Le origini di un fallimento
E pluribus unum (in italiano “Dai molti uno”) è locuzione latina tratta dal poema Moretum, attribuito a Virgilio.
Nel testo del poema descrive il miscelarsi dei colori in uno solo (color est e pluribus unus).
Per il cittadino americano però, la massima ha un senso ed un’importanza completamente differenti: l’uso più noto della locuzione, infatti, è quello di motto nazionale degli Stati Uniti.
Un cenno storico
La scelta della frase risale al comitato che decise, nel 1776 all’inizio della guerra d’indipendenza americana, lo stemma nazionale e lì lo ritroviamo, inscritto in un nastro dorato tenuto dal becco dell’aquila dalla testa bianca al centro dello scudo, nonché su altre emissioni governative basate sullo stesso simbolo (per esempio sulle monete).
Fu ritenuto adatto ad indicare la difficile ricerca di un’unità a cui tendevano le tredici colonie americane.
Incarnava quindi uno degli obiettivi del conflitto: alla vittoria, dichiarandosi indipendenti dal Regno d’Inghilterra, i “molti” avrebbero proclamato la nascita di “una” Nazione.
La guerra per l’indipendenza americana durò dall’aprile 1775 al settembre 1783, e oppose le Tredici colonie nordamericane *, divenute successivamente il primo nucleo degli Stati Uniti d’America, alla ex madrepatria, il Regno di Gran Bretagna.
Solo nel 1778 gli Americani ebbero al loro fianco Francia e Spagna, quando la guerra iniziata come ribellione indipendentistica locale si trasformò in un conflitto più allargato tra le grandi potenze europee per il predominio sui mari e nei territori coloniali.
La Gran Bretagna invece poté rafforzare il suo corpo di spedizione in America, reclutando numerosi contingenti di truppe mercenarie tedesche, i cosiddetti Assiani.
Associando i fatti, tornano le immagini di decine di conflitti indipendentistici locali più o meno contemporanei, come le cosiddette “rivoluzioni colorate”, che nei decenni scorsi – dopo la fine della Guerra Fredda, e sull’onda della caduta del Muro di Berlino – continuano purtroppo a verificarsi in diverse parti del pianeta.
L’informazione mainstream le ha chiamate impropriamente rivoluzioni, per liberarsi dal giogo del tiranno di turno, in nome della “libertà”, quindi, di un valore imprescindibile e di un diritto di ognuno.
Sono più seriamente conflitti interni generati da interessi geo-economici ed eterodiretti da un neo colonialismo che come sempre cerca di darsi un volto “presentabile”, all’interno di un conflitto inter-imperialistico fra potenze che si va svolgendo ormai da tempo.
Una riflessione
La Rivoluzione d’indipendenza americana portava con sé un principio: le nuove istituzioni democratiche che sarebbero sorte da quel conflitto, avrebbero confermato i valori di libertà, eguaglianza e repubblicanesimo che in Europa avevano fin lì trovato solo espressione teorica. Quest’idea portava con sé un processo, esplicitato proprio in quel motto: e pluribus unum.
Solitamente quando si parla degli Stati Uniti ci si riferisce alla “nazione più potente del mondo”, o alla “nazione fondata sulla libertà e la democrazia”.
Il termine ed il concetto di “nazione” ha però diverse definizioni. Quella universalmente più accreditata proviene dal latino natio, (in italiano «nascita») e si riferisce ad una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche uniche, come il luogo geografico di nascita, la cultura (cioè la lingua, la religione, la storia e le tradizioni), l’etnia e, eventualmente (ma non sempre), uno Stato e un governo.
L’individuo che fa parte di quella comunità deve quindi possedere questi “requisiti” se si vuole definire quel territorio “nazione”. Ma soltanto i nativi, gli unici nati su quel territorio, possedevano ai tempi, queste caratteristiche. Non a caso ancora oggi vengono indicati anche come nazione indiana.
A quel punto i cosiddetti “Padri Fondatori”, che ne pianificarono lo sterminio, relegarono in soffitta quello che era l’obiettivo iniziale: la creazione di una nazione unica nel suo modello, federale, ma unita.
Quando, nel 1787, stilarono la Costituzione degli Stati Uniti, nel preambolo inserirono la parola “popolo”, non più “nazione”.
Secondo la definizione comune, la parola “popolo” nel suo significato più specifico è termine giuridico che indica l’insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di sovranità con uno Stato, titolari dunque di una sovranità che il più delle volte non viene esercitata in maniera diretta, ma delegata a uno o a più rappresentanti.
Il popolo perciò – in questa definizione – ha diritto di voto. Ma, nella Costituzione americana del 1787 furono esclusi dal suffragio i nativi americani, i neri, le donne, e perfino i bianchi che vivevano del loro salario o di lavori saltuari. Insomma, potevano votare solo i maschi bianchi e proprietari/padroni.
Anche il progetto di unificazione del popolo, venne così accantonato.
In questo frutto dell’albero avvelenato risiede un grande inganno: l’America è nata razzista e classista per Costituzione, ed il motto che ancora oggi la identifica – quel “E pluribus unum” – non è collegato né alla volontà di fondare una nazione unita, né tantomeno alla volontà di unificazione di un popolo, dal momento che si riferisce solo ad una parte del popolo stesso, quella che originariamente non era neanche nata su quella terra.
Non volendo ammettere la sconfitta dei propri obiettivi, quel popolo senza patria si immaginò simile a quello ebreo: aveva intrapreso un Esodo per sfuggire al giogo della corona britannica e aveva veleggiato verso una Terra Promessa dal proprio Dio, ed in suo nome l’aveva conquistata e poi l’avrebbe resa grande ed invincibile, compiendo così il suo mandato.
In fondo, molto di questo impasto ideologico è alla base del sogno americano – una scommessa che ben pochi riescono a veder realizzata – ma su cui si fonda lo stile di vita del suo popolo, quell’American way of life che nel XXI secolo ancora si identifica con i vecchi simboli, le vere icone su cui fu edificata l’America: la Bibbia, la Colt e la forca.
Riassumendo: l’unità di popolo per gli americani è imprescindibile, se vogliono completare il processo di creazione di una nazione.
Ma non è nelle corde di chi governa da sempre questo paese: i white anglosaxon protestant (Wasp).
Questo il nodo.
Nei secoli, ma soprattutto ora.
Lo stato dell’Unione
Il dovere di tenere unito il popolo americano spetta al presidente, il cosiddetto Father of The Country secondo l’appellativo che venne dato nella storia USA, prima a George Washington e poi dopo di lui ad Abraham Lincoln e Franklin D. Roosevelt.
Chiamare Donald Trump padre del paese, del suo popolo, sarebbe come pronunciare una bestemmia. Il compito del presidente dicevamo, non è quello di dividere ma di unire il proprio popolo; non aizzare, provocare, ma mediare, mitigare. Creare unione.
L’assimilazione delle diverse culture ed etnie, sotto ideali e valori comuni contribuisce sempre ad unificare un paese ma non è nella cultura del self made man, di cui Trump incarna tutte le caratteristiche peggiori.
Inoltre in questo momento non paga. E allora si continui ad inseguire l’american dream.
Il presidente in carica continua a spaccare l’America in due, tradendo anche gli apparenti ideali e valori dei Padri Fondatori che sono nel suo mandato.
Ha fatto della segregazione e della conseguente emarginazione di particolari gruppi etnici (neri, ispanici, nativi) la sua bandiera.
Continua ancora oggi a far leva su sentimenti e valori oscurantisti, i più biechi del patriottismo americano, quelli della peggiore tradizione wasp.
E questi sono sentimenti e valori divisivi; lui però deve finire il suo lavoro di disunione, e va avanti.
Il suo popolo è bianco, anglosassone, e protestante. Wasp appunto qualunque sia la latitudine che abita. Di fatto però, finisce per stuzzicare l’anima razzista radicata nell’America profonda ed ereditata inconsapevolmente da ciascun americano moderno proprio da quei pionieri, spaventati dalla presenza dell’”altro”.
Ed allarga il suo bacino elettorale.
Minaccia brogli elettorali nel voto per posta, chiede aiuto a milizie armate di estrema destra e ricorda agli americani che il II emendamento è sempre nella Carta dei diritti, aspetta solo di essere onorato.
La popolazione è in balia di sé stessa, continua a ricevere messaggi contraddittori troppo spesso, anche sulle soluzioni per uscire dalla pericolosa pandemia che ha diviso ulteriormente gli Stati Uniti ed il mondo; non ha la lucidità per comprendere che superare le difficoltà del momento che attanagliano l’America sarebbe meno drammatico di quello che gli vogliono far credere: rispettare il concetto che discende da quel motto sullo stemma insomma, essere un solo corpo nella pluralità, sarebbe sicuramente un buon inizio. E liberarsi del tiranno.
Donald Trump, invece fin dalla campagna elettorale del 2016, ha usato la divisione come strategia politica. Il fastidio verso l’Europa, il disprezzo verso gli avversari democratici, il rancore verso i media hanno un comun denominatore: la ricerca di un oggetto ansioso, di un nemico da additare ai sostenitori; così da rimanere in sella.
A che punto è la notte
Puntuale, come un ladro nella notte, è arrivato a dare una mano a Trump il “provvidenziale” covid-19.
La tarantella sul suo contagio ha rispettato tutti i canoni di un modello di vita e di uno stile molto “americano”, una narrazione che è nell’immaginario di tutti, non solo dei suoi sostenitori.
Ha sbeffeggiato il suo nemico, è stato colpito, l’ha combattuto considerandolo una nullità e con l’aiuto della propria forza e di Dio lo ha debellato. I segni che ha sul proprio corpo, più o meno evidenti, mostrano comunque il cadavere del nemico. E di nuovo tornano gli elementi tradizionali e fondanti della comunità americana: Bibbia, Colt e forca.
Esibire il suo corpo ferito, ma in condizioni tali da poter continuare a combattere per tornare alla guida del paese è diventato merce elettorale che potrebbe permettergli purtroppo di passare all’incasso con facilità.
I dati di ieri ci dicono che a tre settimane dalle urne, hanno già votato per posta circa 10 milioni di americani (nella tornata elettorale precedente il totale si attestava a 1 milione e seicentomila) e che il candidato democratico, in base ai sondaggi sembrerebbe in testa, anche se di poco.
Non ci interessa fare previsioni elettorali, dal momento che la forte accelerazione che ha dato The Donald alla campagna per la presidenza sta toccando temi e corde che emotivamente colpiscono di sicuro più cuori e menti di quelli del suo consueto elettorato di riferimento.
Gli effetti invece potrebbero diventare devastanti, sia che la tornata elettorale venga vinta da Trump che da Biden.
Il bubbone di una possibile guerra civile, diversa da quella di secessione che vide contrapposto il nord contro il sud, bensì interna a ciascuno Stato, si profila all’orizzonte.
Trump ha incassato il dividendo elettorale, quattro anni fa. Ma ha lasciato macerie sul campo, e continua a lasciarne. Due Americhe combattono una guerra civile sotterranea: una bianca, libertaria, sospettosa, arrabbiata; l’altra multicolore, liberale, frustrata, furiosa.
Questa continua divaricazione porterà l’America nel baratro, o come è successo in altre occasioni, nei decenni scorsi, gli Stati Uniti troveranno una exit strategy ragionevole.
La corda è troppo tesa, la notte è oscura ed il mancato rispetto dei valori e degli intendimenti dei Padri Fondatori calpestati una volta di troppo.
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