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“I potenti non possono impedire alla primavera di sbocciare”: la vittoria di Lula alle elezioni presidenziali

Queste parole, pronunciate dal nuovo presidente del Brasile a conclusione dei suoi 580 giorni detenzione, ben si adattano all’esito, assolutamente non scontato, del secondo turno delle elezioni presidenziali.

Lula era stato condannato a poco più di dodici anni per corruzione in seguito ad una azione della magistratura dal forte sapore persecutorio ed era entrato in carcere nell’aprile del 2018, per poi essere scarcerato – dopo avere visto da dietro le sbarre il trionfo di Bolsonaro nell’ottobre del 2018  – nel novembre del 2019 e successivamente, nel marzo del 2021, scagionato per vizio di forma delle accuse per corruzione che il suo avversario gli ha rinfacciato durante tutta la campagna elettorale, facendone un proprio cavallo di battaglia.

Da allora, nonostante un percorso in salita, ha potuto candidarsi per la sesta volta alla presidenza del Paese, sostenuto da una coalizione di 9 partiti, tra cui il suo ex avversario – il conservatore ed ex governatore di Sao Paolo Geraldo Alckmin, che sarà suo vice – e risultare al primo turno del 2 ottobre di quest’anno il candidato più votato con il 48,3% dei consensi, contro il 43,2% del suo sfidante Bolsonaro.

I sondaggi, che al primo turno avevano clamorosamente fallito nelle previsioni, lo davano ben 15 punti più avanti del suo principale sfidante, ipotizzando in alcuni casi la sua vittoria già dal primo turno.

Al ballottaggio di questa domenica ha superato di poco più di due milioni di voti il suo sfidante (60,3 milioni contro 58,2) divenendo per la terza volta Presidente del Brasile, con il 50,9% dei consensi contro il 49,1%.

Lo aspetta un compito non certo facile, tenuto conto del fatto che i candidati “bolsonaristi” hanno ottenuto circa il doppio dei deputati “lulisti” alle elezioni di inizio ottobre – 99 cioè uno su cinque -, con un parlamento dominato dal Centrao, i governatori di alcune importanti regioni in mano alla destra, come Rio de Janeiro, Brasilia, Sao Paolo, Minas Gerais ed un paese politicamente polarizzato con una netta divisione nella geografia del voto: solo il Centro-Est è  per l’ex operaio metalmeccanico.

Bolsonaro ha dimostrato di avere uno “zoccolo duro” di consensi nonostante la sua disastrosa politica nei confronti delle classi subalterne (quasi 700 mila morti per il Covid), dell’eco-sistema amazzonico (in quattro anni è stato de-forestato un territorio grande quanto la Svizzera), dei popoli indigeni e della componente femminile della popolazione, e in generale per una torsione autoritaria complessiva con velleità golpiste.

Ha dietro di sé le alte gerarchie dell’esercito, l’agro-business, gli apparati di polizia e la maggioranza delle potenti chiese evangeliche, di fatto uno strumento del soft power statunitense in un paese dove un terzo della popolazione si dichiara evangelico ed il 65% di questi ha espresso la sua preferenza proprio per Bolsonaro.

Inoltre i suoi seguaci non disdegnano la violenza eversiva come strumento di lotta politica in un clima di pesante militarizzazione della società, e non sono da escludere colpi di mano in questo senso.

Giustamente l’ex sindacalista ha ricordato nel suo primo discorso dopo il risultato definitivo che è il popolo brasiliano il vero vincitore di questa vittoria elettorale, che è stata possibile grazie ad un grande mobilitazione democratica specie nell’ultimo mese di campagna.

Le priorità di Lula, che entrerà in carica il primo gennaio dell’anno prossimo, sono coloro che soffrono la fame: 33 milioni di brasiliani, oltre a 100 milioni di poveri. Un paradosso, come ha ricordato, in un paese che è il terzo produttore di cibo a livello mondiale ed il maggiore produttore globale di proteine animali.

La parità tra uomo e donna, la fine delle liste d’attesa per gli esami e le operazioni mediche, una adeguata politica per l’infanzia, far arrivare l’acqua e l’elettricità ovunque, alzare il salario minimo, ed assicurare 600 Reais ad ogni nucleo familiare, sono alcuni degli altri obiettivi dichiarati…

Il fondatore del PT ha promesso di farsi carico della questione indigena, tra l’altro istituendo un Ministero dei Popoli Originari, e di fermare la deforestazione dell’Amazzonia; in generale di essere all’avanguardia nelle politiche di contrasto al cambiamento climatico, perseguire una politica di re-industrializzazione e di investimenti pubblici, promuovere la cultura a livello statale.

Il nuovo presidente vuole rafforzare il Mercosur e la cooperazione a livello regionale, ma anche con l’Africa, marcando di nuovo il passo con una politica autonoma in un mondo che ha definito “multipolare” e che aveva contribuito a creare, essendo tra i fondatori dei BRICS.

Non possiamo che felicitarci per la vittoria di questo indomito combattente di 77 anni che conferma la variegata onda progressista che si è affermata nel corso degli ultimi anni in tutta l’America Latina.

Questi successi hanno di fatto posto le basi affinché il continente si affranchi dai desiderata dai Washington e dalle mire neo-coloniali della UE, ripristinando la sua sovranità e la sua indipendenza. Questi successi danno una “profondità”strategica” ai comunisti ed ai progressisti del Pianeta che vogliono voltare pagina rispetto a quel mix di austerità, autoritarismo e neo-liberalismo che le classi dominanti vorrebbero imporre.

Per riprendere in maniera corretta le parole di Lula: “i potenti possono uccidere una, due, tre rose ma non possono impedire alla primavera di sbocciare”.

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1 Commento


  • Pasquale

    L’ America Latina è la vera speranza per la costruzione del nuovo mondo.
    Vamos compagno Lula.

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