che vengono negoziati e i fondi che vengono promessi ai più poveri e ai più colpiti.

Ma questi non sono vincolanti e, come ha detto in modo memorabile Greta Thunberg, gran parte di essi non sono altro che “Bla, bla, bla”.

Con l’imminente vertice sul clima in Egitto, Arefin mi dice: “Il solito calcolo è cambiato. L’equilibrio si è ribaltato”. Oltre alle emissioni di anidride carbonica e ai costi, il governo ospitante – che avrà la possibilità di pavoneggiarsi di fronte al mondo – non è la classica democrazia liberale dalla doppia faccia. “È”, dice, “il regime più repressivo nella storia del moderno stato egiziano”.

Guidato dal generale Abdel Fatah al-Sisi, che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 2013 (e da allora lo ha mantenuto con elezioni farsa), il regime è, secondo le organizzazioni per i diritti umani, uno dei più brutali e repressivi al mondo. Da quando ha preso il potere, meno di dieci anni fa, ha costruito più di due dozzine di nuove prigioni.

Naturalmente, non si direbbe dal modo in cui l’Egitto si sta pubblicizzando in vista del vertice. Un video promozionale sul sito ufficiale della Cop27 dà il benvenuto ai delegati nella “città verde” di Sharm el-Sheik e mostra giovani attori – tra cui uomini con barbe trasandate e collane chiaramente destinate a sembrare attivisti ambientali – che si divertono con cannucce non di plastica e contenitori per alimenti biodegradabili mentre scattano selfie sulla spiaggia, fanno docce all’aperto e guidano veicoli elettrici nel deserto per cavalcare cammelli.

Mentre guardavo il video, mi è venuto in mente che Sisi ha deciso di utilizzare il summit per mettere in scena un nuovo tipo di reality show, in cui gli attori “interpretano” attivisti che assomigliano in modo impressionante ai veri attivisti che soffrono sotto tortura nel suo arcipelago di prigioni in rapida espansione. Questo vertice va ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia.

Le comunità e le organizzazioni egiziane più colpite dall’inquinamento ambientale e dall’aumento delle temperature non saranno presenti a Sharm el-Sheikh.

Non ci saranno tour tossici, né vivaci contro-summit, in cui la gente del posto potrà insegnare ai delegati internazionali la verità che si cela dietro le pubbliche relazioni del loro governo. Organizzare eventi di questo tipo farebbe finire gli egiziani in prigione per aver diffuso “notizie false” o per aver violato il divieto di protesta.

I delegati internazionali non possono nemmeno informarsi sull’attuale inquinamento e sulla spoliazione ambientale in Egitto nei rapporti accademici o delle ONG a causa di una legge draconiana del 2019 che impone ai ricercatori di ottenere il permesso del governo prima di pubblicare informazioni considerate “politiche”.

L’intero paese è imbavagliato e centinaia di siti web sono bloccati, compreso l’indispensabile e perennemente vessato Mada Masr. Human Rights Watch riferisce che i gruppi sono stati costretti a limitare e ridimensionare le loro ricerche a causa di questi nuovi vincoli e “un importante gruppo ambientalista egiziano ha sciolto la sua unità di ricerca perché era diventato impossibile lavorare sul campo“.

È interessante notare che nessuno degli ambientalisti che hanno parlato con Human Rights Watch della censura e della repressione è stato disposto a usare il proprio nome reale perché le rappresaglie sono così pesanti.

Arefin, che ha condotto ricerche approfondite sui rifiuti e sulle inondazioni nelle città egiziane prima di quest’ultima serie di leggi censorie, mi ha detto che lui e altri accademici e giornalisti critici “non sono più in grado di fare quel lavoro”. I danni ambientali dell’Egitto ora avvengono nell’oscurità“. E coloro che infrangono le regole e cercano di accendere le luci finiscono in celle buie o peggio.

La sorella di Abd El-Fattah, Mona Seif, che ha passato anni a fare pressioni per il rilascio del fratello e di altri prigionieri politici, ha scritto di recente su Twitter: “La realtà che la maggior parte di coloro che partecipano al #Cop27 stanno scegliendo di ignorare è che… in paesi come l’Egitto i tuoi veri alleati, quelli a cui importa davvero del futuro del pianeta, sono coloro che languono nelle prigioni”.

Quindi, a differenza di ogni altro vertice sul clima a memoria d’uomo, questo non avrà autentici partner locali. Ci saranno alcuni egiziani che affermano di rappresentare la “società civile”. E alcuni di loro lo fanno.

Il problema è che, per quanto animati da buone intenzioni, anche loro sono attori di secondo piano nel reality show sulla spiaggia di Sisi; in deroga alle consuete regole delle Nazioni Unite, quasi tutti sono stati controllati e approvati dal governo. Lo stesso rapporto di Human Rights Watch, pubblicato il mese scorso, spiega che questi gruppi sono stati invitati a parlare solo di argomenti “graditi”.

Che cosa, per il regime, è gradito? “Raccolta dei rifiuti, riciclaggio, energie rinnovabili, sicurezza alimentare e finanziamenti per il clima”.

Quali sono gli argomenti non graditi? “Quelli che evidenziano l’incapacità del governo di proteggere i diritti delle persone dai danni causati dagli interessi delle aziende, tra cui le questioni relative alla sicurezza idrica, all’inquinamento industriale e ai danni ambientali causati dal settore immobiliare, dallo sviluppo turistico e dall’agroalimentare”, si legge nel rapporto.

Inoltre, non è gradito: “L’impatto ambientale della vasta e opaca attività commerciale militare egiziana… è particolarmente sensibile, così come i progetti infrastrutturali “nazionali” come la nuova capitale amministrativa, molti dei quali sono associati all’ufficio del presidente o ai militari”.

E non parlare assolutamente dell’inquinamento da plastica e dell’uso dell’acqua da parte della Coca-Cola, che è uno dei fieri sponsor ufficiali del summit.

In breve, se vuoi installare pannelli solari o raccogliere rifiuti, probabilmente puoi ottenere un badge per venire a Sharm el-Sheikh. Ma se vuoi parlare dell’impatto sulla salute e sul clima dei cementifici egiziani alimentati a carbone o dell’abbandono di alcuni degli ultimi spazi verdi del Cairo, è più probabile che tu riceva una visita dalla polizia segreta o dal Ministero della Solidarietà Sociale.

E se, in qualità di egiziano, metti in dubbio la credibilità di Sisi nel parlare a nome delle popolazioni povere e vulnerabili al clima dell’Africa, visto l’aggravarsi della fame e della disperazione del suo stesso popolo, faresti meglio a farlo da fuori dal Paese.

Finora, ospitare il summit si è rivelato una vera e propria bonanza per Sisi, un uomo che Donald Trump ha definito “il mio dittatore preferito”. Il turismo costiero, che negli ultimi anni ha subito un crollo, ne ha tratto giovamento e il regime spera chiaramente che i suoi video di docce all’aperto e gite in cammello ne ispirino altri.

Ma questo è solo l’inizio della corsa all’oro verde. Alla fine del mese scorso, la British International Investment (BII), che è sostenuta dal governo britannico, ha annunciato con entusiasmo di voler “investire 100 milioni di dollari per sostenere le startup locali” in Egitto. È anche proprietaria di maggioranza di Globeleq, che prima di Cop27 ha annunciato un accordo da 11 miliardi di dollari per la produzione di idrogeno verde in Egitto.

Allo stesso tempo, la BII ha sottolineato il suo “impegno a rafforzare la partnership con l’Egitto e ad aumentare i finanziamenti per il clima per sostenere la crescita verde del paese”.

Questo è lo stesso governo che sembra aver fatto ben poco per garantire il rilascio di Abd El-Fattah, nonostante la sua cittadinanza britannica e il suo sciopero della fame. Sfortunatamente per lui, il destino di Abd El-Fattah è stato per mesi nelle mani di Liz Truss che, prima di diventare il primo ministro britannico, spettacolarmente insensibile e inetto, è stata il suo segretario agli Esteri, spettacolarmente insensibile e inetto. Avrebbe potuto utilizzare alcuni di quei miliardi di investimenti e aiuti allo sviluppo per ottenere il rilascio di un suo concittadino.

La scorsa settimana, Gillian Keegan, ministro per l’Africa presso il Foreign, Commonwealth and Development Office, ha riferito di aver incontrato per la prima volta l’ambasciatore dell’Egitto nel Regno Unito e di aver “sollevato il caso di Alaa Abd El-Fattah”.

I fallimenti morali della Germania sono ugualmente desolanti. Quando Annalena Baerbock, co-leader del partito dei Verdi, è diventata il primo ministro degli Esteri donna del paese lo scorso dicembre, ha annunciato una nuova “politica estera basata sui valori”, che avrebbe dato priorità ai diritti umani e alle questioni climatiche.

La Germania è uno dei principali donatori e partner commerciali dell’Egitto, quindi, come il Regno Unito, ha certamente una carta da giocare. Ma invece di fare pressione sui diritti umani, la Baerbock ha fornito a Sisi inestimabili opportunità di propaganda, tra cui quella di ospitare insieme a lui il Dialogo sul clima di Petersberg a Berlino nel mese di luglio, durante il quale lo spietato dittatore è stato in grado di riproporsi come leader verde.

E viste le difficoltà causate dalla dipendenza della Germania dal gas russo, l’Egitto si sta posizionando per fornire gas e idrogeno sostitutivi. Nel frattempo, il gigante tedesco Siemens Mobility ha annunciato uno “storico” contratto multimiliardario per la costruzione di treni elettrificati ad alta velocità in tutto l’Egitto.

Le iniezioni internazionali di denaro verde arrivano giusto in tempo per il travagliato regime di Sisi. A fronte di uno tsunami di crisi globali (inflazione, pandemia, scarsità di cibo, aumento dei prezzi del carburante, siccità, debito), oltre alla cattiva gestione sistemica e alla corruzione, l’Egitto è sull’orlo dell’insolvenza sul debito estero: una situazione instabile che potrebbe destabilizzare il governo di Sisi. In questo contesto, il vertice sul clima non è solo un’opportunità di pubbliche relazioni, ma un’ancora di salvezza.

Sebbene siano riluttanti a rinunciare al processo, la maggior parte degli attivisti climatici seri ammette prontamente che questi vertici producono ben poco in termini di azione climatica basata sulla scienza.

Anno dopo anno, da quando sono iniziati, le emissioni continuano ad aumentare. Che senso ha quindi sostenere il vertice di quest’anno quando l’unica cosa che si prefigge di ottenere è l’ulteriore rafforzamento e arricchimento di un regime che, secondo qualsiasi standard etico, merita lo status di paria?

Come chiede Arefin: “A che punto diciamo ‘basta’?”.

Per mesi, gli egiziani in esilio in Europa e negli Stati Uniti hanno supplicato le ONG di inserire i prigionieri politici del loro paese nell’agenda dei negoziati che hanno preceduto il vertice. Ma non è mai stata data priorità a questo tema.

È stato detto loro che questa è la “Cop dell’Africa” (Cop sta per Conferenza delle Parti, ovvero i firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici); e che, nonostante tutti i precedenti fallimenti, questa Cop, la 27esima, si sarebbe finalmente occupata seriamente di “implementazione” e di “perdite e danni” – in gergo ONU, la speranza che i Paesi ricchi e altamente inquinanti paghino finalmente quanto dovuto alle nazioni povere, come il Pakistan, che non hanno contribuito quasi per nulla alle emissioni di carbonio, ma che stanno sostenendo la maggior parte dei costi.

La chiara implicazione è stata che il vertice è troppo serio e importante per essere distratto dalla questione, apparentemente di poco conto, dei diritti umani del paese ospitante. Ma la Cop27 ha davvero intenzione di promuovere la giustizia climatica? Porterà l’energia verde, i trasporti puliti e la sovranità alimentare ai poveri? Il vertice affronterà davvero il debito climatico e i risarcimenti, come molti sostengono? Se solo.

Il caso dei risarcimenti climatici è ovvio, scrive il giornalista, regista e romanziere egiziano Omar Robert Hamilton in un saggio magistrale. “La questione più difficile è come progettare un sistema di risarcimento che non rafforzi i poteri autoritari dello Stato” e che garantisca che i fondi contribuiscano effettivamente a politiche realmente post-carbonio.

“Questo dovrebbe essere il fulcro dei negoziati della Cop tra i paesi del sud e quelli del nord, ma quelli che negoziano per il sud tendono a essere poteri statali autoritari i cui interessi a breve termine sono ancora più fragili di quelli dei dirigenti del settore petrolifero”.

In breve, nonostante nei circoli climatici si parli di una Cop “attuativa”, il vertice egiziano probabilmente otterrà ben pochi risultati in termini di azione climatica reale come tutti gli altri precedenti. Ma questo non vuol dire che non otterrà nulla: quando si tratta di sostenere un regime di tortura, di inondarlo di denaro e di foto per ripulire l’immagine, la Cop27 è già un regalo generoso.

Abd El-Fattah è stato a lungo un simbolo della rivoluzione egiziana violentemente spenta. Ma con l’avvicinarsi del vertice, sta diventando il simbolo anche di qualcos’altro: la mentalità della “zona di sacrificio” che è alla base della crisi climatica. Si tratta dell’idea che alcuni luoghi e alcune persone possano essere ignorati, scartati e cancellati in nome del progresso.

Abbiamo visto questa mentalità all’opera quando le comunità vengono avvelenate per estrarre e raffinare combustibili fossili e minerali. L’abbiamo vista quando queste comunità sono state sacrificate in nome dell’approvazione di una legge sul clima che non le protegge. E ora lo stiamo vedendo nel contesto di un vertice internazionale sul clima, con i diritti delle persone che vivono nel paese ospitante sacrificati e non visti in nome del miraggio di un “reale progresso” nei negoziati.

Se il vertice dell’anno scorso a Glasgow era all’insegna del “bla, bla, bla”, il significato di questo, ancor prima di iniziare, è più inquietante. Questo vertice è all’insegna del sangue, del sangue, del sangue.

Il sangue dei circa 1.000 manifestanti massacrati dalle forze egiziane per garantire il potere al suo attuale governante. Il sangue di coloro che continuano a essere assassinati. Il sangue di coloro che vengono picchiati nelle strade e torturati nelle prigioni. Il sangue di persone come Abd El-Fattah.

Forse siamo ancora in tempo per cambiare il copione e per far sì che il vertice diventi un faro che illumini le connessioni tra il crescente autoritarismo e il caos climatico in tutto il mondo, come il modo in cui leader di estrema destra come l’italiana Giorgia Meloni fomentano la paura dei rifugiati, compresi quelli che fuggono dal disastro climatico, per alimentare la loro ascesa, e il modo in cui l’UE rifornisce di denaro leader brutali come Sisi, affinché continui a impedire agli africani di raggiungere le loro coste. C’è ancora tempo per affermare che la giustizia climatica è impossibile senza libertà politiche.

“A differenza di me, tu non sei ancora stato sconfitto”. Alaa Abd El-Fattah ha scritto queste parole nel 2017. Era stato invitato a tenere un discorso alla RightsCon, la conferenza annuale sui diritti umani nell’era digitale sponsorizzata da tutte le grandi aziende tecnologiche.

La conferenza si svolgeva negli Stati Uniti, ma poiché Abd El-Fattah si trovava dietro le sbarre nella famigerata prigione di Tora (a quel punto erano passati quattro anni), inviò una lettera. Si tratta di un testo brillante, che parla dell’imperativo di proteggere Internet come spazio di creatività, sperimentazione e libertà.

Ed è anche una sfida a coloro che non sono (ancora) dietro le sbarre, che hanno la libertà di fare cose come andare alle conferenze per parlare di giustizia, democrazia e diritti umani. In questa libertà c’è una responsabilità. La responsabilità non solo di essere liberi, ma anche di agire liberamente, di utilizzare la libertà per il suo pieno potenziale di trasformazione, prima che sia troppo tardi.

Mentre decine di migliaia di delegati del Cop27, relativamente liberi, si preparano a volare a Sharm el-Sheikh, controllando le temperature medie di novembre (massime di 28°C) e preparando le valigie in modo appropriato (camicie leggere, sandali, un costume da bagno – perché non si sa mai), le parole di Abd El-Fattah sulle responsabilità che derivano dall’essere imbattuti assumono una nuova urgenza.

Data l’intensa sorveglianza e le minacce che gli egiziani che parteciperanno al summit dovranno affrontare, in che modo gli stranieri che parteciperanno potranno mettere in pratica la loro libertà? Il loro stato di non essere ancora sconfitti?

Si comporteranno come se l’Egitto fosse solo uno sfondo e non un paese vero e proprio dove persone come loro hanno combattuto e sono morte per le loro stesse libertà e contro gli stessi interessi economici che stanno destabilizzando il nostro clima politico e planetario?

Oppure troveranno il modo di portare alcune delle raccapriccianti verità delle prigioni egiziane nello sfarzo verde del centro conferenze? Parleranno dei nomi dei prigionieri? Cercheranno le poche organizzazioni della società civile rimaste al Cairo – come quelle che si sono riunite sotto copcivicspace.net – e vedranno come possono aiutare?

Abd El-Fattah sarebbe il primo a dire che non c’è bisogno né di pietà né di carità. Piuttosto, da convinto internazionalista che ha solidarizzato con molte lotte, dal Chiapas alla Palestina, ha fatto appello ai compagni di una battaglia che ha fronti in ogni nazione.

“Ci rivolgiamo a voi”, ha scritto in quella lettera di RightsCon dal carcere, “non in cerca di potenti alleati, ma perché affrontiamo gli stessi problemi globali, condividiamo valori universali e crediamo fermamente nel potere della solidarietà“.

Le forze antidemocratiche e fasciste si stanno espandendo in tutto il mondo. Paese dopo paese, le libertà sono precarie o stanno scivolando via. E tutto questo è collegato. Le maree politiche si muovono a ondate attraverso i confini, nel bene e nel male, ed è per questo che la solidarietà internazionale non può mai essere sacrificata in nome della convenienza per un qualche obiettivo di “progresso”.

La rivoluzione egiziana è stata ispirata da quella tunisina e, a sua volta, “lo spirito di Tahrir” si è diffuso in tutto il mondo. Ha contribuito a ispirare altri movimenti giovanili in Europa e Nord America, tra cui Occupy Wall Street, che a sua volta ha contribuito alla nascita di nuove politiche anticapitaliste ed ecosocialiste.

In effetti, è possibile tracciare una linea retta da Tahrir a Occupy, alla campagna presidenziale statunitense del 2016 di Bernie Sanders, all’elezione di Alexandria Ocasio-Cortez al Congresso e alla sua difesa del Green New Deal.

Quando i diritti umani sono sotto attacco, lo è anche il mondo naturale. Dopotutto, le comunità e le organizzazioni che stanno affrontando la più grave repressione e violenza da parte dello Stato in tutto il mondo – sia che vivano nelle Filippine o in Canada o in Brasile o negli Stati Uniti – sono costituite per la maggior parte da popolazioni indigene che cercano di proteggere i loro territori da progetti estrattivi inquinanti, molti dei quali sono anche alla base della crisi climatica. La difesa dei diritti umani, ovunque viviamo, è quindi inestricabile dalla difesa di un pianeta vivibile.

Inoltre, la misura in cui alcuni governi stanno finalmente introducendo una legislazione significativa sul clima è legata anche alle libertà politiche. Il Senato degli Stati Uniti e l’amministrazione Biden sono stati finalmente trascinati ad approvare l’Inflation Reduction Act, per quanto imperfetto.

Questo è avvenuto come risultato diretto della pressione pubblica, del giornalismo investigativo, della disobbedienza civile, dei sit-in negli uffici legislativi, delle azioni legali e di ogni altro strumento disponibile nell’arsenale nonviolento.

Alla fine, i legislatori si sono riuniti per approvare la legge perché temevano quello che sarebbe successo quando avrebbero affrontato gli elettori a novembre se si fossero presentati a mani vuote. Se i politici statunitensi non dovessero temere l’opinione pubblica, perché l’opinione pubblica ha più paura di loro, non sarebbe successo nulla di tutto questo.

Una cosa è certa: non otterremo il tipo di cambiamento che la crisi climatica richiede senza la libertà di manifestare, di partecipare, di svergognare i leader politici e di dire la verità in pubblico. Se le manifestazioni vengono vietate e i fatti scomodi vengono criminalizzati come “notizie false”, come avviene nell’Egitto di Sisi, allora il gioco è fatto.

Senza gli scioperi, le proteste e le ricerche investigative, saremmo in condizioni ben peggiori di quelle in cui ci troviamo. E ognuna di queste attività sarebbe sufficiente a far finire un attivista o un giornalista egiziano in una cella buia accanto a quella di Abd El-Fattah.

Quando è arrivata la notizia che il prossimo vertice delle Nazioni Unite sul clima si sarebbe tenuto a Sharm el-Sheikh, gli attivisti egiziani, all’interno del paese e in esilio, avrebbero potuto invitare il movimento per il clima a boicottarlo. Hanno scelto di non farlo, per una serie di ragioni. Ma hanno chiesto solidarietà.

L’Istituto del Cairo per gli Studi sui Diritti Umani, ad esempio, ha invitato la comunità internazionale a utilizzare il summit “per fare maggiore luce sui crimini commessi in Egitto e sollecitare le autorità egiziane a cambiare rotta”.

C’erano grandi speranze che gli attivisti nordamericani ed europei spingessero i loro governi a condizionare la loro presenza e la loro partecipazione alla condizione che l’Egitto soddisfacesse i requisiti fondamentali in materia di diritti umani, tra cui l’amnistia per i prigionieri di coscienza in carcere per “crimini” come l’organizzazione di una manifestazione, la pubblicazione di una dichiarazione poco lusinghiera sul regime o il ricevimento di una sovvenzione straniera.

Finora, a meno di un mese dall’inizio del vertice, la risposta del movimento globale per il clima è stata blanda.

Molti gruppi hanno aggiunto i loro nomi alle petizioni; sono apparsi alcuni articoli sulla situazione dei diritti umani durante il summit; gli attivisti per il clima in Germania, molti dei quali esuli egiziani, hanno organizzato piccole proteste con cartelli che recitavano “No Cop27 finché Alaa non sarà libero” e “No Greenwashing Egypt’s Prisons”. Ma non abbiamo visto nulla del tipo di pressione internazionale che possa preoccupare i governanti egiziani.

È difficile sopravvalutare la natura totalizzante della guerra di Sisi alla società civile. Human Rights Watch riporta che “nel 2014… Sisi ha emendato, con un decreto, il codice penale per punire con l’ergastolo o la condanna a morte chiunque richieda, riceva o assista il trasferimento di fondi, sia da fonti straniere che da organizzazioni locali, con l’obiettivo di svolgere un lavoro che danneggi un ‘interesse nazionale’ o l’indipendenza del paese o che minacci la sicurezza o la protezione pubblica”. La condanna a morte per aver ricevuto una sovvenzione.

Eppure tutte le principali fondazioni statunitensi ed europee saranno a Sharm el-Sheikh per incontrare i gruppi che finanziano e altri che potrebbero prendere in considerazione di finanziare, in un paese in cui l’impiego di denaro per raccontare la verità sulla spoliazione dell’ambiente in Egitto può costare la vita.

Tutto questo è un po’ sconcertante. Perché invitare finanziatori e gruppi ecologisti in Egitto quando il regime ha un’ostilità così evidente nei confronti di queste attività a livello nazionale?

La verità – scomoda per tutti coloro che parteciperanno – è che non c’è niente di più utile per Sisi che trasformare Sharm el-Sheik in una sorta di zoo non profit, dove gli attivisti e i finanziatori internazionali del clima possono passare due settimane a gridare contro l’ingiustizia tra nord e sud davanti alle telecamere, con qualche gruppo locale approvato dallo Stato che si aggiunge per autenticità.

Perché? Perché in questo modo l’Egitto sembrerebbe qualcosa che decisamente non è: una società libera e democratica. Una buona fonte di gas naturale. O un paese adatto a cui affidare un nuovo prestito del FMI.

A detta di tutti, il governo egiziano sta costruendo freneticamente una bolla a Sharm el-Sheikh, dove impersonerà qualcosa che assomiglia a una democrazia. La domanda che si pongono i gruppi della società civile è la seguente: starete al gioco o farete il possibile per disturbare lo spettacolo?

In tutti i piani per il vertice sul clima del mese prossimo sponsorizzato dalla Coca-Cola, il dettaglio più agghiacciante è sicuramente l’annuncio che questo sarà il primo raduno di questo tipo ad avere un padiglione per i bambini e i giovani all’interno della sede ufficiale: uno spazio dedicato che “fornirà un luogo di incontro per colloqui, istruzione, creatività, briefing politici, riposo e relax, riunendo le voci dei giovani di tutto il mondo”. Questo permetterà ai giovani di – sentite questa – “dire la verità al potere”.

Non ho dubbi che molti giovani presenti in quel padiglione pronunceranno discorsi di grande impatto, come hanno fatto a Glasgow e in occasione di altri vertici sul clima. I giovani sono diventati dei veri e propri leader del clima e hanno iniettato l’urgenza e la chiarezza morale di cui hanno disperatamente bisogno in molti spazi ufficiali dedicati al clima. La stessa chiarezza morale è necessaria ora.

Un decennio fa, i giovani egiziani non avevano un padiglione approvato dallo Stato. Avevano una rivoluzione. Inondarono Piazza Tahrir chiedendo un paese diverso, un paese senza l’ombra sempre presente della paura, un paese in cui gli adolescenti non scomparivano nelle prigioni della polizia per poi riapparire morti, con il volto tumefatto e insanguinato.

Quella rivoluzione ha rovesciato un dittatore che governava da prima che loro nascessero. Ma poi i loro sogni sono stati infranti dai tradimenti politici e dalla violenza. In una delle sue recenti lettere, Abd El-Fattah ha scritto di quanto sia doloroso condividere la sua cella con adolescenti che sono stati arrestati quando erano bambini: “Erano minorenni quando sono stati messi in prigione e stanno lottando per uscire prima di raggiungere l’età adulta”.

Uno degli adolescenti che hanno contribuito a conquistare la piazza nel 2011 è la straordinaria sorella minore di Abd El-Fattah, Sanaa Seif. All’epoca appena diciassettenne, Sanaa ha co-fondato un giornale rivoluzionario, Al Gornal, che ha pubblicato decine di migliaia di copie ed è diventato una sorta di voce di Tahrir.

È stata anche redattrice e cameraman del film documentario The Square, candidato all’Oscar nel 2013. Lei stessa è stata imprigionata più volte per aver denunciato le violazioni dei diritti umani e per aver chiesto il rilascio di suo fratello.

In un’intervista, mi ha detto di avere un messaggio per i giovani attivisti diretti a quel padiglione: “Ci abbiamo provato. Abbiamo detto la verità al potere”. Ora, dice, molti attivisti passano i loro 20 anni in prigione.

“Quando andrete, ricordatevi che potete essere la voce di altri giovani… Per favore, manteniamo questa eredità. Ti prego di dire davvero la verità al potere. Avrà un impatto… gli occhi sono puntati su di voi”.

Ma mentre il vertice sul clima si avvicina e lo sciopero della fame di Abd El-Fatah si protrae, Sanaa sta perdendo la pazienza con i grandi gruppi verdi che finora sono rimasti in silenzio, apparentemente per paura di perdere i loro distintivi o di essere fermati al confine.

“Onestamente sono stufa dell’ipocrisia del movimento per il clima”, ha scritto su Twitter la scorsa settimana. “Per mesi dall’Egitto si sono levate grida che avvertivano che questa #COP27 andrà ben oltre il greenwashing, che le ramificazioni su di noi saranno orribili. Eppure la maggior parte sceglie di ignorare la situazione dei diritti umani”.

Questo, ha sottolineato l’autrice, è il motivo per cui l’attivismo per il clima è spesso visto come un esercizio d’élite, scollegato dalle persone che hanno urgenti preoccupazioni quotidiane, come far uscire di prigione i propri familiari. “Stai garantendo che #ClimateAction rimanga una nozione aliena, esclusiva dei pochi che hanno il lusso di pensare oltre l’oggi”, ha scritto.

“Mitigare il cambiamento climatico e lottare per i diritti umani sono lotte interconnesse, non dovrebbero essere separate. Soprattutto perché abbiamo a che fare con un regime sostenuto da aziende come BP ed Eni. E poi, quanto è difficile sollevare entrambe le questioni? #FreeThemAll #FreeAlaa”.

Non è difficile, ma ci vuole coraggio. Il messaggio che gli attivisti dovrebbero portare al vertice sul clima, sia che si rechino in Egitto sia che si impegnino da lontano, è semplice: se non si difendono le libertà politiche, non ci sarà un’azione significativa per il clima. Né in Egitto, né altrove. Questi temi sono intrecciati, così come i nostri destini.

L’ora è tarda, ma c’è ancora abbastanza tempo per fare le cose per bene. Human Rights Watch sostiene che il segretariato della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che stabilisce le regole per questi vertici, dovrebbe “sviluppare criteri sui diritti umani che i paesi che ospiteranno le future Cop dovranno impegnarsi a rispettare come parte dell’accordo di accoglienza”.

È troppo tardi per questo vertice, ma non è troppo tardi per tutti coloro che si preoccupano della giustizia climatica per mostrare solidarietà ai rivoluzionari che hanno ispirato milioni di persone in tutto il mondo un decennio fa, quando hanno rovesciato un tiranno.

Potremmo anche essere in tempo per spaventare Sisi con la prospettiva di un incubo verde per le pubbliche relazioni sul Mar Rosso, in modo che decida di aprire le porte di alcune delle sue prigioni prima che arrivino le telecamere. Perché, come ci ricorda Alaa Abd El-Fattah dalla disperazione della sua cella, non siamo ancora stati sconfitti.

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