Tra tutte le grida eccitate che sono riecheggiate nella marea rossa che ha invaso Brasília durante l’insediamento di Luiz Inácio Lula da Silva (noto come Lula) come presidente brasiliano il 1° gennaio 2023, la più significativa – e impegnativa, soprattutto dal punto di vista istituzionale del nuovo governo – è stata la richiesta di “nessuna amnistia!“.
La folla che scandiva queste parole si riferiva ai crimini perpetrati dalla dittatura militare in Brasile dal 1964 al 1985 e ancora impuniti. Lula ha fatto una pausa nel suo discorso, per far sentire le voci, e ha proseguito con un messaggio forte ma moderato sulla responsabilità.
La moderazione di Lula dimostra il suo rispetto per i limiti civici dell’esecutivo, in netto contrasto con la nozione di statalismo dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro. Dopotutto, una delle caratteristiche che ci permettono di qualificare correttamente il “bolsonarismo” come fascismo è la deliberata fusione tra l’esercizio istituzionale del potere e la militanza contro-istituzionale.
Come presidente, Bolsonaro è andato oltre la commistione di questi ruoli; ha occupato lo Stato in costante opposizione allo Stato stesso. Ha costantemente attribuito la sua inettitudine come leader alle restrizioni imposte dalle istituzioni democratiche della Repubblica.
Mentre Bolsonaro proiettava un’immagine di uomo forte davanti alle telecamere, che alla fine lo ha aiutato a scalare il potere, ha mantenuto un basso profilo nel Congresso e il suo mandato congressuale lungo tre decenni è una testimonianza della sua irrilevanza politica e amministrativa.
Il suo debole esercizio del potere ha rivelato la sua inadeguatezza come leader quando ha finalmente assunto la carica di presidente. Bolsonaro ha raggiunto la notorietà quando ha votato per l’impeachment dell’ex presidente Dilma Rousseff nel 2016.
Prima di votare, Bolsonaro ha colto l’occasione per rendere omaggio al colonnello Carlos Alberto Brilhante Ustra, “condannato per tortura” durante la dittatura militare, che ha scherzosamente definito “il terrore di Dilma Rousseff!“.
Ustra era stato responsabile della tortura sistematica dell’ex capo di Stato quando lei, allora giovane guerrigliera marxista, era imprigionata dalla dittatura.
Da quel giorno fino all’ultima apparizione pubblica di Bolsonaro – dopo la quale è fuggito dal Paese per dirigersi a Orlando, in Florida, prima dell’insediamento di Lula – l’unica opportunità che ha avuto di mettere in scena il suo personaggio elettorale è stata quella di istigare i suoi sostenitori con discorsi incendiari.
Questa combinazione ha portato a un governo impotente, gestito da qualcuno che ha incoraggiato i suoi sostenitori a fare il tifo per lui usando il ridicolo soprannome macho “Imbrochável“, che si traduce in “imperturbabile“.
Appoggiando la necessità di responsabilità, rispettando la solennità della presidenza e consentendo ai cittadini di chiedere “nessuna amnistia“, Lula ripristina una certa normalità nella dicotomia esistente tra rappresentante e rappresentato nel quadro di una democrazia liberale borghese.
Un piccolo gesto, ma che contribuirà a stabilire la fiducia istituzionale necessaria affinché il fascismo possa essere esaminato. Ora la palla è nel campo della sinistra organizzata; l’urgenza e la radicalità della responsabilità dipendono dalla sua capacità di consustanziare teoricamente e politicamente lo slogan “nessuna amnistia“.
Nessuna amnistia per chi? E per cosa? Che tipo di giustizia dovrebbe essere servita ai nemici della classe operaia?
All’ex ministro della Sanità che, dichiarandosi esperto di logistica, ha trasformato Manaus, la capitale di Amazonas, in un “laboratorio di test sull’immunità di gregge” per far fronte al collasso del sistema sanitario durante il picco dell’epidemia di COVID in Brasile.
All’ex ministro dell’Ambiente che ha sancito la brutale colonizzazione delle terre indigene modificando la legislazione ambientale.
A un governo che ha sostenuto l’espansione dell’accesso dei civili ad armi di livello militare; al produttore nazionale di armi che ha avallato tale aberrazione politica e promosso la vendita di armi; alla compagnia di assicurazione sanitaria che ha condotto test antidroga non autorizzati su cittadini anziani, sposando il motto “la morte è una forma di scarico“.
Allo stesso Bolsonaro che, tra i tanti crimini, ha deciso di negare ripetutamente la scienza e di pubblicizzare l’idrossiclorochina e l’azitromicina come cure per il COVID-19.
Al cancelliere che ha usato l’Itamaraty (l’equivalente brasiliano del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti) per marginalizzareare intenzionalmente il Brasile nella comunità internazionale.
Ai proprietari dei media che hanno avallato o tollerato tutta quella misantropia, sbiancando la retorica fascista e offrendo un megafono per amplificare il razzismo, il sessismo, la fobia per gli LGBT e, alla base di tutto, il brutale classismo.
L’elenco potrebbe continuare. Ci sono così tanti crimini, così tanti individui e società delinquenti e così tante vittime – a partire dalla morte di persone innocenti a causa del COVID e dal trauma subito dalle loro famiglie, per poi estendersi a tutte le popolazioni vulnerabili: Indigeni, popolazione nera, maroons e LGBTQIA+ – che è necessaria un’agenzia dedicata che indaghi e persegua tutti.
Forse la sostanza che dobbiamo iniettare nel grido “niente amnistia” è l’istituzione di un tribunale speciale. Come suggerito dal professor Lincoln Secco, dovrebbe essere il Tribunale di Manaus, dal nome della città che è stata usata come terreno di prova per la propaganda no-vax di Bolsonaro, dove i pazienti sono stati lasciati morire al culmine della pandemia COVID.
E si spera che il Tribunale di Manaus, osservando tutti i riti, tutta la civiltà e tutti i requisiti legali, sia in grado di portare al risultato storico che l’Assemblea costituzionale del 1988 non è riuscita a raggiungere: chiudere le porte delle istituzioni brasiliane al fascismo, per sempre.
* da Globetrotter
Gabriel Rocha Gaspar è un attivista e giornalista marxista brasiliano, con un master in letteratura conseguito presso l’Università Sorbonne Nouvelle Paris 3. Per cinque anni è stato reporter e ha lavorato in Brasile. Per cinque anni è stato reporter della radio pubblica francese RFI e ha lavorato come corrispondente per gli affari esteri per diversi media brasiliani. Attualmente è editorialista di Mídia Ninja.
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Gianni Sartori
La tragica vicenda (possiamo dire il martirio ?) di Cipriano Martos è giunta all’epilogo. Dopo cinquant’anni sono stati ritrovati i resti del militante antifranchista torturato e assassinato nel 1973.
CIPRIANO MARTOS NON E’ PIU’ “ DESAPARECIDO”
Gianni Sartori
Di Cipriano Martos mi avevano parlato alcuni catalani (indipendentisti di sinistra: Crida, Men, MdT…) di Sabadell nei primi anni ottanta. Lo avevo quindi citato in alcuni articoli dedicati alla repressione franchista e nella ricostruzione della vicenda di Puig Antich. Invece il piccolo volume a lui dedicato (“El desaparecido” di Miguel Bunuel) mi era stato regalato da un basco che esponeva una bancarella di libri a Donosti. Ricordo che rifiutò di farselo pagare in quanto “mai avrebbe pensato che qualcuno si fosse occupato di Cipriano anche in Italia”. Bontà sua.
La vita e la morte di Cipriano Martos Jimenez possiamo definirle esemplari. Spiegano da sole quale sia stata la brutale essenza (antidemocratica, antipopolare e antiproletaria) del fascismo nella sua versione iberica. Ispiratore di tanti regimi latino-americani.
Come tanti giovani diseredati (braccianti, contadini poveri, disoccupati…) del sud della Spagna anche Cipriano (originario dell’Andalusia) era stato costretto ad emigrare. Nel 1969 lavorava come operaio proprio a Sabadell (non lontano da Barcellona). Qui avvenne la sua definitiva presa di coscienza politica e la sua adesione alla resistenza antifascista. Si integrava nel FRAP (Fronte Rivoluzionario Antifascista e Patriota) legato al Partito comunista di Spagna (m-l), ma per la sua militanza venne arrestato nell’agosto del 1973.
Quello fu un anno particolarmente duro per la resistenza nei Paisos Catalans. Sia la G.C. che la BPS (Brigata Politico-Sociale) praticarono la tortura in maniera generalizzata e indiscriminata. Timpani e costole rotti non si contavano e i muri delle celle rimasero letteralmente ricoperti di sangue (come ricordavano, almeno fino a qualche anno fa, i sopravvissuti). Soltanto nel mese di maggio gli arrestati a Barcellona furono parecchie decine e tutti, chi più chi meno, vennero torturati.
E anche Cipriano, nella caserma di Tarragona della Guardia Civil, subì maltrattamenti e percosse. Finché, dato che non aveva fornito nessuna informazione, subì l’estrema violenza che gli risulterà fatale.
Lo costrinsero infatti a ingerire acido solforico (secondo una versione quello contenuto in una bottiglia molotov) per poi trasportarlo, già in agonia, all’ospedale di Sant Joan de Reus dove venne sottoposto a lavanda gastrica. Salvato in extremis e ricondotto in caserma, venne nuovamente torturato e costretto a ingerire altro acido solforico. Una seconda lavanda gastrica risulterà inutile e il giovane andaluso morirà il 17 settembre 1973 (dopo 21 giorni di agonia, senza che nessuno avvisasse i familiari di quanto stava accadendo).
Venne frettolosamente sepolto in un luogo sconosciuto senza che alla famiglia venisse concesso di assistere alla tumulazione.
Per anni il fratello si è adoperato per poterne recuperarne i resti, ma solo ora, gennaio 2023, il luogo è stato localizzato (o meglio: le autorità che sicuramente ne erano a conoscenza lo hanno rivelato).Finalmente restituiti alla famiglia, verranno trasferiti nel cimitero di Huétor-Tájar dove sono stati sepolti i suoi genitori.
Gianni Sartori