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Il Burkina Faso chiede l’allontanamento dell’ambasciatore francese

La Francia sta decisamente perdendo la sua influenza sull’Africa. Le autorità di transizione del Burkina Faso non vogliono più avere a che fare con l’ambasciatore francese Luc Hallade.

Secondo una fonte francese, Olivia Rouamba, Ministro degli Affari Esteri burkinabé, ha inviato una lettera ufficiale al Quai d’Orsay alla fine di dicembre chiedendo di “cambiare interlocutore“.

La richiesta arriva dopo che all’inizio di luglio l’ambasciatore Hallade aveva scritto una lettera indirizzata ai deputati francesi secondo cui la crisi della sicurezza in Burkina è “in realtà una guerra civile”, aggiungendo che “parte della popolazione si ribella allo Stato e cerca di rovesciarlo”.

Pochi giorni dopo, durante la commemorazione della festa nazionale francese a Ouagadougou, il diplomatico aveva insultato alcuni utenti sul web definendoli degli “utili idioti” che accusavano la Francia, senza prove, di essere coinvolta nella lotta al terrorismo nel Sahel.

Descrivendo queste osservazioni come “scortesi” e “ostili”, il governo del Burkina Faso aveva protestato vigorosamente con le autorità di Parigi e alcuni cittadini avevano chiesto la sua espulsione.

A metà dicembre, due cittadini francesi sono stati accusati di spionaggio ed espulsi dal Paese africano.

Se confermata, la notizia rappresenterebbe dunque soltanto l’ultimo passo nella rottura diplomatica tra Burkina Faso e Francia che va avanti ormai da diversi mesi, specialmente dopo il colpo di Stato dello scorso 30 settembre – il secondo avvenuto in Burkina nell’ultimo anno – che ha portato al potere il capitano Ibrahim Traoré.

Da allora sono state organizzate diverse manifestazioni contro la presenza di militari francesi nel paese sfociate anche in un assalto contro l’ambasciata francese.

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3 Commenti



  • Gianni Sartori

    Le scorie elettroniche a base di mercurio, piombo, cadmio, arsenico, fosforo…
    rischiano di trasformare l’Africa in una immensa discarica.Smantellata in Spagna una rete criminale che trasportava tonnellate di scorie elettroniche pericolose. Prima alle Canarie e poi sul continente.

    QUANDO UNA TELEFONATA NON SALVA UNA VITA…

    Gianni Sartori

    Mai posseduto uno di quelli arnesi infernali che di volta in volta vengono chiamati “telefono portatile”, “cellulare”, “smartphone”…o Dio sa cos’altro.

    Anni fa, ricordo, una ispettrice dell’Inpgi mi segnalava che – stando alle sue ricerche – ero l’unico giornalista iscritto all’ordine (solo pubblicista, tranquilli) privo di tale “indispensabile” aggeggio. Non ho mai avuto modo di verificarlo, ma comunque, se non proprio unico, di sicuro rappresentavo un caso raro.

    Invece – e purtroppo – nemmeno io sono riuscito a sfuggire al computer. Almeno per ora, ma non dispero (mi sto esercitando con i fumetti, carta e matita).

    Negli anni novanta ero perfino riuscito a convincere il grande Vincenzo Sparagna (direttore di “Frigidaire”) che aveva continuato ad accettare i miei articoli su cartaceo e inviati per posta.

    Al contrario con Paolo Finzi (A Rivista) non ci fu verso “Se vuoi che continuiamo a pubblicare le tue cazzate (bontà sua! nda) ce le devi inviare per e-mail”. Idem con il giornale diocesano e quindi alla fine (forse sbagliando) accettai il compromesso. Ne recuperai – a gratis – uno di usato, scartato da un parente, entrando mio malgrado nella Modernità.

    Detto questo, mi sento autorizzato, almeno in parte, a (ri)sollevare la polemica sulle quantità industriali di cellulari che vanno a inquinare il pianeta in generale e l’Africa in particolare. Un Continente già pesantemente penalizzato in fase estrattiva (vedi per es. il cobalto, il litio…vedi quanto avviene nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo…ne riparleremo)*.

    Come ha recentemente ricordato Damien Ghez, giornalista e disegnatore originario del Burkina Faso “le scorie elettroniche contengono mercurio, piombo, cadmio, arsenico e fosforo”. Sostanze nocive, inquinanti che richiederebbero quantomeno “un processo di decontaminazione da parte di imprese specializzate”. Ma questo evidentemente non rientra nei piani (e nei profitti) delle società occidentali che spesso “agiscono in disprezzo delle leggi e dell’impatto ambientale”.

    Impatto in larga parte scaricato su quei Paesi del (cosiddetto) Sud del Mondo, ridotti al rango di immensa discarica planetaria.

    L’occasione per l’intervento del giornalista africano è venuta da un comunicato del Ministero delle finanze spagnolo. Il 3 gennaio è stato annunciato lo smantellamento operato dalla Guardia Civil di una organizzazione criminale che in soli due anni aveva esportato in Africa circa cinquemila tonnellate di “scorie elettroniche pericolose” (in gran parte costituite da cellulari obsoleti). Guadagnandoci sopra qualcosa come un milione di euro e mezzo. Falsificando i documenti sulla provenienza e sul trattamento (in genere presentandoli come “articoli di seconda mano riutilizzabili”) in un primo tempo i carichi tossici venivano spediti alle Canarie. Da qui, per la precisione da Tenerife, proseguivano via mare verso la Mauritania, il Ghana, la Nigeria o il Senegal.

    Non è una novità naturalmente. Il caso della Probo Koala che trasportava sostanze tossiche con destinazione Abidjan risale al 2006. Ma forse non ne abbiamo tratto le doverose conclusioni a livello di “principio di precauzione”.

    Tanto è vero che periodicamente viene riproposta  la tesi per cui le migliaia di tonnellate di televisori, telefoni e strumenti elettronici spediti in discarica, in realtà rappresenterebbero una risorsa, “una ricca fonte di metalli”. E che “l’estrazione delle scorie elettroniche costituisce in sé stessa un buon affare”. In particolare per l’oro e il rame, secondo vari studi. In questo genere di riciclaggio la Cina sarebbe all’avanguardia (per lo meno a livello di sperimentazione), seguita da Stati Uniti, Unione Europea, Australia e Giappone. Oltretutto, in quanto automatizzabile, richiederebbe molto meno mano d’opera rispetto all’attività mineraria tradizionale.

    Sarà, ma quello a cui si assiste è – per dirne una – la commercializzazione ogni anno di nuovi modelli di smartphones sempre più “performanti”. Nella totale indifferenza (“sconnessione” ?) da parte degli entusiasti consumatori seriali per la relazione tra l’acquisto del feticcio e le conseguenze ambientali e sociali così innescate.

    Come ricordavano gli Amici della Terra “perfettamente e completamente inseriti nei processi economici della mondializzazione, gli smartphones compiono quattro volte il giro del mondo prima di arrivare nei nostri magazzini e nei negozi”. Calcolando l’estrazione delle materie prime, la fabbricazione dei componenti, l’assemblaggio e la distribuzione.

    Ed è ormai risaputo che in ogni fase della loro esistenza (dall’estrazione alla dismissione) tali aggeggi sono causa di gravi danni ambientali in ogni parte del pianeta.

    Elencando alla rinfusa “violazioni dei diritti umani, esaurimento di risorse non rinnovabili, sostanze tossiche rilasciate nella biosfera, emissione di gas con conseguente effetto serra…

    Abbiamo a che fare con una minaccia incombente, uno stillicidio nei confronti dell’ambiente, della biodiversità e dell’umanità. Se la maggior responsabilità ricade ovviamente sul “Nord” del mondo, non per questo – ci avvisa Damien Ghez – possiamo evitare di identificare i complici nativi che accettano di ricevere quelle mercanzie mortifere.

    A conclusione devo informare i miei soliti sei o sette lettori affezionati che attualmente non sono più “l’unico – per quanto solo presunto – giornalista iscritto all’Ordine privo di cellulare”.

    Ma solo perché nel frattempo ho restituito la tessera tornando allo stato di puro e semplice free-lance.

    Gianni Sartori


  • Gianni Sartori

    FORSE SOTTOVALUTATA LA PENETRAZIONE TURCA IN AFRICA. TRA VENDITA DI ARMAMENTI E INGERENZE POLITICHE, ANKARA SI FA STRADA APPROFITTANDO TRA L’ALTRO DELLE DIFFICOLTA’ INCONTRATE DA PARIGI NEL SAHEL.

    MOLTO AMBITI I DRONI GIA’ SPERIMENTATI IN ROJAVA, BAKUR, NAGORNO KARABAKH…

    ERDOGAN L’AFRICANO

    Gianni Sartori

    Mentre sulla penetrazione di Pechino in Africa (avviata già da tempo, quasi una scelta obbligata, strategica per la Cina) si spendono parole – anche a sproposito – meno evidente (almeno stando ai media) appare quella di Ankara. Nonostante sia attiva quasi da un ventennio. Tanto che se ancora nel 2009 aveva in Africa solo 12 ambasciate, attualmente sono salite a 43. E quasi altrettante sono le metropoli africane dove fa scalo la Turkish Airlines.

    Tornando solo per un momento alla Cina, prendeva l’avvio il 9 gennaio la visita africana di Qin Gang, ministro degli Esteri cinese. Durata prevista, una decina di giorni. Facendo tappa in Etiopia, Angola, Egitto, Benin e Gabon (non necessariamente in quest’ordine). Tra gli incontri previsti, Moussa Faki Mahamat, presidente della commissione dell’Unione africana e Ahmed Aboul Gheit,
    segretario generale della Lega araba.

    Lo aveva preceduto di un giorno, sbarcando in Sudafrica, (dove ha inaugurato il nuovo Consolato generale) quello turco Mevlut Cavusoglu. Per poi continuare con Zimbabwe, Ruanda, Gabon, Sao Tomé e Principe (ancora non necessariamente in quest’ordine).

    Il partenariato, la cooperazione con i Paesi africani per Ankara si conferma essenziale, di primaria importanza.

    Anche in Paesi poco ambiti come la Somalia dove la Turchia è attivamente presente da oltre un decennio con investimenti, sia nella realizzazione di infrastrutture che fornendo addestramento militare contro al-Shabaab (oltre a mantenere scali permanenti a Mogadiscio per la compagnia di bandiera). Attualmente i soldati turchi sono presenti, oltre che in Somalia (base militare di Camp Turksom), in Mali (dove Cavusoglu è stato tra i primi a incontrare il golpista Assimi Goita), in Centrafrica e a Gibuti. Oltre ovviamente alla Libia (ma questo è risaputo).

    E’ anche possibile che Erdogan stia cercando di riempire con le proprie forze militari il vuoto lasciato da Parigi con la conclusione dell’Operazione Barkhane nel Sahel.

    Del reato ancora cinque anni fa Ankara aveva messo a disposizione dei G5 ((Burkina Faso, Mauritania, Mali, Ciad e Niger), in sofferenza a causa dell’estremismo islamico, cinque milioni di dollari. Siglando inoltre accordi in materia di difesa con Nigeria, Togo, Senegal e Nige.

    Comunque significativa (in generale) la crescita accelerata delle esportazioni in Africa di armamenti turchi. Dalle armi leggere e pesanti a blindati, carri armati,equipaggiamento navale, elicotteri armati e – ovviamente – tanti droni, sia armati che di sorveglianza. Analogamente al settore aerospaziale. Con prezzi concorrenziali rispetto ai fornitori tradizionali (Cina, Francia Russia, Stati Uniti…) e soprattutto senza tante pastoie burocratiche inerenti ai diritti umani. Per cui se nel 2020 si parlava di circa ottanta milioni di dollari, oggi siamo a oltre 460 milioni.

    Armi che solo in parte servono ai governi africani (sempre più in via di militarizzazione, almeno una quindicina gli acquirenti africani di carri armati turchi) per contrastare l’avanzata jihadista o il diffuso banditismo (giustificazione ufficiale per l’aumento delle spese militari), ma anche per reprimere le insorgenze etniche e sociali.

    E questo il caso dell’Etiopia accusata di aver impiegato i droni turchi TB2 (meno costosi e più facili da manovrare rispetto a quelli israeliani e statunitensi) contro gli insorti del Tigray. E qualcosa del genere si teme possa accadere in Nigeria a danno delle popolazioni indocili del Delta. Del resto erano droni con la garanzia, in quanto lungamente sperimentati in Rojava e Bakur contro i Curdi e in Nagorno Karabakh contro gli Armeni.

    Ma l’attivismo di Ankara non si limiterebbeal piano militare e a quello economico. Non mancano infatti anche tentativi, ambizioni di esercitare una certa influenza (“egemonia” ?) sul piano culturale. In senso lato, ovviamente. Pensiamo per esempio allo sport in generale e al calcio in particolare. Tanto che Erdogan si è spinto a definire la Turchia una “nazione afro-eurasiatica”.

    Non tutto procede sempre liscio tuttavia. Quando l’anno scorso, in febbraio, Erdogan era sbarcato in Africa (in compagnia di ben sei ministri), aveva in progetto di visitare, oltre a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo) e Dakar (Senegal, dove la Turchia è presente da almeno un decennio nel settore energetico, finanziario, telecomunicazioni, miniere, industria tessile…), anche Bissau (Guinea-Bissau). Ma questa aveva dovuto saltarla rientrando di corsa in Turchia per assistere (da Ankara, in video conferenza) alla riunione d’urgenza della Nato (vedi la guerra in Ucraina). Viaggio evidentemente nato sotto una cattiva stella. A Dakar era improvvisamente deceduto per infarto Hayrettin Eren, capo della sicurezza.

    Gianni Sartori

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