Domenica 19 dicembre, il Ministero della Salute peruviano (Minsa) aveva reso noto che il numero dei morti durante le manifestazioni che si sono sviluppate a livello nazionale dopo la destituzione di Pedro Castillo il 7 dicembre erano saliti a 25.
9 sono stati assassinati nel dipartimento di Ayachuco, 6 a Apurímac, 3 a Cusco, 3 a Junín, 3 a La Libertad ed uno ad Arequipa.
I feriti, o meglio le persone che ufficialmente sono ricorse alle cure mediche, erano – sempre al 19 dicembre – 287. Le organizzazioni di base denunciano inoltre sparizioni, cioè veri e propri desaparecidos, detenzioni arbitrarie e torture.
Un bilancio che si è ulteriormente aggravato in questi ultimi 10 giorni, giungendo a 28 deceduti.
Alcuni media latino-americani, come Panamericana Televisión e América Televisión, vista la censura di fatto su questa mattanza, sono stati oggetto delle proteste di alcuni artisti.
“Per questi mezzi di comunicazione i nostri 28 morti non valgono nulla. I media venduti sono responsabili”, era scritto su un cartello durante questa protesta.
Secondo un sondaggio condotto dall’Istituto di Studi Peruviani (IEP) il 58% dei peruviani disapprova il comportamento dei media, una percentuale che sale al 77% nella macro-zona del Sud.
In realtà una lunga scia di sangue ha accompagnato la repressione dopo la fine – solo formale – della dittatura di Alberto Fujimori: in questi ultimi 20 anni, più di 180 uccisi nelle proteste popolari, dalla presidenza Toledo a quella di Boluarte.
Una parte consistente della popolazione chiede le dimissioni della presidente usurpatrice Dina Boluarte e la cacciata dell’esecutivo, che nel frattempo ha subìto un “rimpasto” dopo le dimissioni di due ministri. Mercoledì scorso, il nuovo Gabinetto di Governo, ha prestato giuramento.
A capo del nuovo esecutivo, come nuovo primo ministro, è stato nominato l’ex ministro della difesa, Luis Alberto Otárola, e con la proclamazione dello stato d’emergenza – giovedì 14 dicembre – gli ha conferito un ruolo fondamentale nell’esecutivo.
Una sorta di “promozione” per la maniera spregiudicata con cui ha gestito la repressione di piazza.
I manifestanti chiedono l’indizione delle elezioni anticipate il prima possibile e non nell’aprile del 2024, come è stato deciso dal parlamento peruviano in seduta plenaria.
Martedì 20 dicembre, 94 deputati hanno votato a favore, solo 25 hanno votato contro, e 5 si sono astenuti. Il venerdì precedente era stato infatti bocciato il progetto di riforma che avrebbe permesso le elezioni nel dicembre dell’anno entrante.
Prima di tale decisione un sondaggio di Ipsos Perú, reso noto il 20 dicembre, aveva rivelato che i 3/4 degli intervistati era favorevole ad elezioni anticipate: il 62% preferivano che venissero realizzate prima di altre riforme politiche ed elettorali, il 23% era propenso ad andare elezioni anticipate nelle condizioni attuali.
É interessante notare – a proposito di peso della “narrazione tossica” dei media – che poco più della metà degli intervistati pensasse che le iniziative messe in atto durante le proteste, come i blocchi alla circolazione viaria, l’invasione delle aree aereo-portuali, gli attacchi alle imprese e ai commissariati, fossero state organizzate da “gruppi radicali”, mentre il 37% le considerava proteste spontanee.
Insieme alla indizione di un nuovo voto, la popolazione è per eleggere una Assemblea Costituzionale, lo scioglimento del Congreso e per la liberazione di Pedro Castillo.
Quest’ultimo è attualmente in “custodia cautelare preventiva” per 18 mesi, mentre la famiglia si trova in Messico, dove le è stato concesso asilo politico, chiesto anche dallo stesso presidente ‘sequestrato di fatto’ dopo la sua destituzione.
Si è aperta nei giorni scorsi una sorta di guerra diplomatica tra Messico e Perú, con l’ambasciatore messicano dichiarato persona non grata, cui sono state date 72 ore di tempo per lasciare il paese andino.
Il Messico di L. Obrador formalmente non ha rotto le relazioni diplomatiche con il Perù, ma è chiaro che i rapporti sono ai minimi termini da quando, insieme ad altri paesi latino-americani governati da coalizioni progressiste – Colombia, Bolivia ed Argentina, che non riconoscono Dina Boluarte come presidente – si sono pronunciati contro il golpe del 7 dicembre.
La repressione è frutto anche dello stato d’emergenza che Dina Boluarte, ha promulgato per 30 giorni dalla metà di dicembre, e di un clima d’odio scatenato dalle élite peruviane con l’ausilio dei media mainstream. L’80% degli organi d’informazione “privati” è detenuto da un solo proprietario, che ha in mano tra l’altro anche i maggiori quotidiani, tra cui “El Comercio”.
Con una chiaro stravolgimento semantico tra “aggressore ed aggredito”, la colpa delle morti è stata attribuita ai manifestanti stessi – e non alla polizia, coadiuvata dall’esercito – in un brodo narrativo secondo il quale dietro le proteste ci sarebbero vari deus ex machina: narcotrafficanti, “terroristi” (sebbene l’attività guerrigliera sia da tempo scomparsa), e la “sinistra”.
Venerdì scorso Dina Boluarte ha affermato espressamente che “la sinistra” del paese andino “cerca il caos, l’assenza di governo, l’anarchia”.
Ha accusato anche l’ex primo ministro durante la presidenza Castillo, Betssy Chávez, dicendo che l’unica che deve una risposta al paese è lei, e che non si ritiene responsabile “di questa crisi politica”.
Con questa narrazione di fatto si giustifica l’opera di vera e propria epurazione tra le fila dei funzionari locali, oltre all’opera di repressione diretta delle organizzazioni di base e dell’opposizione in genere.
Il 26 dicembre sono stati infatti rimossi 312 sub-prefetti distrettuali in 23 regioni, che erano stati nominati da Castillo nei circa 18 mesi del suo mandato, con l’accusa di essere stati attivi nella partecipazione delle manifestazioni.
Ben 46 sub-prefetti sono stati sostituiti ad Ayacucho, 34 a San Martín, 33 a Junín, 31 a Puno e 19 a Cajamarca.
Intanto le proteste nel paese continuano.
Nella regione di Puno, la proposta di una huelga indefinida è stata fatta propria nei giorni scorsi dai dirigenti delle organizzazioni delle 13 province della regione meridionale, e culminerà con una marcia a Lima il 4 di gennaio.
Nell’Amazonia peruviana, 5 giorni fa, i leader indigeni si sono dichiarati in stato di agitazione permanente: “Allertiamo l’Esercito e la Polizia che non ci provochino, perché stiamo sul nostro territorio”, ha dichiarato una líder indigena dell’organizzazione Aidesep.
Il nuovo corso politico a Lima non ha fatto che aumentare la già esistente frattura tra la capitale e una parte consistente del Paese.
Il Fredicon – Frente de Defenza del Cono Norte de Arequipa – attraverso il suo presidente Felipe Domínguez una settimana fa ha affermato: “Se non ci tengono in minima considerazione, che senso ha dare i nostri soldi a Lima? Assassinano la nostra gente quando protestiamo e siamo pacifici”.
Ha anche proposto la creazione di una sorta di “Repubblica del Sud” mediante l’unione di varie regioni come Puno, Cusco, Tacna, Moquette, Ayacucho, Madre de Dios, Apurímac. Regioni che non a caso sono tutte protagoniste della protesta.
Una proposta che è stata recentemente ribadita in un recente intervento ripreso da vari organi di informazione comunitari – tra cui la pagina di Perú Libre -, ribadendo le ragioni generali delle mobilitazioni attuali, tra cui il riconoscimento del legittimo presidente Pedro Castillo.
Al centro delle preoccupazioni vi è la volontà di prendere in mano le immense risorse naturali che vengono alienate a beneficio di una borghesia compradora e delle multinazionali del settore, che anche recentemente hanno ricevuto un trattamento di favore dall’esecutivo della Boluarte.
É chiaro che con il golpe della destra oligarchica si è nuovamente aperto un abisso tra le élite al potere ed il Perú profondo, in una situazione di insurrezione di massa che non sembra far intravedere alcuna soluzione conciliatoria.
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