“Due anni fa, nessuno parlava di una seconda guerra civile americana. Oggi è un luogo comune”
Barbara F.Walter
Oggi si vota per le elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. Sono state le elezioni mid-term più costose della storia: 16.700 milioni di dollari secondo i calcoli dell’organizzazione Open Secret.
La spesa rende l’idea della posta in gioco, considerato che nel 2014 si erano spesi, al netto dell’inflazione, 14.000 milioni.
“Nessuna elezione di metà mandato ha visto tanto denaro come in quelle del 2022, nei livelli federali come in quelli statali”, conferma Sheila Krumholz.
Dei soldi spesi, poco meno di 2/3 sono andati nell’acquisto di spazi pubblicitari sui media.
Per avere una idea di quale sia il contenuto reale della competizione elettorale nella democrazia statunitense diamo qualche altro dato.
I multimiliardari hanno investito circa 1.000 milioni di dollari in questa campagna, cioè il 44% in più che in quella del 2018.
Le élite economiche, quindi, determinano il 7% delle donazioni, in una situazione in cui le “piccole donazioni” – che furono fondamentali nel 2008 per dare impulso alla campagna elettorale di Obama – hanno diminuito la loro consistenza.
I super-ricchi preferiscono i repubblicani: per ogni dollaro dato ai democratici, il doppio va al Grand Old Party. Dei primi 25 donatori, infatti, 18 vanno al Partito Repubblicano.
Il più generoso donatore in assoluto è comunque George Soros, che finanzia invece i democratici.
L’unica possibilità di invertire la tendenza per cui sono i soldi a determinare una vittoria, elettorale o meno, sarebbe la mobilitazione, ma il follow the money questa volta l’ha fatta da padrone.
É chiaro che la spinta alla mobilitazione che aveva portato alla sconfitta di Trump alle elezioni presidenziali non c’è più, anche perché Biden non è riuscito – e non ha voluto – dare corpo alle istanze più avanzate che provenivano dall’ala più progressista e che sarebbero state in grado di tradurre i bisogni espressi di una parte importante dell’elettorato che l’ha sostenuto contro The Orange Man.
Biden non è stato certo il “delegato politico” di quello che avevano espresso i movimenti che diedero filo da torcere a Trump durante la sua presidenza. Mobilitazioni come quella di Black Lives Matter, o del “nuovo movimento operaio americano”, in difesa dei diritti di genere e dell’ambiente, avevano sviluppato una nuova generazione di attivisti, poi largamente sostenitori di Bernie Sanders alle primarie per le presidenziali.
Dopo due tentativi fallimentari da parte dei progressisti alle primarie, l’ala centrista del Partito si è dimostrata – sì – piuttosto resiliente ed in grado di dettare l’agenda politica senza fare concessioni “a sinistra”, ma completamente inadatta a contenere l’espansione del trumpismo da ogni punto di vista.
Questo ha generato una profonda delusione che si è tradotta in disaffezione verso la politica elettorale in quella base di attivisti che, se mobilitati, sarebbero stati l’unica garanzia di salvezza da un disastro annunciato.
E non saranno i soldi in più spesi in campagna elettorale a limitare il danno.
Ne dà un quadro dettagliato Mathieu Magnaudeix, autore di un libro-inchiesta non tradotto in italiano sulla Generazione Octasio-Cortez, i nuovi attivisti americani, in un lungo contributo ripreso da Mediapart.
Rafael Shimunov, attualmente direttore di Athena, una coalizione di organizzazioni sindacali, intervistato dall’autore afferma senza mezzi termini: “Questa strategia spinge una generazione intera di giovani, e di giovani recentemente impegnatesi ad abbandonare la politica elettorale”.
Anche l’aver mobilitato gli ex presidenti Barack Obama e Bill Clinton nella campagna elettorale servirà a poco, perché quel minimo di “connessione sentimentale” sembra essere stata dilapidata.
Di parere contrario è Mark Hertsgaard che, sulle colonne di The Nation, si chiede appunto se la “Gen Z” salverà le elezioni di metà mandato per i democratici, sulla scorta della percezione di alcuni gruppi di giovani attivisti di base come March for Our Lives, Sunrise Movement, Gen Z for Change che, dal loro punto di vista, contestano “sul terreno” i sondaggi, citando l’impegno dei giovani e l’importanza di temi come la violenza da armi da fuoco, l’aborto ed il cambiamento climatico.
Il voto giovanile potrebbe essere il game changer, come sembra indicare l’alta partecipazione al voto anticipato e la sensibilità espressa dalle fasce giovanili per una serie di problemi.
“La verità”, ha affermato Bernie Sanders, “è che questi giovani sono la generazione più progressista nella storia di questo paese”.
Vedremo.
D’altra parte, è certo che l’assalto al Grand Old Party da parte di Trump è continuato, nonostante la sconfitta alle presidenziali, mantenendo intatto il suo consenso nella base del partito e non scalfita la sua egemonia politica.
Ha giocato un ruolo di primo piano nella selezione dei candidati repubblicani ed ha dettato i temi principali del dibattito su cui è riuscito a far breccia: la frustrazione rispetto all’inflazione galoppante, le paure di fronte ad una criminalità percepita in aumento dopo la pandemia, da risolvere con politiche law and order, e le ansie rispetto alla cosiddetta “immigrazione illegale”, da combattere tenacemente.
Tutto questo mantenendo alta l’attenzione su alcuni cavalli di battaglia come le presunte frodi elettorali del 2020, sposata da una parte rilevante di candidati repubblicani, che non vedono l’ora di esercitare il proprio revanscismo nei confronti di Biden, magari promuovendo il suo empeachment, se i numeri lo permetteranno.
La contro-narrazione democratica imperniata soprattutto sui diritti individuali e sui successi economici dell’amministrazione Biden (pochi in realtà) non sembra avere attecchito.
Tre sono i possibili scenari che si prospettano dopo l’ormai prossima lunga ed incerta notte elettorale.
Il primo, altamente improbabile, è che i democratici mantengano la maggioranza sia al Congresso che al Senato, e riescano perciò, mutatis mutandis, a replicare l’exploit elettorale nelle elezioni locali per i governatori dei singoli Stati, segretari di Stato, assemblee legislative locali e referendum.
In questo caso Joe Biden potrebbe continuare a promulgare delle leggi di alto profilo, come ha parzialmente fatto in questi due anni, come sulle infrastrutture o per il contenimento dell’inflazione.
Questa situazione “potrebbe permettergli di fare passare la sua legge sull’immigrazione”, afferma J. E. Branaa, intervistato da France24.
Come ricorda su The Guardian David Smith, altri temi importanti dell’agenda politica di Biden sono la possibilità di rendere legge federale l’interruzione di gravidanza – resa illegale dalla sentenza della Corte Suprema il giugno di quest’anno – riforma della polizia ed il diritto di voto sempre più messo in discussione dai repubblicani…
Molte sono ragioni rendono questa ipotesi piuttosto remota.
In primis una ragione storica: dal 1860 in poi 37 volte su 40 elezioni midterm svoltesi hanno avuto esito negativo per il presidente in carica.
A conferma di questa sequenza storica tutti i sondaggi relativi al Congresso prevedono che i repubblicani otterranno dai 10 ai 20 seggi in più alla Camera.
I democratici, invece, sarebbero favoriti al Senato, dove ora godono della maggioranza relativa solo grazie al voto di Kamala Harris, in una condizione di sostanziale parità (50 a 50, con due senatori eletti per Stato). FiveThityEight li da favoriti per il 67%.
Ma uesta sembra una previsione piuttosto ottimista, visto che – come nelle elezioni presidenziali del 2020 – la partita si gioca su una manciata di voti e che, stando ai sondaggi, il 69% degli statunitensi pensa che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Vedremo.
Altro dato da tenere conto è il fatto che dal 2021, secondo l’Instituto Brennan Center For Justice, in 21 Stati sono state approvate addirittura 42 leggi che hanno ristretto la possibilità di voto. Tra queste, 33 contengono almeno un provvedimento che sarà in vigore da queste elezioni midterm, in 20 Stati.
A questi si aggiungono le varie forme di restrizione pratiche, come l’incremento dell’annullamento di un maggior numero di bollettini di voto postale, la scelta della base repubblicana di fare da volontari ai seggi o le pressioni dei “pool watchers”.
Il secondo scenario è quello di un Congresso a maggioranza repubblicana ed un Senato a maggioranza democratica.
Biden governerebbe per decreto, come hanno fatto prima di lui gli altri presidenti, cercando di far avanzare i suoi progetti in politica estera, considerato che si tratta di una prerogativa costituzionale del presidente, continuando le scelte fin qui adottate.
Il Congresso però controllerebbe il budget, e bisogna ricordare che i nuovi eletti entrerebbero in carica con l’anno nuovo, costringendo Biden ad una corsa contro il tempo per cercare di limitare eventuali tagli alla spesa: per esempio per gli aiuti all’Ucraina.
Se i repubblicani vincono sia al Congresso che al Senato, oltre alla politica estera comunque minata, il Presidente potrebbe porre il suo veto alle leggi proposte dal parlamento.
Un veto aggirabile solo da un voto con una maggioranza qualificata dei 2/3 in ogni Camera.
Vista l’attuale configurazione delle elezioni di mid-term è comunque abbastanza improbabile che i repubblicani riescano a raggiungere i 2/3 dei seggi.
L’“impasse” darebbe però ulteriore slancio a Trump, mentre i repubblicani non esiterebbero a portare avanti una agenda “lacrime e sangue” nei confronti dei ceti popolari, delle “minoranze” etniche e dei diritti individuali, in tandem con l’attivismo reazionario della Corte Suprema.
Su qualsiasi scenario incombe peraltro una ipotesi non proprio peregrina, come lo scatenarsi della violenza nella guerra civile strisciante a cui stiamo assistendo.
I numeri sulla violenza politica riportati dal New York Times non sono proprio poca cosa.
Sono sintomi dell’implosione dell’impalcatura politica del sistema statunitense che può prendere una direzione violenta, come hanno dimostrato i fatti del 6 gennaio del 2021.
Un mondo in decomposizione tramonta irreversibilmente.
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